Testo di Sara Porro
Foto cortesia The World’s 50 Best Restaurants
Ieri alla Città delle Arti e delle Scienze di Valencia, Spagna, è stata annunciata la classifica dei 50 migliori ristoranti del mondo 2023, la World’s 50 Best Restaurants: il Central di Lima, dello chef Virgilio Martínez e della moglie Pía Léon, ha vinto questa edizione.
La performance dell’Italia non è stata brillantissima e a fine serata i colleghi della stampa erano un po’ abbacchiati: sono infatti slittati verso il basso – dal 10 al 41 – Le Calandre dei fratelli Alajmo (locale che però si trova in classifica dal 2006 e ha occupato un po’ tutte le posizioni: il piazzamento del 2022 era il risultato migliore di sempre), il Piazza Duomo di Enrico Crippa – dal 19 al 42 – e Uliassi di Mauro Uliassi – dal 12 al 34. Tiene il Reale di Niko Romito al n°16 (era al 15 lo scorso anno), mentre è ancora ascesa per il Lido 84, il ristorante di Gardone Riviera dello chef Riccardo Camanini, un gradino più in su del 2022, al numero 7. Cinque ristoranti, di sei che erano: dalla classifica è infatti uscito il St. Hubertus dello chef Norbert Niederkofler, che terminata la stagione 2023 a fine marzo, non riaprirà dopo la ristrutturazione dell’albergo che lo ospita, il Rosa Alpina. Nessun nuovo ingresso e poche promesse per il futuro: c’è infatti solo un italiano nella classifica 51-100, il Mudec di Enrico Bartolini.
Cambiamo però prospettiva: qual è il corretto peso che l’Italia e i suoi ristoranti dovrebbero occupare in classifica, se concordiamo (concordiamo, vero?) che sia giusto restituire la crescita della scena gastronomica di Paesi non occidentali? L’America latina – che aprì la strada con il Brasile del D.O.M di Alex Atala e il Perù di Astrid y Gaston di Gaston Acurio – si allarga grazie ai piazzamenti di Colombia (El Chat di Bogotà al numero 33) e Cile (con Boragò di Santiago al numero 29); mentre i ristoranti peruviani sono quattro, numero 1 incluso, anche grazie al sostegno dell’ente di promozione turistica locale, PromPeru (sul ruolo di questi enti torneremo più avanti). Bangkok va forte ormai da qualche anno anche grazie a uno sforzo collettivo dei ristoranti del posto, che si promuovono in formazione compatta: Gaggan Anand è tornato dopo la chiusura direttamente al 17, Le Du è entrato in classifica molto in alto al numero 15. In America Latina come in Asia (Giappone escluso), questi ristoranti hanno una clientela che proviene quasi esclusivamente dall’estero: ma sono forse gli abitanti di Nørrebro ad avere tenuto accese le luci di Noma, Geranium e più recentemente Alchemist (che tra l’altro è ha ricevuto da Gin Mare il premio The Art of Hospitality Award 2023)?
Inoltre, alla World’s 50 Best ha sempre giovato la vocazione a essere contrarian, che le ha permesso di differenziarsi in modo netto dalla Michelin con scelte iconiche come quelle riguardanti la Francia: per anni il ristorante più in alto nel paese fu il gastrobistrot Chateaubriand di Inaki Aizpitarte a Parigi, testimonianza della perdita di appeal dei templi della cucina francese classica. È lecito a questo punto dire che questa intuizione, che all’epoca sembrava quasi una provocazione gratuita, si è dimostrata corretta.
La World’s 50 Best è spesso paragonata alla cerimonia degli Oscar: in genere per indicare come il fine dining sia ormai diventato uno star system, ma questo confronto funziona bene anche per un’altra ragione. Proprio come le scelte dell’Academy hollywoodiana sono arbitrarie, così la World’s 50 Best è semplicemente il frutto delle opinioni aggregate di 1.080 food writer, appassionati di cucina e chef, tenuti a mantenere l’anonimato.
Altra affinità con gli Oscar? Quest’anno è risultato particolarmente evidente come uno sforzo (leggi: un investimento) di comunicazione mirato sia sempre più cruciale per il posizionamento in classifica: molti dei ristoranti con gli exploit migliori hanno agenzie che ne elevano il profilo portando gli chef in giro per il mondo per cene a quattro (sei, otto, dieci) mani ed eventi pop-up e che fanno molti inviti alla stampa di settore. Un esempio vistoso quest’anno è il posizionamento di Table by Bruno Verjus, ristorantino molto amato dagli insider parigini, ma fino a ieri assai di nicchia, entrato direttamente in classifica al numero 10 grazie a una spinta di comunicazione molto forte. Altri esempi: tre dei ristoranti londinesi – The Clove Club, Ikoyi e KOL, un’altra new entry direttamente al numero 23 – sono rappresentati dalla stessa agenzia di comunicazione, Lotus International; mentre l’italiana Manuela Fissore Barker lavora con Lido84 di Riccardo Camanini e Trèsind Studio a Dubai.
Connesso a questo: molte delle polemiche intorno alla World’s 50 Best si concentrano intorno a quanto sia irrealistica l’aspettativa che una classifica possa ritrarre “i migliori” ristoranti al mondo; è una critica tecnicamente fondata ma – mi spingo a dire – piuttosto ovvia; non credo che nemmeno l’organizzazione prenda la sua mission in modo così letterale. Più accurato sarebbe dire che la World’s 50 Best riflette – ma al contempo certamente plasma – gli umori degli appassionati di fine dining e le tendenze del settore; ma sempre più rispecchia anche gli sforzi diretti – di marketing, di comunicazione, di lobbying – di singoli ristoranti e, in modo crescente, di istituzioni regionali e nazionali. Dato che la presenza in classifica ha un impatto molto forte sulle sorti dei ristoranti – in particolare per chi arriva molto in alto, e per chi non è altrettanto ben rappresentato altrove, ad esempio nelle valutazioni Michelin – è naturale che molti vogliano tentare la scalata; e di per sé non mi pare che questo debba costituire motivo di sanzione. Piuttosto, a un aumento delle attività di lobbying dovrà probabilmente corrispondere un maggiore sforzo di trasparenza nei processi decisionali e di votazione.