Vita da freelance: prendersi una pausa nella sana e buona provincia italiana quando tutti gli altri lavorano
Testo e foto di Francesca Ciancio
Ho una predilezione particolare per quelle trasferte in giornata che mi portano via da Milano per 12 ore, possibilmente in settimana, quando pensi che tutti siano a lavorare in ufficio – che poi oggi è meno vero per lo smart working. Una destinazione non troppo lontana, raggiungibile in un paio di ore. Per esempio, Reggio Emilia con cambio di treno salendo su un regionale e con discesa a Rubiera.
Un centro storico minuscolo ma con un hinterland a ridosso piuttosto importante per la presenza della Tetra Pak – azienda leader nelle soluzioni per il trattamento e il confezionamento degli alimenti – un polo della ceramica internazionale come quello di Sassuolo e ben due ristoranti stellati a distanza di 50 metri l’uno dall’altro (credo unico caso in Italia): la Clinica Gastronomica Arnaldo su un lato, l’Osteria del Viandante sull’altro. Sono qui per quest’ultimo, un ristorante poggiato sui bastioni del Forte di Rubiera, una struttura del XIII secolo, limite fisico una volta tra le province di Modena e di Reggio Emilia (da qui il richiamo al viandante). È il bastione sud-est ad ospitare il ristorante che, in verità, esiste dal 2000, ma che di recente ha cambiato gestione e anche anima, pur rimanendo orgogliosamente reggiana. Il nuovo proprietario è Marco Bizzarri, presidente e amministratore delegato di Gucci (che appartiene alla galassia Kering), rubierese (si dirà così?) doc, con una grande passione per il buon cibo e il buon vino. Non a caso è anche il fautore dello sviluppo food del prestigioso marchio fiorentino delle due G incrociate con le Gucci Osterie by Massimo Bottura (suo ex compagno di classe in Ragioneria) a Tokyo, Los Angeles, Firenze e Seoul L’Osteria del Viandante è casa per il top manager, tanto che 32 anni fa l’ha scelta come location per il suo matrimonio.
L’entrata fortilizia farebbe pensare a un locale in stile medievale, ma basta varcare la soglia per capire che l’allure è quello della buona borghesia, quella che è cresciuta sul reddito e non sulla rendita, dove nessun dettaglio è lasciato al caso, ma dove l’insieme non ha nulla di ingessato o di polveroso, al contrario, è la luce a prendersi la scena, anche in una giornata invernale come questa. Subito mi piace l’idea delle diverse sale, ciascuna destinata un momento diverso: lo spazio intimo, il luogo per gli incontri di lavoro, la stanza degli amici, la terrazza a U per mangiare all’aperto. Come dire, a ciascuno il suo spazio, anche al ristorante. Vengono in mente alcune scene di interni dei film francesi dove le case bellissime sono co-protagoniste insieme ad attori e attrici.
Qui penso a una conversazione avuta poche settimane fa con un gastronomo di lungo corso che per trent’anni ha lavorato per un’importante guida ristoranti. L’esperto sosteneva che il metodo adottato dalla sua guida – quello di giudicare esclusivamente la cucina di un posto e dunque solo quello che viene servito in tavola – fosse l’unico parametro valido per fare il mestiere di degustatore e l’unico strumento idoneo a un testo che guidasse alla scelta di un locale dove mangiare. Il resto, suppellettili, musiche in sottofondo, arredi, preparazione e gentilezza degli uomini e delle donne di sala, poco importano, anzi, distraggono dal giudizio dell’unica cosa che conta, capire quanto è bravo lo chef.
Per me non è così ed esperienze come quella fatta all’Osteria del Viandante confortano il mio disaccordo. Non sono una gastronoma, ma sono un’addetta ai lavori, ho una buona esperienza di frequentazioni di tavole ma vivo la condizione della consumatrice “normogastrodotata”, che è quella di colei che, quando va al ristorante, vuole entrare in una bolla di bellezza e di bontà, sentirsi un po’ speciale per la scelta fatta, farsi coccolare dagli addetti in sala, dire “mi piacerebbe avere questa collezione di piatti”, trovare azzeccata la scelta dei saponi in bagno. Soprattutto pensare, una volta uscita, di aver speso bene i miei soldi (che per un/una normogatrodotato/a non rappresentano mai un non problema). Chiariamo, qui ero ospite, ma quando mi piace tanto un posto dico sempre “Ci devo portare…(segue nome di persona importante)”. Qui è successo e ho pensato al mio fidanzato e ai miei genitori.
Il locale vanta già una stella Michelin, più la stella verde che la “Rossa” attribuisce ai ristoranti che hanno un approccio sostenibile in cucina e nei consumi. Di sostenibile c’è anche il recupero dei materiali già presenti sul posto, come i pavimenti originali in cotto e le cementine d’inizio Novecento. Dai muri ricoperti da brutta carta da parati anni ’80, sono emersi affreschi dell’800, dalle cantine sono stati recuperati sedie e mobili. I lampadari di Murano sono degni dei più belli palazzi di Venezia. Insomma non la tipica casa borghese, ma l’immaginifica casa borghese che in tanti vorremmo avere.
I miei personali coup de coeur sono i piatti Richard Ginori d’ispirazione cinese (iconica casa di ceramiche di proprietà di Gucci dal 2013) e le carte da parati – questa volta nuove in alcune sale – molto Alessandro Michele style (l’ex direttore creativo del marchio Gucci, andato via nel novembre scorso). Come potrebbe descrivere questo stile una non esperta di moda (che poi sarei io)? Opulento, libertino, astratto, sono gli aggettivi che mi paiono più calzanti.
Ok, mettiamo i sensi nel piatto.
La cucina è quella di Jacopo Malpeli (affiancato da Leonardo Giribaldi), esperienza emiliana ai massimi livelli con trascorsi all’Antica Osteria della Peppina, alla Locanda Mariella e anche all’avanguardistico Inkiostro di Parma. Cuoco super autoctono che prepara le cose che ama mangiare, come il prosciutto crudo in diverse stagionature accompagnato dallo gnocco fritto integrale o i cappelletti del Forte di Maria Pia fatti alla reggiana, ovvero in brodo di manzo e cappone, di una tale piccolezza che fanno “tenerezza” a mangiarli (ma dura pochissimo lo scrupolo). Il piatto che mi piacerebbe replicare a casa per l’effetto wow tra i commensali è L’abito non fa il raviolo, un raviolo al ragù di salsiccia, besciamella leggera e Parmigiano Reggiano gratinato che sa gustosamente – e non me ne voglia lo chef per la banalizzazione – di lasagna.
Il piatto che consiglierei a “un’amica orientale con ristorante etnico” è Vaccinara Roma-Pechino, ravioli al vapore ripieni di coda alla vaccinara, pinoli e uvetta, serviti con salsa al cacao amaro: per una volta mettiamo da parte il gusto umami, vi prego. Il piatto che vorresti avere sempre a portata di mano con un solo schiocco di dita è il carrello del gelato. Quando il bravo cerimoniere di sala Andrè Joao Cunha Fiaes entra in sala con il carrello l’effetto è quello di sentirsi un po’ Pinocchio nel paese di Bengodi. È vero c’è solo un gusto, la crema – con bacche di vaniglia, uova dell’Appennino e latte di montagna – ma con guarnizione a scelta tra nocciole, aceto balsamico invecchiato 25 anni, Chartreuse, cioccolato bianco e al latte.
Il menu degustazione più completo, Il Cammino del Viandante – 10 portate per 120 euro vini esclusi – è il percorso che meglio fa comprendere la cucina di Malpeli: goduriosa ma non godereccia, esteticamente gradevole ma non concettuale, con tutti gli ingredienti ben in vista e di semplice identificazione. C’è rispetto per l’aspettativa del “viandante” goloso che, se arriva sulla Via Emilia, desidera mangiare non solo bene ma “buono”. Insomma, una proposta rassicurante, senza essere scontata. Anche lo chef pare avere un’apparenza solida: noto che non mostri tatuaggi (ovviamente, per pudore, non gli chiedo se ne ha) e la sua barba è più simile a quella di un giovane Fidel Castro che a quella di un barbiere hipster.
Anche sul vino si casca bene, anzi benissimo. Qui torniamo alla passione di Marco Bizzarri che ha ampliato la già importante cantina ereditata. Oltre 2000 etichette per quasi 8mila bottiglie. È Mauro Rizzi, da 23 anni custode di questo “forziere”, che accompagna i curiosi nella cantina costruita su due piani. Sembra davvero un pozzo delle meraviglie con le pareti incastonate di verticali importanti – Borgogna e Bordeaux in primis – ma anche tanto Piemonte. A tavola il pairing è particolarmente riuscito e, lasciando fare, i neofiti possono scoprire belle etichette. Io, che neofita non sono, ho riassaggiato il Sémillon di Elena Pantaleoni dell’azienda La Stoppa, Buca delle canne, un Sauternes alla piacentina che ti porta di nuovo in quei bei appartamenti francesi di qualche rigo fa.
Osteria del Viandante
Piazza Ventiquattro Maggio, 15
42048 Rubiera (RE)
Tel: +39 0522 260638
osteriadelviandante.com