Testo di Miguel Pires per Mesa Marcada
Traduzione di Flora Misitano
Foto di Miguel Pires (a eccezione dell’antipasto e del gaucamole, tratte dal profilo Instagram di Metzirestaurant)
Ieri è stata un’altra giornata strana, di grande angoscia, in questi giorni di malessere. Con 3 ore di fuso orario, quando mi sveglio presto a São Paulo, Lisbona è già in piedi da un pezzo, le notizie viaggiano a pieno ritmo: altro record di vittime di questo farabutto di un virus, un messaggio mi informa che un amico (lontano) è in terapia intensiva e poi la telenovela dei vaccini – i ritardi, gli annullamenti, le categorie prioritarie che non lo sono, e i miei genitori, ottantenni, che tardano a esserlo.
Come se non bastasse, il governo decide di sospendere i voli da e per il Brasile fino (almeno) al 14 febbraio. Sì, possiamo tornare con un “volo umanitario”, a condizione che oltre al tampone molecolare, che era già obbligatorio, osserviamo una quarantena di 14 giorni. È vero che già da qualche settimana avevamo deciso di rimandare il rientro a Lisbona di (almeno) un altro mese, fin verso la fine di febbraio. Ciononostante, e pur essendo ospitato in famiglia e con tutti i confort, mi sento un po’ senza patria (è psicologico, lo so, poi passa).
“Andiamo a pranzo”, mi chiede un amico. “Dai, andiamo”, rispondo. “E se andassimo a quel nuovo messicano?”. Da settimane sono in casa in semi-clausura, con una fuga ogni tanto fuori città, da amici (non senza essermi fatto infilare un bastoncino cotonato lungo la narice) e qualche altra sporadica uscita nel quartiere. Non che sia in vigore il coprifuoco a São Paulo, ma non mi sento a mio agio a uscire. Gli attuali numeri della pandemia sono tutt’altro che rassicuranti da queste parti e il cerchio attorno ai ristoranti si va stringendo: capienza ridotta al 40%, chiusura obbligatoria alle 20:00 nei giorni feriali e chiusura totale nei fine settimana.
Mascherina FFP2 indossata, prendo un Uber black e tengo i finestrini aperti (nonostante i 30°C) fino al quartiere di Pinheiros. Mi aspettano, al ristorante, una pistola per misurarmi la temperatura, un dispenser di gel disinfettante, impiegati con mascherina e face-shield e il mio amico João Ferraz, già al tavolo, in una sala quasi vuota. Si sente circolare l’aria fresca dei condizionatori, ma tolgo la mascherina solo quando arriva la michelada e il primo piatto del menu, un Guacamole floreale con chips di mais handmade. Top! Segue un’Ostrica alquanto kitada, con un delicato aguachile d’uva e limone rosa e un crudo de prejereba (un pesce) con un rinfrescante aguachile verde. Sono partito, mi sono allontanato dalla realtà folle e scomposta, sono in un altro mondo.
Segue la Tostada campechana con polpo e insalata di pesce; un mole vegetariano di pistacchi, broccoletti e pomodori confit; un taco de borrego; Mole, ricotta e banana; e per pulire il palato un Sorbetto di mango puro con chamoy (una pasta a base di frutta in salamoia): fresco, salato, dolce, lievemente asprigno e un tocco di peperoncino, tre cucchiaiate in tutto. Che meraviglia! A concludere, Fresas con crema”, un parfait di tequila con texture di fragola e meringa di ibisco. Wow!
C’è chi, in questi momenti, si rifugia nel cosiddetto comfort-food e lo apprezzo anch’io. Ma alle volte ho bisogno che mi si stimolino i sensi, che mi si punzecchi il palato. Era proprio di questo che sentivo il bisogno. Sapori avvolgenti e ben definiti, tutt’altro che prevedibili. Un ottimo pranzo. Che bella cucina messicana quella della coppia del Restaurante Metzi, Luana Sabino ed Eduardo Ortiz. Fondata sulla tradizione, ma contemporanea e locale – nell’uso e nella sperimentazione con ingredienti di stagione e del territorio. “Meglio che da Cosme!”, gli dico, riferendomi al ristorante newyorchese (1 stessa Michelin), dove si erano incrociati prima di venire a São Paulo. Il cibo cura. Anche solo l’anima.