Testo di Letizia Gobio Casali
Foto cortesia
Il greenwashing non risparmia i ristoranti. Ormai dichiararsi sostenibili è il mantra di ogni settore, dalla moda alla cucina, il viatico per ogni forma di consumo che non colpevolizzi chi lo pratica. Il difficile è capire cosa si cela dietro questi slogan, oltre le formule di generico impegno a favore dell’ambiente. “Quando un ristorante si dichiara sostenibile, nel 90% dei casi questa affermazione riguarda solo la filiera del cibo” dichiara Paolo Ferretti, co-fondatore della holding Mo-Food insieme a Norbert Niederkofler, lo chef ideatore del format Cook the mountain nonché il detentore di 3 stelle Michelin (e di una stella verde) nel suo ristorante di Brunico.
Di conseguenza, grazie a un incontro fortuito con Luigi Mazzaglia, fondatore e General manager di Vireo, un ente certificatore con base a Padova, Ferretti ha pensato di valorizzare l’esperienza nata nel 2002 con AlpiNN, il ristorante ospitato nella vecchia stazione della funivia di Plan de Corones, e di sistematizzare in una serie di linee guida quanto ivi già applicato. Elementi quali il recupero di una struttura esistente, la scelta di arredi in materiale locale e a opera di artigiani del posto, l’utilizzo di acqua microfiltrata, hanno trovato collocazione in CER (acronimo di Care’s Ethical Restaurant), una certificazione di sostenibilità che prende in esame l’impatto complessivo sull’ambiente che può derivare da un ristorante. Questa specifica attestazione, presentata la scorsa settimana durante una conferenza stampa presso la Südtirol Lounge di Fiera Bolzano, prevede la valutazione di un ristorante secondo 7 differenti categorie, che a loro volta racchiudono 129 diversi aspetti da esaminare.
La creazione del menu diventa, quindi, solo uno degli ambiti verificati e si assomma, in primo luogo, a un’analisi delle condizioni di lavoro di un ristorante. In quest’ambito, per esempio vanno esaminati il tipo di contratti dei dipendenti, le ferie e gli orari, la parità di genere nello staff, i momenti di formazione. La seconda categoria è rappresentata dall’ambiente: con essa si intendono valutare le fonti di energia, il consumo di acqua, il corretto smaltimento dei rifiuti. La terza voce riguarda la stagionalità e tipicità locale dell’approvvigionamento delle bevande e delle materie prime, mentre la quarta concerne prettamente il menu, con una valutazione della percentuale di piatti vegetali e la verifica del recupero degli scarti. Al quinto posto, si esamina la struttura di un ristorante (per esempio, se era già esistente e se è stata fatta ex novo, e in che materiali) e di seguito l’efficacia nella gestione del magazzino e delle prenotazioni.
Ultimo punto, in cui Ferretti è un maestro, la comunicazione digitale e culturale del proprio impegno ecologista. Il pagamento di un audit alla società certificatrice, che è di 1200 euro l’anno “non garantisce però di ottenere la certificazione” chiarisce Mazzaglia. Per questo il pagamento viene effettuato ex ante e ogni anno, alla scadenza della validità della certificazione, che si declina in tre tipi (bronzo, argento e oro) in base al punteggio raccolto. La sufficienza in tutte e 7 le categorie “non basta a passare l’esame. Serve qualche elemento in più” puntualizza Ferretti, la cui società ogni anno richiede 800 euro per la gestione e la difesa del copyright del marchio CER.
“Sicuramente CER non diventerà un grande business” profetizza Ferretti, che per ora l’ha attribuita al citato AlpiNN, all’Atelier Moesmerr e alla pizzeria Il corso di Bolzano. In ogni caso, è un’attestazione trasparente dell’impatto della ristorazione sull’ecosistema, nonché un valore aggiunto per la clientela. Basterà a fidelizzarla verso i ristoranti più rispettosi dell’ambiente?