Il modello di ristoro atipico & brillante by Vecchia, Costa, Bucci e la loro ballotta fuori dai registri
Testo di Lorenzo Sandano
Foto cortesia di Ahimè
La coerenza è la virtù degli audaci…e degli autentici aggiungo con spigliata convinzione. Lo elaboro fortemente quando penso al lavoro di Ahimè a Bologna. La prima volta che ho messo i piedi in questa insegna era ancora un cantiere in corso, affacciato su una vietta anonima ben visibile dalla vetrata del locale. I due Lorenzi artefici del progetto (Vecchia e Costa) mi traghettavano con entusiasmo nella loro idea di quel format così outsider per la scena bolognese: azzardando un modello di stampo internazionale, incentrato sui vini naturali, sulla manifattura artigiana dietro ogni preparazione e sul ricambio quasi quotidiano dei piatti in menu (rispetto alla disponibilità di ingredienti e switch stagionali), ma soprattutto avevano già coniato uno slogan iconico quale “A Simple Place for Daily Use”.
Ecco, la situazione buffa è che dopo quella visita – da cui saltò fuori un’anteprima che potete leggere qui – non sono più riuscito a tornare da Ahimè. Una mancanza da disastrato quale sono che ho sanato solo di recente, caricandomi addosso un hype esagerata per quel che potevano aver concretamente messo in piedi quei due pazzi illuminati dei Lorenzi, coadiuvati da un peso massimo dell’accoglienza (nonché socio) quale Gianmarco Bucci. In casi come questo le aspettative rischiano di danneggiare l’esperienza su scale siderali, ma lo dico subito senza girarci intorno: non solo hanno assolto la mission originale, hanno fatto anche di meglio. Quella vietta spaurita ora si protende magicamente verso una pletora di localini che pullulano di movida indigena; l’atmosfera e il look del locale proiettano istantaneamente verso dimensioni estere senza disorientare l’ospite; lo spazio è divenuto un fulcro agglomerante di ristoratori, produttori e artigiani del circondario (e non solo) in un mood di collettività magnetica.
Il fattore più importante di tutti però, è che la cucina di Lorenzo Vecchia si muove fluida, aitante e rispettosa della filosofia promossa alla genesi di tutto. Se non bastasse, mangiar qui spacca a tal punto da farmi locare la mia cena tra le vicissitudini eno-gastronomiche più divertenti, vere e godibili degli ultimi tempi. Si è pervasi da un’elettricità polarizzante appena varcata la soglia e poggiati al bancone che rivolge lo sguardo sulla cucina a vista. Vibrazioni rimangono immacolate sino alla fine, raggiungendo picchi imprevedibili di vivacità e benessere.
E non sto parlando solamente di cibo: l’ironia contagiosa di Bucci si miscela in scioltezza con la sua preparazione in campo enologico shakerandovi in lunapark di calici selezionati alla grande; l’affabilità e il profilo di rango (trascorsi da Alajmo e non solo) di Gianmarco Martinelli (altro profilo fondante in sala) saprà trascinarvi con classe nel mood scapigliato del locale scrutando le vostre esigenze manco fosse un’analista da 200 euro l’ora. L’accessibilità e l’attitudine con cui è studiata l’offerta, infine, vi stamperà un sorrisone in viso appena acciuffato il menu. Il mio consiglio? Radunate un gruppetto di amici e – secondo appetiti comuni – ordinate tutto. C’è da godere di brutto in un girotondo compartir-style, ove la mente è finalmente libera dal vivisezionare ogni portata, perché l’approccio di Vecchia punta coscientemente a sfere molto più interessanti.
“Ho abbassato volutamente qualsiasi tono respingente nella costruzione delle ricette – spiega – voglio far star bene la gente. Massimo 3/4 ingredienti nel piatto, dettati dal mercato, dal periodo e dai miei fornitori con l’obiettivo di non scartare nulla. Si tratti di vegetali, carne, pesce o altro non cambia. Quando mi arrivano animali interi, tutti i tagli consumabili rimangono in menu elaborati in più varianti sino a esaurimento scorte. Idem per qualsiasi altro prodotto. La rotazione della carta è molto rapida certo. Fondata sull’istinto, su come interpreto la materia prima al momento e sui mezzi che abbiamo a disposizione qui, ma lo spirito portante è proprio di non rimanere incatenati a una perfezione fittizia o idealizzata, bensì di inseguire un processo realmente sostenibile e di trasmettere il piacere spensierato nel vivere il locale nella sua interezza”.
A brilliant place for daily use
Sarò vittima del nome che ci lega, ma la centralità di questo suo pensiero si allinea perfettamente con quel che cerco in questo prototipo di ristoro. E, giusto per avvalorare la causa, sottolineo che Lorenzo e la sua brigata operano in una micro-cucina su scala Mighty Max (citazione NERD): nel darvi un prospetto simpatico, pensate che le pentole per bollire l’acqua della pasta vengono locate sulle planc al fine di ottimizzare gli spazi. La strumentazione tecnica quindi – per forza di cose – risulta sottodimensionata in paragone a quelle canoniche. Eppure, Ahimè macina coperti con disinvoltura impressionante.
Sarà che tutto ciò su cui Vecchia poggia i polpastrelli pare saltato fuori da una struttura culinaria decisamente più ricca di risorse. L’esempio del suo favoloso pane e della sua miracolosa focaccia al formaggio è più che mai calzante: impasta, lievita e inforna tutti i santi giorni in un contenitore che manderebbe ai pazzi chiunque si cimenti un minimo con l’arte bianca. Quando assaggi le sue creazioni farinacee però rimani a bocca aperta. Assuefatto, azzarderei, se spalmi anche il suo burro montato al ginepro sulle strutture peccaminose di quella crosta/mollica recapitata all’esordio del pasto. Seguono i salumi fatti in casa con i maiali di Federico Orsi (altro socio del gruppo): lardo, pancetta e salame da sturbo. E se per caso fortuito, come il nostro, nei mesi correnti Lorenzo ha maneggiato parecchie oche nelle retrovie, può cascare in mezzo a quel tagliere anche un prosciutto del nobile pennuto stagionato a puntino.
Sulla stessa scia – visto che qui ogni elemento è contemplato come fosse un suino e non si butta via nulla – dall’oca il nostro cuoco partorisce una Tartare con aglio caramellato e berberè dalla propulsione aromatica/palatale sconvolgente. Spoilerando poi qualche passaggio più avanti del percorso (ma da Ahimè il disordine ordinato regna sovrano) con i fegatini dello stesso animale Vecchia plasma anche uno degli highlight della serata: uno Spaghettone mantecato al fegato d’oca, prezzemolo e limone. Minimalismo così efficace, acuminato e avvolgente da farti sobbalzare sullo sgabello dalla prima forchettata. Ci sono anche dei capisaldi che ciclicamente si riaffacciano in carta: tipo l’Ostrica à la bourguignonne che esibisce uno shottino polposo di salinità pungente, restituendo tutta la pienezza evocativa della classica ricetta francese. I Ricacci (comunemente scarti vegetali a base di crucifere, erbacce o vegetali a foglia) traggono assetto regale e clorofilla sgargiante in una combo con sedano e pesto di alliaria (pianta perenne di origine boschiva). Le Mezze maniche, burro allo scalogno e limone bruciato sono un condensato di goduria scellerata che non rimane ancorata alla pancia: il palinsesto di contrasti punteggiati al cesello rallegrano ogni boccone con dinamismi verticali in divenire. Su dritta di Giamma Bucci, se le mangiate con l’ausilio del cucchiaio sono ancora più buone. È dannatamente vero!
In una lista che non prevede divisioni tra antipasti, primi e secondi, giunge poi il turno dell’Uovo (marinato su ispirazione nipponica del nitamago) con asparagi, salsa olandese e Parmigiano Reggiano: rilettura di un abbinamento ultra-collaudato che riesce a sommare complessità con inedite suggestioni d’estasi straripante. Uova su uova (che testura finissima quell’olandese) accostate a punte amaricanti di verde col puntuale rilancio umami del formaggio e della marinata giapponese. Tocca porre un freno in chiosa al reparto salato (ma io sarei andato avanti in loop senza problemi) con una Millefoglie di patate (planciata e dorata al burro), crema di mais e paprika affumicata. Detesto ripetermi, ma trovatemi un solo difetto in questi multistrati di tuberi umido/croccante, sorretto dalla rotondità setosa del granturco e dal twist fumé della spezia? Da ribaltarsi.
Non parco, mi sparo anche un bis di dolci, che qui da Ahimè trasudano affettività provocatoria senza alcuna inibizione: la Pera al vino rosso con crema inglese alla nocciola profuma di memorie domestiche restaurate al futuro; il Bombolone ripieno (riempito al momento con tre differenti farce) ti tele-trasporta all’istante sulle spiagge di Rimini/Riccione (per i locals) su quelle di Ostia/Nettuno (per i romanacci come me). Un tripudio infantile senza pari nell’azzannare quel paffuto involucro fritto impiastricciandosi ovunque di crema: che in questo caso eleva il ricordo fanciullesco su vette pirotecniche grazie al quid del pino mugo e delle erbe amare. Epilogo col botto. Mentre i due Lorenzi e i due Gianmarchi (che quartetto di omonimi!) transitano dall’altro lato del banco a fine servizio per un controllo qualità –affrontando anche loro l’epico bombolone – rincaro la convinzione sulle mie parole iniziali e su quanto Ahimè risulti un posto unico e speciale, non solo per Bologna. Un luogo semplice per un uso quotidiano recitava quel motto confidato in preview: ci avevano preso di brutto, coniando qualcosa che, se possibile, nella sua realizzazione pratica vale molto molto di più.
Ahimè
Via S. Gervasio, 6e
40121 Bologna (BO)
Tel: +39 051 498 3400
www.ahime.it/