Testo di Letizia Gobio Casali
Foto cortesia di Slow Food Editore
Urbani è il (cog)nome che riassume 170 anni di storia del tartufo in Italia e probabilmente anche quello che ne rappresenta il futuro. Sì, perché a dispetto di una produzione sempre più limitata (sia del tartufo bianco sia del nero), a causa del mutamento climatico, dell’uso di sostanze chimiche in agricoltura e di un consumo dissennato dei terreni per cementificare, da 170 anni a Scheggino (Umbria) la famiglia Urbani commercia, valorizza e preserva il prezioso tubero. “Ciò che siamo e ciò che facciamo sono la stessa cosa” ha riassunto con mirabile sintesi Olga Urbani, comproprietaria dell’azienda e creatrice dell’Accademia del Tartufo Urbani, un centro tecnologico gastronomico d’eccellenza. In effetti, le due storie, quelle della famiglia Urbani e del tartufo, da decenni coincidono e ancora di più le vicende si intrecciano dal 1963, quando Urbani ha acquisito anche la proprietà dell’azienda piemontese Morra, la principale società di vendita del tartufo bianco di Alba, divenendo così monopolista invidiatissima di un prodotto italiano oggetto delle brame del mondo intero.
La faticosa trattativa per l’acquisto dell’azienda Morra è stata rievocata nel corso di un incontro tenutosi a Eataly Smeraldo di Milano da Oscar Farinetti, un nativo di Alba che “nondimeno” ha da tempo cordiali rapporti con i signori del tartufo nero, al punto da venderne i pregiati prodotti. Di Farinetti è anche la prefazione del raffinato volume Le stagioni del tartufo, edito da Slow Food, che raccoglie una serie di ricercate ricette a base di tartufo elaborate da chef stellati e dalle Osterie d’Italia. Ma Le stagioni del tartufo non racconta soltanto una storia di gusto e di eccellenza, bensì, ha ribadito Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food (presente all’incontro e similmente autore di un contributo al volume), indirettamente testimonia di come rispettare i luoghi in cui si vive e la natura che li popola, mantenendo i tartufi nel luogo di origine e di come coltivare in armonia con l’ecosistema locale, dichiarando un’origine e una filiera davvero trasparenti.
Da questo impegno ambientalista nasce però anche l’urgenza di una generale svolta sostenibile che assicuri a Francesco Urbani, esponente della sesta generazione degli Urbani nel campo dei tartufi, “di non rappresentare anche l’ultima”. La lungimirante visione di Francesco Urbani si chiama Truffleland, un’azienda specializzata nella tartuficoltura, cioè nella produzione e vendita delle piantine da tartufo micorrizate (ovvero piante, come i lecci o i carpini neri, ottenute da seme certificato o da micropropagazione/talea, unite in simbiosi con le principali specie di tartufo). Al momento sono già più di un centinaio gli agricoltori partner di Truffleland che, “coltivando” tartufi, si sono assicurati una elevata redditività e in anticipo hanno trovato in Francesco un compratore per i loro prodotti.
Ma la tartuficoltura presenta anche numerosi altri vantaggi: le nuove piante producono ossigeno e compensano la CO2, la loro coltivazione permette di avere sotto controllo i terreni destinati a esse prevenendo incendie dissesto idrogeologico e soprattutto consentono il recupero di luoghi finora improduttivi. Francesco ha dichiarato di avere recuperato finora 500 ettari e conta di espandersi dall’Umbria all’Abruzzo alle Marche, fino a Piemonte e Sicilia. In più ha annunciato una collaborazione con l’Università di Bologna per studiare la piantumazione per il tartufo bianco. Se l’operazione riuscisse, il tartufo potrebbe diventare quel cibo democratico che oggi, per il suo prezzo e per la sua rarità, non può essere? Difficile anche solo immaginarlo. Perché, se sei generazioni fa, il primo Urbani si accaparrava un bene che nessuno voleva in cambio di un po’ di latte e farina, oggi chiunque assaggi i prodotti Urbani ormai si rende benissimo conto che il tartufo non è qualcosa di scarso valore. Al contrario: è “un diamante sporco di terra”.
Le stagioni del tartufo – Slow Food Editore