Testo di Lorenzo Sandano
Foto di Letizia Cigliutti – cortesia di Piazza Duomo
Un menu dedicato al vino-simbolo del territorio, con l’intervista a Enrico Crippa sulla genesi del percorso. Inoltre, il fresco cambio di regia in sala alla riapertura.
“Questo periodo di pandemia a singhiozzi ha concesso anche cose buone dai. Ad esempio, mi ha dato lo slancio per sposarmi. Di nascosto, in comune, con solo dodici invitati. Neanche i miei genitori c’erano. Dovevi vedere la faccia di mia mamma quando ci siam presentati a casa vestiti in ghingheri senza preavviso. Dopo 17 anni (Silvia e io stiamo insieme da quando ho fatto ingresso al ristorante) direi che era ora di azzardare il passo. Stranamente per noi il lockdown è servito a rafforzare il rapporto. All’inizio non sapevo come gestire tutte quelle ore fermo, ma poi ho riscoperto il piacere della quotidianità. Come appurare l’esistenza del programma di Lilli Gruber, ipnotizzato dal suo modo di arrabbiarsi in TV, che non avevo mai visto in vita mia. E la convivenza di coppia ora sembra che scorra uguale dopo il matrimonio, ma quando ci salutiamo la mattina c’è un momento in più in cui ci giriamo per guardarci con affetto a vicenda”.
Scoppio di emotività per Enrico Crippa, ritrovato alla riapertura del Piazza Duomo di Alba. Uno chef che non necessità certo presentazioni, ma che – al contrario – merita qualche virgolettato in più sul suo nuovo assetto umano: loquace come non mai, rinvigorito, disteso e sovraccarico di stimoli per le stagioni a venire. Fresco di fede al dito, ci scorta nelle suggestioni ammonticchiate in questi mesi complessi per la ristorazione tutta, introducendo un nuovo percorso nato proprio a ridosso delle cicliche aperture/chiusure pandemiche: il Menu Barolo. “Questo è a tutti gli effetti un anno di ri-collaudo – spiega Enrico – La perdita di una persona importante in squadra come Antonio Zaccardi al tempo già mi aveva scosso, spingendomi a mettermi più in gioco. Inoltre, questo interstizio temporale mi ha dato modo di ragionare meglio con altri elementi in brigata. Punti di domanda condivisi che mi hanno fatto mettere in luce il valore dei ragazzi, dal più creativo a quello più metodico. Un modo per me inedito di cogliere le potenzialità individuali di ognuno e metterle a frutto anche nella costruzione dei piatti nuovi. Dopo la pandemia abbiamo perso diverse figure che poi magicamente si sono reintegrate in corso d’opera. Un momento, insomma, di costante mettersi alla prova, che ha rivelato passaggi sorprendenti. Lo stop imposto a molti turisti, ad esempio, ci ha fatto scoprire che il motivo per cui diversi locals non venivano al Piazza Duomo era dovuto al loro essere ritardatari cronici nel prenotare online. Durante la prima riapertura quindi abbiamo ospitato tantissimi italiani, tra cui molti giovani che da anni volevano venire a mangiare qui. Il nostro portale prima era preso d’assalto dagli stranieri e accogliere la bellezza del confronto rinnovato con i propri connazionali per me è stato rigenerante. Un mezzo di fiducia per ottenere riferimenti più diretti sul piano gustativo. Questo tipo di riscontro da palati italiani mi ha dimostrato che rileggere una ricetta classica risulta molto più complesso che comporre da zero un esercizio creativo. Insomma, ci voleva tutto questo per accorgermi nuovamente della ricchezza del nostro territorio. Ciò che abbiamo sempre sotto gli occhi, ma che forse non consideravo abbastanza. Perché è bello viaggiare, ma anche ridar lustro alle nostre risorse merita tempo e riflessioni”.
LO STUDIO ALLE ORIGINI DEL VINO
“Così finalmente, spronato dalla famiglia Ceretto, abbiamo fatto sbocciare questo menu Barolo – riprende Enrico – agli esordi ci credevo poco, sono onesto, ma poi è scattata una molla interiore per convincermi che il vino ‘re’ di queste zone meritava un degno ringraziamento. La prima uscita è stata lo scorso giugno e vedere una risposta così positiva in un mese caldo è stato un incentivo in più per rifinirlo. Parliamo di un percorso interamente regolato dalla personalità del Barolo. Ove il vino è un ingrediente perno vero e proprio e non una parte complementare. Una sfida che a monte – merito delle competenze e della disponibilità di Federico Ceretto e Vincenzo Donatiello – ci ha condotti verso un itinerario attraverso l’intero suolo langarolo. Pronti a interfacciarci con tutti i produttori che hanno reso grande questa icona enologica nel tempo. Dai patriarchi del genere ai più giovani e moderni interpreti, individuando le piccole differenze dei singoli terroir limitrofi. Un tour denso di rivelazioni e conferme, senza le quali non sarei mai riuscito a immaginare i piatti. Ammirare chi ragiona esclusivamente sui propri filari, chi attinge da vari appezzamenti o chi crea blend sino al prodotto finito. Toccante a dir poco l’incontro con Pio Cesare, tra i primi a rimarcare come l’approccio del viticoltore sia cambiato al passo con i cambiamenti climatici. La fisionomia del vino, dalla vigna alla bottiglia, è mutata drasticamente. L’idea stessa di tenere una bottiglia fissa a invecchiare come un bonsai sta virando su consumi più rapidi. Parlare con figure come lui, anche attingendo spunti sui piatti che amavano mangiare con i loro vini, mi ha aperto la mente sul lavoro in cucina. Altri due passi indispensabili? Le degustazioni in batteria coordinate sempre da Federico e Vincenzo, assaggiando diverse annate e bottiglie a temperature variabili, per capire anche come servirle. O ancora il caso fortuito in cui, operatomi a un dente, non potevo più assaggiare e quindi mi sono focalizzato solo sulla parte olfattiva dei vini. Una fonte inesauribile di nuove percezioni. Piazza Duomo in effetti prima era totalmente incentrato sull’orto, quindi era necessario operare una sorta di reset per sperimentare ricette idonee al dialogo con il Barolo.
Un processo creativo che ci ha sconvolto non poco, portandoci anche ad approfondite ricerche sul fronte storico-culturale. Il primo cuoco a lavorare su questa metrica di abbinamenti cibo/vino era stato Giovanni Vialardi nel 1800. Partendo da nuove basi concettuali, ho dovuto rimodulare equilibri e compromessi nel mio stile personale. Riuscire a indirizzare l’affinità per il mondo vegetale verso una lettura più sostanziosa è stata una competizione verso me stesso. Se ho sempre lavorato molto con gli ortaggi, non potevo mica mettermi a fare polenta e brasato. Mi sono reso conto che in fondo alle verdure mancava solo la parte grassa e da lì mi sono sbloccato, assecondando una visione più di pancia. Una possibilità e un punto di crescita per la mia cucina, anche nel lasciarmi andare con i condimenti e con ingredienti maggiormente godibili. Penso al sostanzioso benvenuto iniziale, che omaggia Torino e la nascita dell’aperitivo con una folta sequenza di assaggi ove riecheggia borghesia e povertà tra Francia e Italia, unificate nella città piemontese. Oppure, il modo aggressivo di condire l’insalata vignaiola rendendola quasi appassita: capace di accudire il bollito avanzato a mo’ di fagotto che i contadini si portavano al lavoro in campagna.
La decisione ardita di rimpiazzare la localissima Fassona del main course con una Podolica: gli scambi sinergici con l’allevatore Michele Varvara, infatti, mi hanno consentito di aver sottomano una carne dalla marezzatura sconcertante. Materia che non ha bisogno di nessuna salsa, perché il suo grasso intrinseco è già un condimento naturale in perfetto match con il vino. Abbiamo provato mille condimenti e fondi, ma l’assaggio finale ha convinto tutti sul lasciarla in purezza. Infine, ho mobilitato uno studio a ritroso sulle tipologie di pani antichi piemontesi e sulla biscotteria secca del territorio. Mi son chiesto perché nei ristoranti finiamo per servire tutti pani uguali. Molto meglio acquistarli da fornai di livello, magari storici, oppure ripristinare formati desueti come la biova, la lingua di suocera o quello creato da Carlo Alberto per rifocillare le truppe, a cui ho dedicato non a caso una singola portata. Le soddisfazioni che ci sta dando questo menu sono davvero tante e io in primis ne risulto stupito. Sono una persona che ogni mattina si chiede se la sera prima ha fatto la cosa giusta. Stranamente, pensando al degustazione Barolo, posso rispondere in chiave affermativa senza esitazioni”.
IL MENU BAROLO
Cambiamenti e mutazioni, non solo ai fornelli, perché dopo un tragitto lastricato di successi, Vincenzo Donatiello lascia le redini della sala del Piazza Duomo: rimanendo nella famiglia Ceretto per un progetto all’estero sul quale ancora non possiamo rivelare nulla. Largo al nuovo e alla gioventù, perché a gestire l’ospitalità ora si destreggiano Davide Franco nel ruolo di Restaurant Manager (classe ’86), pugliese con formazione da Blumenthal, al The Connaught e al Core di Clare Smith. Mentre nella veste di sommelier troviamo un atletico e preparatissimo Jacopo Dosio (astigiano classe ’95): con esperienze di rilievo presso Magorabin; Waterside Inn; Marc Veyrat; Villa Crespi e Due de Monde in quel di Melbourne. È proprio lui, con ritmo incalzante, a scandire le fasi millimetriche degli abbinamenti con i diversi Baroli pensati per il menu di Crippa.
Una cavalcata enologica che normalmente prevede etichette di cantine differenti, ma che durante la nostra esperienza ci ha dato modo di immergerci integralmente nell’universo Ceretto: climax di calici che ribalta qualsiasi ordine canonico nel servizio di annate più giovani o anziane. Viceversa, dopo un tonificante Americano Cocktail (confezionato con sfoglia di arancia edibile e Barolo Chinato ça va sans dire) sarà proprio Dosio a illustrarci come un Bricco Rocche 2008 si mostri ideale alla fase iniziale del pasto per la sua pronunciata freschezza e dinamicità. L’aperitivo in omaggio a Torino (come anticipato sopra dallo chef) nobilita fusioni ed effusioni gastronomiche – umili/borghesi – tra la Corte di Savoia e la Francia, in forma di copiosi snacks, bocconi e canapè posati quasi a sommergere l’intero tavolo. Benvenuto regale dai connotati storici e altolocati, che prende però anche diramazioni agresti grazie alla minuziosa indagine di Enrico sui ricettari reconditi di questo iconico rituale d’accoglienza: Barbajuan fritto e ripieno di ricotta; l’Eclair salata farcita di salame cotto e Raschera (assuefacente); la Sfoglia di cipolla con salsa Bernese e fiori di fava; una sottilissima Tuile di parmigiano e patate con germogli dell’orto; l’Insalata russa alla soia, ricoperta di gelatina quale rimando ai tradizionali aspic nobiliari; un conturbante Tramezzino con pane soffice ai ceci, maionese di pollo e tuorlo marinato; il Bacio di dama al paté di coniglio e infine un materico Cespo di lattuga croccante da pucciare nell’irresistibile salsa tonnata maison.
L’Insalata vignaiola ricrea, mediante un velo arboreo, le fattezze del canovaccio che i contadini utilizzavano per portare gli avanzi di bollito durante il duro lavoro in vigna: volteggi accesi in total green di insalata e scarola abbracciano le callosità poliedriche di testina e lingua celate in un soave involucro circolare. Il Carpaccio di Fassona accenna invece un’ode alla classica Albese, per poi dirigersi lungo la spedizione dei Mille di Garibaldi sino alle coste sicule: drappeggio carnivoro piemontese per antonomasia, impreziosito dal tartufo di stagione, che si sublima con una riduzione al Marsala e il corroborante consommé di carne da sorseggiare in duetto. Jacopo nel mentre sfodera anche un Barolo 2017 come allungo gustativo indigeno.
Ovazione spirituale – sia al palato che nel racconto – per le Lumache con erbe dell’orto e polenta, ove la menzione vira sul metodo di allevamento delle chiocciole secondo l’uso dei monaci Benedettini (alimentazione a base di piante aromatiche appunto). Alla base crema di polenta tagliata con grano saraceno per una testura micidiale (fine e grezza all’unisono). In questo passaggio così pieno, troneggia un Barolo Bussia 2016. Il pane ideato da Carlo Alberto per le sue truppe (sopra-citato da Enrico) ricopre un passaggio a sé per il suo ipercalorico impasto base brioche, inoculato con noci, alici e uovo. Una singola fetta dalla struttura dinamitica, che si presta alla più celebrativa delle scarpette con un intingolo di burro emulsionato con cipollotto e vino rosso. Tanto muscolo lipidico, sorretto in scioltezza dal Barolo Brunate 2013 in gran spolvero.
Dopo tutti questi cenni storici, lo chef si permette una performante evasione dagli schemi, riassunta nel suo Risotto Carnaroli con polvere di rooibos, arancia, china e pancetta crispy. Una sferzata succulenta di acidità agrumate, picchi aromatici, tensione e grassezze a rincorrersi, che si riallacciano mirabilmente alle note scandite dal Barolo precedente. La biova a mollica bianca, rispolverata dai bancali degli antichi panifici langaroli, si erge in tavola a mo’ di interludio e testimonianza del nuovo studio sul pane autoctono condotto dalla brigata. Massa glutinica perfetta da inzuppare nella maestosa Zuppetta di patate, funghi cardoncelli, tartufo, olio torbato e brodo di funghi. Una verticale d’humus e trame ammalianti, puntualmente abbracciate dal Bricco Rocche 2006 che Dosio distribuisce con scaltrezza nel calice. Per la battuta finale del reparto salato, Enrico raggiunge l’apice dello scambio dialettico/papillare tra esercizio cucinato e Barolo: l’ultra marezzata Podolica di Varvara approda nuda nel piatto, solo coadiuvata da una cima di broccolo che interpreta l’irrinunciabile orto. Il traslucido portamento della carne, cotta al cesello, non necessità infatti di salsa alcuna, perché acquisisce con il pairing del Barolo Cannubi San Lorenzo 2004 la sua massima esaltazione (nonché encomiabile finitura esecutiva). Chapeau!
Il Croccante ai semi di zucca e malghesino (assaggio che stregò Bruno Ceretto anni fa, tanto da convincerlo ad arruolare Crippa per Piazza Duomo) funge da spartiacque tra dolce e salato. Per poi arrenderci (gioiosi) a un trionfo assoluto di dessert: Profiteroles in sfoglia di mela e cioccolato; un arioso Savoiardo da tuffare nello zabaione in ricordo della golosa abitudine del Conte di Cavour; il Biscotto Margherita (dedicato alla Regina) con crema di giuggiole; Bonet e Panna Cotta al cucchiaio; sino al Wafer con crema di nocciola quale inchino conclusivo alle Langhe e alla sua “frutta secca regina”.
Il numero spropositato di calici – lasciati volutamente sulla tavola – ora rimpiazza il ricordo della sfilza di snack serviti in apertura: riproducendone però la medesima estasi in guisa conclusiva. Verrebbe la tentazione di ricominciare da capo. Enrico può far dunque pace con la sua coscienza da perfezionista: l’obiettivo non solo è stato raggiunto cum laude, ma (in barba ai luoghi comuni) ci ha rivelato che non esiste clima o stagione vincolante per una degustazione di Barolo orchestrata con tale maestria.
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