Il cortometraggio di Silvia Clo Di Gregorio, scritto insieme a Samuele Galli, parte dagli stereotipi associati alla cucina cinese e ribalta la prospettiva: perché il mostro è spesso negli occhi di chi guarda.
Testo di Elisa Teneggi
Foto cortesia
La scena è un ristorante cinese in un luogo che potrebbe essere provincia, oppure no. L’anno è il 1998 e all’ora di pranzo una famiglia italiana si siede a tavola. Madre, padre, figlia, zio, nonna. Mostrano un vago apprezzamento per quello che vedono sul menu, sono anche attratti dalla possibilità di spendere meno che per le pappardelle al cinghiale. Non ordineranno piatti da stravolgere il palato, bensì preparazioni addomesticate – involtini primavera e riso alla cantonese, per esempio – cioè quella branchia fusion della cucina che ha deciso di dialogare con la cultura del paese in cui è esportata.
Tra questi c’è il Pollo all’ananas. A prepararlo ci vuole un po’ e nel mentre tutto può succedere. Per esempio, che alla nonna venga un attacco di (xeno)fobia e creda che, al posto del pollo, le possa esser servita della carne di cane. Che lo zio, annoiato e scafato allo stesso tempo, usi la scusa della capatina al bagno per provarci con la bella proprietaria del locale – solo che il marito, con cui non corre buon sangue, è in cucina che suda e lavora. E che il cane della famiglia sparisca misteriosamente, facendo precipitare la situazione in una psicosi di paura del diverso che verrà risolta dai piccoli di turno, i figli delle rispettive compagini. Questi sono pronti a confrontarsi con la diversità – a tavola e oltre – e a esercitare una curiosità sana verso ciò che non è familiare.
Il cortometraggio si chiama Pollo all’ananas ’98, è girato da Silvia Clo Di Gregorio, scritto insieme a Samuele Galli e prodotto da Cattive Produzioni e Spicy Storm Production. È divertente ma dritto al punto, con quella leggerezza alla Italo Calvino, che coglie nel segno e lascia lievi. Abbiamo raggiunto i creatori e abbiamo chiacchierato iniziando con una domanda che ci frullava in testa, non avendolo mai incontrato: ma che cos’è, questo pollo all’ananas?
“È un pastiche di influenze e culture, un’unione di migrazioni e storie. Ci piaceva dare al corto il titolo di un piatto che parlasse di incontri, come il Chop Suey (risultato dell’ibridazione della cucina cinese con quella americana, ndr)”. È il cibo di chi si muove per il mondo e trova un altro posto per sé e per il proprio futuro. Volendo impiantare un po’ della propria casa di nascita anche in quella d’elezione, nascono ibridi virtuosi che parlano di mescolanza e danno corpo alla storia. Contaminazioni che avvengono anche dal “nostro” lato della barricata: gli stessi spaghetti alla carbonara, come ha da tempo raccontato lo storico del cibo Alberto Grandi, nascono dall’ibridazione tra la cultura della tavola italiana e gli ingredienti dei soldati americani durante l’occupazione alleata nella Seconda Guerra Mondiale. Ribaltando la frittata, il formaggio Parmesan prodotto in Wisconsin (Stati Uniti) può, sì, essere letto come contraffazione di un prodotto DOP italiano (il Parmigiano Reggiano), se immesso sul mercato in quanto tale. Ma storicamente, come puntualmente spiegato in una puntata dedicatagli dal podcast Decoder Ring (prodotto dall’autorevole editore americano Slate) si tratta di un “pollo all’ananas”: un’emigrazione di ricette, tecniche e costumi alimentari adattati agli ingredienti e ai gusti del luogo di arrivo. Per far continuare la tradizione con nuova linfa.
Ma, tornando a noi: “Pollo all’ananas ’98 è una storia pop cioè popolare, qualcosa che tutti noi abbiamo vissuto. Per esempio, in quanto immigrati anche internamente al nostro Paese (da Nord e Sud, ecc), o in qualche ristorante “esotico” anni Novanta”. Il film, dicono i ragazzi, ha preso vita da un aneddoto personale: “Il ricordo dei festeggiamenti dell’esame del quinto anno di elementare di mia sorella, al ristorante cinese della mia provincia” spiega Di Gregorio. “Su quella base ho caricato tutti quegli stereotipi e quelle dicerie che sentivo quando ero piccola. La bambina del corto si chiama Sara, ed è un po’ l’alter ego di una generazione, più che della mia storia personale”.
Non basta, però. E infatti dietro la sceneggiatura c’è un grande lavoro di confronto con le comunità cinesi locali, di prima generazione e seguenti. “Abbiamo coinvolto da subito varie associazioni cinesi in Italia per ottenere consulenze e suggerimenti. Poi, lavorare con attori come Shi Yang Shi e Sheena Hao è stato fondamentale, così da poterci concentrare sui dettagli e le piccole sfumature”. Avendo ricevuto fondi dalla Regione Piemonte, Pollo all’ananas ’98 non è stato girato a Milano o in Toscana, dove le comunità cinesi sono più folte e famose, bensì a Torino. “Lì la comunità cinese è più piccola e forse meno abituata a interagire con i progetti audiovisivi. Il risultato però è stato molto positivo, siamo stati accolti con disponibilità e apertura”.
Ecco, le riprese, la produzione: come sono andate? “Abbiamo girato per due, intensi giorni. Ma ci siamo arrivati con mesi di preparazione alle spalle. Ci siamo impegnati per ricostruire il più fedelmente possibile l’atmosfera di un ristorante cinese italiano negli anni Novanta, dalle stoviglie agli arredi. E poi abbiamo fatto street casting insieme alla direttrice casting Luana Velliscig per trovare bambini e ragazzi cinesi, in modo che tutto fosse realistico e attinente alla realtà”.
Non c’è infatti volontà buonista e patinata dietro Pollo all’ananas ’98. Solo, l’esigenza di raccontare un reale che si infratta nel mondo, e viene troppo spesso dato per scontato o denigrato. Basti pensare che “in Italia, purtroppo, le comunità immigrate sono spesso rappresentate attraverso una lente un po’ limitata”, così dice Di Gregorio, che le “caselle” le conosce bene. “Da autrice queer, mi è capitato più volte di sentirmi messa in una scatola e penso che sia lo stesso per altre minoranze. Per rappresentare autenticamente bisogna lavorare sulla scrittura, includere prospettive e verità diverse. Raccontare una comunità significa dare spazio ai suoi membri e attori in senso lato. Non si possono costruire narrazioni a tavolino”.
Il cibo in questo senso – e badate che non siamo nella retorica – è sempre un ponte solido, e importante, su cui costruire legami e incontri. “Il cibo è comunità. Parla letteralmente alla pancia della gente, ci fa sedere attorno a un tavolo, ci fa dimenticare l’altrove in favore del qui e ora. È una forma meravigliosa di cura e convivialità, e connette alle emozioni più viscerali e profonde. Poi certo, esisterà sempre chi giudica, chi osserva spaventato, chi ragiona per pregiudizi, chi trova tutto divisivo. Per questo è importante essere come i bambini, che è poi quello che diciamo nel corto: aprirsi, condividere un sapore nuovo, giocare. Esplorare con curiosità il gusto e il disgusto, la gioia e il piacere che ne deriva. È una magia unica, in grado di fermare il tempo e ricucire il divario tra persone e culture”.
Ed è anche in grado, aggiungiamo noi, di farci eliminare quel termine fastidioso, generico, usato a sproposito: etnico, quando si tratta di cibo di altre nazioni. Anche perché “spesso lo usiamo solo per indicare cibi provenienti da fuori dall’Europa, ed è un segno del nostro approccio coloniale alla realtà. Soprattutto perché non parliamo di cibi nuovi, ma che in Italia esistono da tantissimo tempo”. Nell’era della globalizzazione, pure il concetto di esotico sembra non reggere più. Alla fine, basta ribaltare la prospettiva: “Abbiamo portato il corto in tour in Nord America, abbiamo incontrato tante persone che avevano doppia cittadinanza italiana perché qualche trisavolo era italiano. Eppure, dell’Italia conoscevano solo la parola pizza. Così come le leggi sulla cittadinanza nel nostro Paese devono essere più inclusive e aderenti alla realtà, così anche l’arte e il mercato audiovisivo devono aprirsi, e accettare anche attori e attrici di seconda generazione. E, naturalmente, porre tanta attenzione a una scrittura autentica”.
Ok, abbiamo capito quanto sia complesso un piatto all’apparenza semplice come il pollo all’ananas. Prima di salutarli, chiediamo a Galli e Di Gregorio di sfatare tre falsi miti sulla cucina cinese. “In primis, ci teniamo a ribadire che pollo all’ananas e riso alla cantonese sono piatti adattati alla tradizione cinese e occidentale, non specialità della Cina. Poi, che quel Paese è enorme e le cucine delle diverse regioni si diversificano molto tra di loro. Infine, che è inutile scandalizzarsi per alcuni usi della cucina cinese, mitizzandoli e trasportandoli nel reame del terrore. È vero che in alcune zone, e in alcuni tempi, si consumava carne di cane. È allora? Noi mangiamo conigli, cavalli, agnelli. Tutto quello che volevamo fare era innescare nello spettatore un diverso modo di ragionare”.
Spoiler: ce l’hanno fatta.