Le lezioni che abbiamo imparato dalla quarta edizione di In Cibum Extra a Pontecagnano Faiano
Testo di Greta Contardo
Foto cortesia di In Cibum Extra
Il cibo è sempre stato molto di più di una semplice necessità giornaliera. È espressione culturale, è veicolo di legami, racconta storie e, soprattutto, influenza il nostro futuro e oggi più che mai, è un tema che interroga non solo la nostra quotidianità, ma anche il nostro domani. In un’epoca di rapidissimi cambiamenti in cui le crisi globali si intrecciano con le trasformazioni sociali, climatiche, economiche e culturali, la formazione è il futuro e il futuro sta nella formazione: è lo strumento indispensabile per affrontare le sfide più complesse. E non parliamo di un apprendimento sterile e nozionistico, ma di un processo che cambia prospettive, costruisce visioni e produce impatti positivi. E non è solo una pratica rivolta ai più giovani o ai professionisti che intendono affinare le loro competenze: è una necessità per tutti, indipendentemente dall’età. Imparare non ha scadenza, come il miele.
La formazione come motore di cambiamento è stato il filo conduttore della quarta edizione di In Cibum Extra, l’evento che ha trasformato l’hub didattico d’eccellenza In Cibum in un crocevia di idee, dibattiti e ispirazioni. Il tutto a Pontecagnano Faiano, perché la Scuola di Alta Formazione Gastronomica ha volutamente scelto la sua sede in un comune di ventiseimila abitanti nella provincia di Salerno. Una decisione molto forte, identificativa, una dichiarazione d’intenti che suggella fin dalle fondamenta uno degli elementi fondanti della scuola: dare valore ai territori; mantenere legami stretti con i luoghi di cui si fa parte e prodigarsi a renderli vivi e proattivi.
La responsabilità di chi lavora nel mondo alimentare non si limita al piatto, ma si estende alla società, alla cultura e al pianeta. “Quest’anno abbiamo scelto un tema impegnativo: Save the Food” ha commentato Mariagiovanna Sansone, direttrice di In Cibum all’apertura di In Cibum Extra. “Una tematica su cui tutti possiamo lavorare, dove ognuno di noi può fare qualcosa. Prima ancora di rivolgerci alle istituzioni, al governo, pensiamo anche a che cosa facciamo noi nel nostro piccolo”. Un po’ appello e un po’ slogan, non è nessuna delle due cose: è una chiamata all’azione per salvaguardare quella risorsa olistica che è insieme identità, cultura e sostenibilità: il cibo. “Prima di mangiare, noi guardiamo, il prodotto lo vediamo, mangiamo con gli occhi, scegliamo con gli occhi. Dunque, abbiamo bisogno di occhi nuovi, ma anche di un binocolo per guardare lontano ed è quello che sta facendo In Cibum Extra” così la giornalista Concita De Luca ha concluso il primo importante talk della giornata: la Tavola Rotonda “Save The Food” che ha coinvolto Dominga Cotarella (Presidente di Terranostra), Fabrizio Mellino (chef del Quattro Passi a Nerano ***) ed Enzo Vizzari (noto critico enogastronomico). Tra gli oltre 220 partecipanti (150 professionisti del settore tra ristoratori, panificatori, pizzaioli, pasticceri e altri esperti e 70 tra relatori e partner) che hanno dedicato otto ore a ragionare di come la formazione può salvare il cibo c’eravamo anche noi. Siamo uscite esterrefatte da questo rollercoaster di stimoli tra talk, masterclass, workshop e degustazioni; uno spaccato di settore gastronomico vivace e profondamente riflessivo sul rapporto tra cibo, educazione e impatto sociale. Ma cosa abbiamo davvero imparato?
Se non mettiamo sul tavolo i problemi non possiamo trovare le risposte
In un Paese come l’Italia dove il settore agroalimentare vale circa 640 miliardi di euro, il cibo non è solo una risorsa economica, ma un’identità. Le produzioni locali, le micro-stagionalità e il legame con i produttori autentici non sono solo emblema di tradizioni, ma un atto di resistenza culturale. Però (ci sono vari però), se nella teoria siamo bravissimi a che punto siamo con la pratica?
“Oggi vi dico onestamente che forse è uno dei momenti più complessi anche per l’agricoltura” ha dichiarato Dominga Cotarella. “Dovuto a che cosa? Ovviamente a un cambiamento climatico che coinvolge tutti i Paesi, da quelli più evoluti a quelli meno evoluti. Certamente ai conflitti bellici che sottolineano il profondo legame che c’è tra il sistema alimentare, la geopolitica e nello stesso tempo la prosperità globale, ma soprattutto a noi, e qui il titolo Save the Food si fa importante: purtroppo l’80% dei prodotti alimentari che arrivano sulle nostre tavole sta nelle mani delle grandi multinazionali che certamente vedono nel cibo purtroppo una commodity”. Prodotti che sono protagonisti nella dieta alimentare dei giovani allo spaventoso 70%. E allora la domanda che sorge spontanea è: qual è (e quale deve essere) il ruolo dell’agricoltura? “Il cibo viene dalla terra, il cibo non può essere oggetto di una sintesi chimica o il prodotto finale costruito in laboratorio. Questa è la battaglia che portiamo avanti, ma sempre più consapevoli della centralità del cibo come valore, come espressione di un territorio. Se oggi l’Italia è il Paese più conosciuto in termini di turismo enogastronomico ed esperienziale, è grazie al cibo, è grazie al buon cibo. L’agricoltura può avere un ruolo centrale anche per il turismo”. In termini economici, ma anche di bellezza: che ne sarebbe dell’Italia senza l’agricoltura che disegna i paesaggi? È l’agricoltura multifunzionale quella da difendere, quella che spesso è legata alla trasformazione dei prodotti all’interno della filiera, che rappresenta il 20% del valore economico agricolo italiano (circa 15 miliardi) e che ha un ruolo fondamentale in termini di tutela delle risorse, paesaggistiche e territoriali.
Avere dei saldi punti di riferimento che indirizzino la via con concretezza è necessario, ha spiegato Fabrizio Mellino: “Sta a noi chef aiutare i tanti piccoli produttori a uscire fuori, a essere presenti sulle nostre tavole. Il 90% di un piatto è dato dagli ingredienti; una nostra scelta sbagliata sulla spesa può ricadere su tutta la filiera. Il riscaldamento globale ha creato una differenza nella stagionalità: se prima parlavamo di inverno, primavera, estate e autunno in maniera quasi matematica, adesso credo sia arrivato il tempo delle micro-stagionalità con prodotti che sono presenti anche solo due settimane. Adottarla consentirebbe di ottenere una qualità superiore e contrastare i prezzi”.
Se il cibo è cultura, la sostenibilità è il suo linguaggio universale. Torna quindi fondamentale educare alla consapevolezza: insegnare non solo come si cucina, ma soprattutto perché si cucina, da dove provengono gli ingredienti e come possono devono essere rispettati. La formazione, in questo contesto, diventa una responsabilità collettiva. È un processo che coinvolge chef, produttori, critici gastronomici, studenti e consumatori, tutti chiamati a prendere parte a un dialogo che superi le logiche del consumo di massa e che guardi con intelligenza a tutta la filiera. Ma come ha ben evidenziato Enzo Vizzari, manca ancora una forza comunicativa capace di raggiungere un pubblico ampio e di sensibilizzarlo sull’importanza di una visione condivisa. “Chi produce cibo, oggi, spesso adotta una prospettiva orientata al consumo di massa, che non coincide con quella di chi, come noi, si occupa di cultura e comunicazione del cibo. Sebbene ci sia accordo su questi valori, è essenziale ampliare il pubblico e trovare modi efficaci per trasmettere queste idee. Il lavoro degli chef famosi è importante, ma da solo non può incidere profondamente sull’orientamento dei consumatori”. Il rischio è continuare a “parlarci addosso,” come ha evidenziato Vizzari. È una dinamica frequente in molti settori, ma nel mondo del cibo è particolarmente insidiosa. L’autocelebrazione del lavoro di chef, produttori e comunicatori può creare un’eco sterile se non si trova un modo per uscire da quella bolla e dialogare con il pubblico più vasto, amplificarne il messaggio e raggiungere chi oggi vive lontano da questa sensibilità. È il momento di uscire dal proprio orto e di dirlo a tutti, a voce alta. Forse la chiave sta nell’adozione di un approccio più inclusivo, dove i valori di qualità e sostenibilità non siano percepiti come un lusso per pochi, ma come una necessità condivisa. La sfida è tradurre queste idee in linguaggi accessibili, usando le stesse leve che guidano il mercato di massa: la narrazione, l’emozione e, chiaramente, il piacere.
Sensibilizzare è una responsabilità
Salvaguardare l’eterogeneità ci salverà. Uno dei messaggi centrali emersi su più fronti durante la giornata è la necessità di diversificare: non solo i contenuti, ma anche il pensiero. Se ne è ampiamente discusso all’interno del talk Diversificazione alimentare, una responsabilità collettiva? che ha coinvolto Riccardo Felicetti (CEO Pastificio Felicetti), Carlo Di Cristo (Lievitista e docente universitario), Alex Revelli (giornalista e docente universitario) e Marco Cefalo (resident chef di In Cibum) moderati da Paolo Vizzari (gastronomo ed esperto di marketing territoriale); un denso dialogo che si ha spaziato tra la consapevolezza scientifica, l’approccio artigianale e le sfide pratiche delle aziende partendo da un concetto condiviso da tutti i partecipanti: la diversificazione alimentare non è solo una scelta creativa, ma anche una responsabilità ambientale e sociale. Il cibo è una sorta di specchio della società in evoluzione e non c’è nulla di male nella globalizzazione del gusto, è bene dirlo, ma come sottolineato durante il confronto, è fondamentale accompagnare i cambiamenti con una consapevolezza che eviti l’omologazione e la perdita di identità. Con un aneddoto di storia aziendale sul farro, Riccardo Felicetti dimostra quanto sia cruciale mantenere vivo il legame con il territorio e con la storia agricola del nostro Paese. Non si tratta solo di coltivare un cereale, ma di preservare un ecosistema, sostenere le comunità locali e offrire prodotti di qualità che rispettino sia l’ambiente che il consumatore. Si tratta anche di saper orientare il mercato, non di seguirlo.
Come sottolineato da Alex Revelli, è il “gioco delle scelte” a definire il futuro del cibo: un atto collettivo, culturale e umano che richiede consapevolezza e responsabilità. Fare scelte consapevoli è un atto di resistenza culturale e la diversificazione è un atto rivoluzionario. Una delle osservazioni più potenti del dibattito però riguarda ancora il ruolo della formazione. Educare i giovani a riconoscere e apprezzare la qualità, a rispettare il cibo e a comprenderne l’impatto non è un compito opzionale, ma un obbligo morale. Il racconto di Carlo Di Cristo, che ha deciso di impegnarsi nella panificazione dopo aver visto la reazione della figlia alle rosette industriali, è emblematico. Non si tratta solo di offrire prodotti migliori, ma di trasformare ogni scelta alimentare in un atto educativo. Come affermato dallo stesso Di Cristo: “Se un bambino di due anni discrimina tra qualcosa che ha zero sapore e qualcosa di autentico, significa che possiamo, e dobbiamo, fare di più”. Palla al balzo questa colta da Marco Cefalo che “messo sul tavolo” una considerazione molto potente: “il tempo è il nostro nemico più grande. Nella frenesia della vita moderna, dedicare tempo alla cucina, alla scelta consapevole degli ingredienti e alla riflessione sulle nostre abitudini alimentari sembra quasi un lusso. Ma è proprio in questa lotta contro il tempo che si nasconde la chiave per il futuro”. Non serve complicarsi la vita con regole astruse: basta iniziare dalle basi, come mangiare verdure di colori diversi ogni giorno. Basta far combaciare il sapere e il fare. Il cibo non mente: ogni sapore, ogni consistenza, ogni colore racconta una storia. Sta a noi decidere se vogliamo che questa storia sia di omologazione o di ricchezza, di consumo superficiale o di valore profondo. La scelta è nelle nostre mani – e nei nostri piatti.
Prospettive diverse per migliorare il mondo
L’innovazione, termine indiscutibilmente femminile (nella lingua italiana) ci pone davanti alla riflessione: l’innovazione è donna? O meglio, è un genere? E come possiamo intendere l’innovazione? Attraverso cosa? Siamo abituati ad associare l’innovazione alla tecnologia d’avanguardia, a tutti i tools possibili e immaginabili che ci possono essere semplificare la vita, ma è bene guardare all’innovazione oltre alle metriche tradizionali. A discuterne sono state Fiammetta Fadda (giornalista enogastronomica), Carmen Vecchione (pastry chef Dolcearte) e Deborah Morriello (responsabile di In Cibum Lab) moderate dalla giornalista Concita De Luca.
L’innovazione è essenza umanistica, è un percorso intrinsecamente legato alla creatività e al desiderio umano di migliorare il mondo. Nei racconti di Fiammetta Fadda sull’evoluzione del giornalismo gastronomico delle riviste è emerso un aspetto chiave dell’innovazione: la capacità di recepire idee internazionali e adattarle al contesto locale; che nel caso della cucina italiana raccontata ha una storia di sensibilità femminile alla modernità. “L’innovazione è gentilezza” conclude Fiammetta, facendo perno sull’importanza delle relazioni e della “costruzione della gentilezza”, in un contesto ristorativo che ha la necessità del ritorno in auge della centralità della sala: una sala viva, empatica, in cui si parla il linguaggio della gentilezza. Per Carmen Vecchione l’innovazione è qualcosa di personale, è un ritorno alle radici. La sua scelta di riprendere pratiche tradizionali nella pasticceria, riscoprendo ingredienti base e collaborazioni con produttori locali, sfida l’idea che l’innovazione sia sempre legata alla tecnologia avanzata.
“Solo il 12% delle startup in Italia è guidato da donne e le donne ricevono in media il 50% in meno di finanziamenti rispetto agli uomini, a causa di reti di contatti meno accessibili e di un sistema finanziario tradizionalmente dominato da figure maschili”, così Debora Moriello ha introdotto il mondo delle startup al femminile. Tuttavia, emerge un dato interessante: le donne sembrano eccellere in ambiti innovativi legati alla cura e al sociale. Questo suggerisce che forse l’innovazione femminile non si debba misurare solo con indicatori tradizionali (come brevetti o investimenti), ma attraverso il suo impatto sociale e collaborativo e nell’ideazione di soluzioni che possano rispondere a bisogni quotidiani e umani. È anche utile chiedersi se attribuire certe caratteristiche all’innovazione femminile non rischi di essenzializzare il genere, limitando la libertà di espressione individuale. Ma gli stimoli della chiacchierata hanno attivato un ragionamento prezioso: l’innovazione, pur essendo un sostantivo femminile, non appartiene a un genere, ma a una visione universale e inclusiva. E una provocazione: l’innovazione è umana, ma il mondo ha bisogno di riconoscerne le diverse sfumature, soprattutto quelle che spesso sono rimaste nell’ombra.
Dalla parte dei giovani
Non è possibile immaginare un mondo migliore senza investire nelle nuove generazioni. Lo sa bene la direttrice di In Cibum, Mariagiovanna Sansone che ha sottolineato l’importanza di accompagnare i giovani nel loro percorso formativo con strumenti tangibili: “Abbiamo trasformato tutti gli stage in tirocini retribuiti, per valorizzare il lavoro e le idee dei ragazzi. Non si tratta di combattere contro i giovani, ma di sostenerli”. Questo approccio sottolinea il rispetto delle risorse umane, un valore imprescindibile per una formazione che mira a mettere al centro le persone. In questa direzione si inserisce anche il progetto In Itinere – Viaggio tra generazioni, gusti e territori (curato dalla giornalista Antonella Petitti, promosso dalla Scuola di Alta Formazione Gastronomica e in fase di ampliamento con borse di studio) che punta a coinvolgere gli istituti alberghieri di tutta Italia in un percorso di approfondimento sulla conoscenza dei prodotti tipici e dei territori. L’idea è chiara: formare non solo cuochi, ma ambasciatori dei luoghi, capaci di portare sulle tavole il valore della cultura. Il futuro si coltiva insieme ai giovani.
“Non puoi fermare le onde – dice un proverbio – ma puoi imparare il surf”. È tempo di affrontare le onde, consapevoli che il cambiamento parte da noi, dalle nostre scelte e dal nostro desiderio di imparare. È tempo di salvare il cibo, partendo dalla formazione.
In Cibum
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