Testo di Sara Porro
Foto di Maurizio Camagna
Quando aprì nel 2008, Manna non somigliava a nessun altro ristorante a Milano. Era, allora, qualcosa di simile a una sorta di neo-bistrot alla parigina: faceva una cucina a prezzi contenuti, riconoscibile però come una cucina d’autore più che da trattoria. I nomi dei piatti contenevano sempre un gioco di parole, alcuni li ricordo ancora oggi: Vai via dottore per la tarte tatin di mele con gelato alla vaniglia; Broccola, la cozza per un timballo a base di broccoli, cozze e peperoncino fresco. Era un locale quasi studiatamente brutto: uno dei muri era verde acido e nella sala all’ingresso c’era una installazione artistica di cassetti che spuntavano incongruamente dal muro.
Il suo chef, Matteo Fronduti, ha il physique du role del responsabile della sicurezza di un boss della malavita e dagli uomini così ci si aspetta che la descrizione si concluda con “Ma in realtà è un tenerone! In realtà è un pezzo di pane”. Ed ecco, non è questo il caso: pur personalmente convinta che Fronduti vada annoverato tra i buoni, è un uomo non privo di asprezze.
Una delle mie prime cene da Manna fu nell’autunno del 2009, ero insieme a un’amica e alla sua figlia neonata; Fronduti fu molto gentile e ci diede un tavolo particolarmente confortevole. Quando la mia amica gli disse: “Ti porto i saluti del mio compagno, andavate a scuola insieme alle superiori e mi ha detto che di tanto in tanto lo malmenavi” entrambi erano parsi deliziati di questo scambio. Eravamo agli albori della moda degli chef tatuati e in quegli anni altri cuochi milanesi di pedigree impeccabile facevano il possibile per simulare quella che in inglese si chiama street cred, insomma una reputazione da duro. Fronduti non era, né allora né ora, un poser.
Questo ambiente spoglio, Fronduti lo riempiva con la sua presenza: il timbro e la profondità della voce, la statura imponente, l’impazienza con gli ospiti che percepiva come maleducati o irrispettosi; una cucina votata alla concentrazione del sapore, tecnica e ricca, spesso goduriosa e alle volte ostica, la classica mano che può essere piuma o può essere fero.
Era, all’epoca, un outsider: pur piacendo molto ai giovani gourmet, capitava di frequente che il locale restasse con qualche tavolo vuoto. Una stroncatura del critico delle pagine milanesi del Corriere della Sera, Valerio M. Visintin, fu particolarmente velenosa: mesi dopo, parlandone con Fronduti, fui sorpresa – e, in qualche modo, intenerita – scoprendo che lo chef era in grado di recitarla a memoria, parola per parola.
Nel 2016 Fronduti vinse la prima edizione di Top Chef, un periodo a cui seguì un grande successo per il ristorante – egli stesso raccontò nelle interviste di aver triplicato le richieste di prenotazione – e un progressivo consolidamento della reputazione di Manna.
Oggi, infine, è arrivata la ristrutturazione totale dei locali, che lo ha reso un ristorante finalmente molto bello e un po’ più borghese: nelle sale, pareti, tavoli e boiserie sono in grigio scuro, colore che ritorna nella cucina che si intravede dalla sala principale, creando una continuità tra gli spazi. Il numero di coperti è rimasto lo stesso, ma la sala e soprattutto la cucina sono più ampie: ne gioveranno i clienti, ma anche lo staff, che nella cucina originale aveva spazi molto sacrificati. Tra le altre novità, un nuovo spazio adibito a cocktail bar dedicato sia ai clienti del ristorante, sia a chi dalle 18:00 in avanti voglia bere qualcosa e fare uno spuntino con proposte come “Un pezzo di porco, un pezzo di pane, olive e arachidi”.
La cucina rimane fedele alla linea: ci sarà una carta ridotta – composta da poco più di dieci piatti – e affiancata da tre proposte che raccontano il passato, il presente e il futuro di Manna. Si inizia con Quindici un menu da 4 portate che ricorda i quindici anni di storia del ristorante e presenta i classici della casa, come L’uovo affogato, purea di patate 1:1 e salsa al vino rosso, il Riassunto di bollito o la già citata Tarte tatin. A seguire L’Altro, un menu intermedio che unisce alcuni piatti del Quindici con altri della carta e qualche divagazione libera. A concludere, un menu per temerari: si chiama Porcherie (ok) e comprende otto portate di interiora, “azzardi ed eccessi”, parole testuali.
Nel tempo, molti dei tratti di Manna avrebbero dimostrato l’istinto da precursore di Fronduti, a partire dalla collocazione: all’epoca, piazzale del Governo Provvisorio era vera periferia cittadina, una zona che sulla mappa gastronomica faceva scrivere hic sunt leones; oggi è No.Lo – o almeno credo – e in questa piazzetta, che è sempre stata bellissima, hanno nel tempo aperto numerosi “localini” (che brivido lungo la schiena, questo termine). Che oggi non si possa più dire che Manna è un ristorante che non somiglia a nessun altro è la migliore testimonianza della sua originalità.
*per i Gen Z che stessero leggendo questo articolo: “broccolare” era slang per “provarci”. Si dice ancora “provarci”?
Manna
Piazzale Governo Provvisorio, 6
20127 Milano (MI)
Tel: +39 02 2680 9153
www.mannamilano.it