Testo di Cristina Ropa
Foto cortesia
Imprimere in un istante visivo l’essenza di ciò che abbiamo di fronte. Un lusso, una conquista che l’essere umano è stato in grado di realizzare attraverso l’invenzione della fotografia per portare a galla tutto un mondo ancora invisibile agli occhi degli altri, per mostrarlo con i propri, offrendo nuove prospettive che possano ispirare, scuotere, raccontare e talvolta anche innamorare. Quante foto hanno cambiato la nostra vita, hanno risvegliato le nostre coscienze a nuove realtà. Narrare luoghi, storie, culture attraverso un linguaggio universale che unisce, emoziona, che travalica barriere e confini. La fotografia dal 1839, quando nacque, ad oggi si è nei secoli affermata come il mezzo creativo per eccellenza più accessibile grazie alle nuove tecnologie che hanno permesso di creare dispositivi sempre più sofisticati diventati di uso quotidiano. Un’evoluzione veloce e dalle numerose controversie che ha visto tramutare il cibo, per esempio, come il soggetto prediletto della nostra epoca. Parte integrante della nostra quotidianità, fondamento del nostro agire, specchio di cambiamenti sociali e culturali, custode di piaceri. Ma da dove nasce questa ossessione nel fotografare ciò che mangiamo? Quando si è passati dalla fotografia come espressione artistica, raffinata, a mezzo accessibile a tutti e a tutte per produrre foto amatoriali che affollano senza sosta il web?
L’ho chiesto a Maurizio Montagna, fotografo italiano specializzato nell’investigazione del territorio, dell’architettura e del rapporto tra uomo e ambiente che, nel suo workshop Food photography: il cibo rappresentato, realizzato per la Biennale di Foto/Industria, ha deciso di esplorare il rapporto in continua evoluzione tra cibo e fotografia, una tema che ci ha condotti infine a un confronto sulla sua mostra Fisheye ad oggi in esposizione alla Collezione di Zoologia dell’Università di Bologna e sul ruolo che la fotografia ha nei confronti dello sviluppo sostenibile che dobbiamo urgentemente attuare.
Durante il workshop hai spiegato che a partire dai fotografi William Eggleston e Stephen Shore il cibo inizia ad essere introdotto come elemento di narrazione e come fatto sociale che riflette gli usi e costumi di una determinata cultura. Ora con Instagram e Facebook stiamo facendo indigestione di foto sul food. Secondo te possiamo trovare una via di mezzo affinché non ci sia una deriva sulla qualità e soprattutto sulla capacità di distinguere un prodotto di qualità? E come si evolverà questo rapporto tra fotografia e cibo?
Mi viene in mente un libro, La furia delle immagini di Joan Fontcuberta, artista spagnolo, catalano, molto importante che ha lavorato sulla trasmigrazione della fotografia ovvero su come gli elementi trasfigurativi con un’intelligenza visiva straordinaria abbiano messo in critica l’approccio documentaristico della fotografia. Tutte le sue foto sono un fake e quindi scrive questo libro in quanto fruitore delle immagini di altri. A un certo punto mette l’indice su questa quantità irreversibile di fotografie che esistono da quando c’è la rete. Fa una disamina di questi artisti che anziché realizzare le loro foto usano le foto degli altri, declinandole. Ne abbiamo talmente tante di fotografie, infatti, che diviene il ripetersi di un qualcosa che non ha più senso. A questo punto usiamo, un po’ come fare delle cover nella musica, dei pattern e li riutilizziamo. C’è un abuso delle foto di cibo in Occidente così come c’è un uso poco sostenibile del cibo e ce n’è altrettanta, meno grave ma culturalmente pesantissima, per quanto riguarda la rappresentazione del cibo. C’è stata una crepa nel linguaggio, una rottura data anche dalla qualità che Duchamp mise in discussione quando disse che ormai non serviva più la tecnica, la rappresentazione del reale poiché bastava l’idea. Parlando dei due rapporti rivoluzionari di Egglestone e Shore, quando si parla di foto artistica bisogna stare attenti. Questi due fotografi entrano nel mondo dell’arte facendo sì che la fotografia non fosse più solo un fatto qualitativo e tecnico ma anche attuale e rivoluzionario nello sguardo. Questa rivoluzione continua ancora adesso. Per realizzare foto di cibo per riviste oggi si cucina e si fotografa il piatto. Qualche anno fa invece costruivano un set apposito. Senza questa eccessiva cura il feedback positivo dai lettori è molto più alto. Non guardo programmi di food ma quello che mi piace ancora meno sono le gare dove c’è un’estetizzazione del cibo a mio avviso esagerata. Io che ambisco a fare delle foto belle penso comunque che sia più importante il senso rispetto alla bellezza. Quando mi dicono “Che bella questa fotografia” e poi aggiungono “Sembra un quadro” mi chiedo cosa stiano guardando. La progettualità, il senso sono più importanti. Questa sovrabbondanza mi sembra dannosa non per chi ha un minimo di selettività nel cervello ma per chi viene ingoiato dalle immagini.
Questo tuo interesse per il food e la rappresentazione di esso da dove nasce?
Il MAST mi ha proposto di creare tre workshop e di declinarli con dei temi. Ho pensato a vari temi tra cui il cibo perché mi incuriosiva. La cosa che mi ha sorpreso durante le mie ricerche è che in Italia, uno dei posti più famosi al mondo per la gastronomia, forse il più famoso, gli artisti su questo argomento hanno lavorato o hanno tirato fuori veramente poco. Dagli anni ‘70 ad oggi la tradizione del cibo è totalmente non considerata. Olivo Barbieri, grande fotografo internazionale, è stato molti anni in Cina. Ha fatto lavori sui ristoranti ma nessuno glie li ha mai chiesti. Io sto pensando di fare qualcosa su questo argomento. Quello che amo molto della fotografia americana è che se sei un paesaggista o un fotografo di architettura non hai limiti puoi spaziare anche in altro.
Chi è riuscito a rappresentare meglio la nostra cultura attraverso il cibo?
In Italia nessuno. Gioco forza devo parlare della fotografia americana perché è stata lei rivoluzionaria nonostante la fotografia sia stata inventata da noi europei. Ma eravamo troppo condizionati da tutta una serie di elementi legati ad altre rappresentazioni artistiche quindi la fotografia ha avuto più difficoltà a evolversi. Invece in America non c’era più il problema della foto bella. Si è passati subito dal pitto realismo alla documentarietà. La fotografia inoltre è molto condizionata, come tutte le altre arti ma lei ancora di più, dallo strumento.
La libertà espressiva è anche stata supportata dall’innovazione tecnologica quindi da un certo punto di vista una grande evoluzione che permettere a tutti e tutte di esprimersi. Faccio un balzo indietro. Le nuove generazioni stanno fruendo di tutto e di più. Secondo te come può la fotografia, in quanto espressione artistica, educarle?
Il problema iniziale è l’alfabeto. La fotografia è uno degli strumenti più intuitivi ed è assolutamente lo strumento che ha meno bisogno di intervento di pensiero. Si prende e si fotografa. L’i phone e gli smart phone sono la prolunga del nostro occhio. Ci sono dei bellissimi lavori di artisti che hanno fatto una serie di fotografie con degli errori fotografici fatti con strumenti fotografici. Con l’i phone no. È tutto perfetto. Ci permette di fare foto e video senza però conoscere l’alfabeto. Siamo sul punto di non ritorno. La fotografia fruibile nel contenitore del web, che è di una quantità inimmaginabile, in altissima parte è una fotografia dove questo alfabeto non esiste ma esistono dei cliché. Senza conoscere un alfabeto non puoi scrivere fluidamente. Fontcubert nel suo libro utilizza questo alfabeto vernacolare come se fossero dei dialetti. Lo utilizza per argomentare tutti questi artisti che usano la fotografia senza alfabeto. Tutto molto incosciente e inconsapevole. Penso che questa insostenibilità della fotografia non abbia senso di esistere. Ad un certo punto imploderà non posso prevedere in che modo. Lo vedo dagli allievi, da chi vuole imparare a fotografare quando mi fanno vedere foto di Instagram. E’ uno strumento in cui non c’è l’attesa. Hai una visibilità di pochissimi secondi. Quindi poi quando sfogli un libro lo trovi noiosissimo.
Perché le persone sentono questo bisogno di fotografare cibo?
È una bella domanda. Se fosse una condizione tipica italiana, quindi che si è manifestata solo qui, ti direi che noi di cibo viviamo e quindi è più comprensibile che lo fotografiamo. Questa è una condizione invece molto più ampia. Andrebbe posta questa domanda a un sociologo. Penso che la domanda sia correlata a: perché ci facciamo tanti selfie? Perché vogliamo continuamente rappresentare noi stessi? Perché abbiamo bisogno di affermare la nostra presenza nel mondo credo. Perché siamo, mai come in questo periodo, soli. E ci stanno isolando sempre di più. Ci stanno facendo avere paura dell’altro. L’altro come simulacro di terrore. Basta leggere la filosofia del 900 per avere una lettura trasversale. L’unico modo per uscire dalla propria solitudine è affermare la propria presenza fotografando. Quello che si mangia, quello che si cucina e anche se stessi. La cosa interessante è che quando c’è un minimo di cura nel fotografare lo si fa in maniera uniforme. Se le foto spesso erano simili adesso è imbarazzante. E’ tutto molto banalizzato. L’arte e la fotografia sono spesso dentro dei cliché.
Una teoria molto coerente con la realtà. È una libertà che alla fine ingabbia. Si sta ritorcendo contro di noi. Una contraddizione intrinseca molto affascinante.
Ingabbia anche la libertà di avere il telefonino senza perdersi. Ora abbiamo Google Maps che ci dice esattamente dove siamo e dove andare. Le foto più belle che ho fatto nella mia carriera le ho scattate perdendomi. Abbiamo tutta una serie di comportamenti omologati. Basta leggere Michel Foucault e capire quello che sta succedendo. Avrei voluto chiedere a Roland Barthes cosa ne pensa della pandemia.
Il tuo workshop si è svolto nella sede della Collezione di Zoologia di Bologna e sempre lì è ora in esposizione la tua mostra Fisheye dove esplori il passato e il presente di Valsesia, tra le principali valli alpine piemontesi, un luogo che si è modificato nel tempo sia per cause naturali sia per l’intervento dell’essere umano che ha impattato in modo negativo sull’ambiente, alterando il corso dei fiumi, la vita delle specie autoctone che li abitano e inevitabilmente, quella delle persone che le introducono nella propria dieta. Perché hai scelto proprio Valsesia?
Quando si fa un progetto bisogna focalizzarsi su qualcosa. Con il curatore ci conosciamo da tanti anni e sa che sono un pescatore dallo zoccolo duro. Mi ha proposto questa cosa in contrapposizione a Herbert List che avrebbe esposto la mattanza del tonno nel 1951 con la mostra Favignana. Mi ha dunque chiesto di rappresentare la pesca in modo nuovo e contemporaneo. Io che l’amo così tanto non riuscirei a rappresentarla come la vedono i pescatori che vendono pesce. Io pratico la pesca con la mosca perché mi piace. È complicata ed è una sfida. Per il progetto ho scelto un luogo molto importante per questo tipo di pratica. Ci sono documenti che dimostrano che in Valsesiana la pesca e il trasporto di pesce venivano regolamentati già nel 1600. È un tipo di pesca ancestrale che nasce prima della pesca a mosca. Un luogo dove Arturo Pugno, famoso in tutto il mondo, andava a pescare usando le canne in legno di nocciolo e le mosche che, dopo una lunga corte, sono riuscito a farmi dare.
La Valsesiana inoltre è un luogo relativamente poco antropizzato. Mi interessava fotografare in maniera rigorosa piccoli manufatti. Non le dighe ma elementi che frammentano i fiumi e che sono totalmente inutili.
È molto cruento il modo in cui List rappresenta la pesca. Le tue foto oltre ad essere contemporanee sono più eleganti.
Con List stiamo parlando degli anni 50. La fotografia documentaristica ha permesso ai fotografi di esplodere con foto dinamiche. Quindi macchine di prima qualità da poter usare in condizioni difficoltose. È una narrazione tipica del reportage che fino a qualche anno prima era esclusa perché più asettica. La tonnara di List è una pratica per l’alimentazione. Io raramente tengo il pesce che pesco. Noi che pratichiamo la pesca a mosca siamo concentrati proprio sulla tecnica. Dopo 50 anni di reportage ho cercato di raccontare motivando. In Fisheye non volevo il punto di vista del pescatore ma del pesce. Sono paesaggi classici ma ho cercato di mantenere questo orizzonte. Mi piaceva il fatto di non fotografare il paesaggio inclusivo ma di guardarlo pensando di essere una trota. E questa cosa la continuerò. C’è questo contatto con l’acqua molto fredda che è molto interessante. Fino a che non vai nell’acqua non da cacciatore ma da preda non puoi cogliere il suo punto di vista.
Un punto di vista che guarda anche come l’uomo e la natura hanno cambiato l’ambiente.
Ho scelto un fiume della Valsesia che conoscevo bene, i punti dove fotografare le infrastrutture. Fortunatamente al momento in Valsesia non ce ne sono molti. Anche se purtroppo ci vogliono mettere le mani. Vogliono fare delle dighe che non servono a niente nei piccoli fiumi solo per avere le sovvenzioni statali. Sono opere che ostacolano e rovinano il letto del fiume. Ed è incredibile che gli amministratori dei Comuni accettino questa cosa.
Che ruolo ha la fotografia in tutto questo? Nel sostenere il cambiamento che dobbiamo intraprendere verso lo sviluppo sostenibile?
La fotografia come tutte le pratiche creative ha una grossa responsabilità. I temi dell’ambiente, della sostenibilità vengono trattati da molti artisti. Però purtroppo non tutti lo fanno per una ragione intrinseca. Molti ne parlano perché va di moda. Bisognerebbe fare le cose che ci appartengono. La pesca per esempio mi appartiene. Non mi metto di certo a parlare di energia nucleare. L’artista Vivien Sansour, ad esempio, anche lei in esposizione alla Biennale, parla del suo. Il problema è che l’arte deve affrontare questo tema della sostenibilità senza però ammantarlo di una motivazione ideologica che va di moda. Sono convinto che le soluzioni si attuano partendo dal basso non dall’alto. Non sono i governi che cambiano le cose. È la nostra pratica comune, quella più piccola, quella di nicchia.
I governi se tutto va bene le peggiorano. Il Ministero dell’ambiente ha deciso per esempio di recente che tutti i pesci alloctoni che vivono in Italia e che sono stati immessi prima del 1500 vanno eliminati. Altro esempio inerente. Se vai sul Lago di Como uno dei piatti storici, che forse lo citerà pure il Manzoni, è il risotto con il pesce Persico. È un pesce che è stato importato dagli USA insieme al boccalone e al persico sole. Secondo questa nuova regolamentazione andrebbero eliminati tutti. Non bisogna averne più cura. Peccato che ci sono specie che abbiamo pescato per oltre duecento anni e che vivono bene dove sono. Si salva la carpa perché è stata importata dal 1200 dalla Cina. Hanno chiuso una quantità impressionante di allevamenti. Non solo stanno mettendo in difficoltà tante imprese e le tradizioni di un luogo ma così elimineranno anche un settore del turismo. Bisogna capire cosa vuol dire avere cura dell’ambiente. C’è il rischio di parlare a vanvera. In questo caso il lavoro di Vivian lo trovo molto dentro, è il suo. Ogni seme rispecchia quello che lei vive ogni giorno. È quello che mi piace di un lavoro artistico. Il mondo dell’arte dovrebbe parlare di queste cose con le persone che hanno a che fare direttamente con questi temi non con i politici che sono lontani da tutto. L’ambiente è una cosa delicata così come l’ecosistema. Questi pesci alloctoni dal 1500 ad oggi se non avessero potuto vivere sarebbero morti. E invece si sono adattati senza fare danni all’ambiente e anzi entrando nelle nostre tradizioni culinarie. E non parlo da pescatore ma da persona che vorrebbe mangiare il pesce persico quando va al Lago di Como.