Testo di Elisa Teneggi
Foto cortesia
Apre il 16 gennaio la succursale italiana di Hatsunezushi, tra i sushi bar più famosi del mondo. Un percorso a mano libera, dove affidarsi allo chef è filosofia e responsabilità.
C’è un nuovo omakase a Milano. La frase corre il rischio di non risultare nemmeno una notizia: dei “banchi con menu a mano libera” ne sentiamo parlare da anni, e da anni la nostra ossessione per la cucina e la cultura giapponese ci riporta a voler mollare le redini, “affidarci”, come si può tradurre il nome del formato. Non che non possa succedere altrove, beninteso. Sia per convenienza di costi, che per curiosità e spirito di avventura, i pasti alla cieca, almeno nel fine dining contemporaneo e nelle geografie interiori dei suoi appassionati, si sono ben stabiliti. Tanto che, appunto, sembra che la notizia non sussista: ma come, un altro?
Naturalmente, sarebbe peccare di esoticizzazione. Allora ve lo diciamo lo stesso: a Milano c’è un nuovo omakase, un banco da dieci posti a Ronin Milano (via Vittorio Alfieri, ai bordi di Paolo Sarpi) firmato dal sushi master Katsu Nakaji, che proprio a Ronin aveva già tenuto un paio di (apprezzati) pop up sempre in formato omakase. Ok, torniamo all’inizio: già visto?
Calmi. Innanzitutto: Ronin Milano non è né un ristorante né uno spazio, nel senso che è entrambi. È Piccolo Ronin, “osteria” izakaya con listening bar, tradotto: resta-mangia-bevi, il senso è quello di una delle molte enoteche con cucina contemporanee, ordina questo, quello, vedi come va, rifallo; Robatayaka Restaurant, formato di dining più impegnato ispirato alla tradizionale robata, cioè griglia, giapponese; un cocktail bar con karaoke, Madame Cheng’s; un Arcade, spazio bar con piccolo palco per esibizioni live e area lounge; infine, in una backdoor, una sala omakase senza resident chef, dunque usata all’occorrenza. È qui che si era installato Nakaji nelle occasioni precedenti ed è qui che, dal 16 gennaio, tornerà la sua nuova esperienza.
Nakaji è un nome illustre nel mondo del sushi. Il Maestro rappresenta la quarta generazione di Hatsunezushi, sushi bar di Tokyo fondato nel 1893 e a lungo detentore – proprio sotto la guida di Nakaji – di due stelle Michelin. Ristorante in cui l’omakase non è mai nemmeno stata “una cosa”: il cliente si serve così, perché il pesce è stagionale, giornalmente le forniture possono variare e la qualità non deve essere messa in discussione. Nakaji è uno shokunin del sushi, ovvero un artigiano, un cesellatore alla ricerca continua della bellezza (non per nulla ha dichiarato in un’intervista recente che, per imparare a fare il sushi, servono almeno dieci anni). Da questo – e dalla storia famigliare secolare dietro il banco di Hatsune – deriva la sua fama. Oltre che, be’, da quello che ci si porta a casa dopo un pasto insieme a lui. Che ora si trova anche da Ronin, dove il Maestro ha deciso di “replicare” il suo ristorante.
Le regole sono succinte, però precise: il pasto comincia quando il riso è pronto. Viene cotto solo una volta nel kamado, tradizionale utensile da cucina giapponese a metà tra il forno e la pentola (da fuori assomiglia a un uovo) e acidulato con aceto. È l’origine del sushi, la conservazione. L’aceto “cuoce di nuovo” il riso e si può conservare per più tempo anche fuori dal frigorifero. Gli operai lo portano al lavoro, schiscetta a cui uniscono proteine bevendoci dietro tè verde. Nel restante, con cui non si dissetano, si lavano le mani dopo averle usate per mangiare. Questa è la seconda regola della nostra cena: si mangerà solo a nude dita e verremo serviti solo con le mani. Nigiri, soprattutto, perché questo è il sushi secondo Nakaji (ricordiamoci che gli uramaki sono nati in California: come se dicessimo che la pizza deep dish di Chicago è la pizza), oltre al sashimi, che è pesce in purezza, non trattato con alcun ingrediente. L’ordine delle portate sarà dato dal tempo di raffreddamento del riso: a seconda della consistenza del pesce servito e al suo sposarsi con la temperatura. “Il riso appena lavato con l’aceto è acerbo come un bambino che piange”: così commenta uno dei sous chef di Nakaji mentre lavora davanti ai nostri occhi. Perché ricordiamo che dal bancone dell’omakase si vede tutto.
E si può approfittare di questa barriera che viene a mancare, quarta parete di cucina sfondata. Nuova regola: all’omakase di Hatsune si parla. Tra i commensali, che si conoscano o meno. Ma anche con lo chef e i collaboratori, personale di sala e non. Anche perché il sushi che ci viene consegnato può essere consumato solo attraverso passaggi precisi: un assetto particolare della mano che lo riceve, un movimento aggraziato per posarlo sulla lingua con la parte del pesce a contatto con il muscolo, tre secondi di pausa per armonizzare le temperature (importanti anche durante la preparazione del pesce, quindi piatti mai freddi, coltelli, e così via). E poi, si gode. Se all’inizio è reticenza e goffaggine, già al terzo boccone ci sentiamo tutti più scafati. Sarebbe quasi inopportuno, rimanere sulle proprie.
Accade così il miracolo più grato del nutrirsi al di fuori delle mura domestiche, dove l’alimentazione parla di controllo ed è continuamente incitata a farlo. Questo è il senso dell’affidarsi dell’omakase: mi affido a te per quello che mangio, certo, ma mi affido anche sul come lo mangio. Scegliere antipasto, primo, secondo e dolce è un po’ dettare legge, alla fine. Il cliente ha il coltello dalla parte del manico sulle tempistiche. Qui, il contrario. Un atto materno, se ci dimentichiamo per un secondo della transazione economica alla base del tutto. È una forma di servizio alta, fondata su una responsabilità in un certo modo spontanea. O così mi sembra quando mi preparo ad alzarmi dopo tagli di chutoro e otoro (due varianti di ventresca di tonno), ricciola, branzino; ma anche capesante (giapponesi, taglia monstre), calamaro ripieno, una frittata dolce con frutta secca. Pure inutile che vi elenchi con precisione: io e voi non mangeremo mai lo stesso menu.
La seconda cosa che succede forse non è un miracolo, però rientra in questa nozione di cura. La conversazione, se si vorrà, potrà spaziare dai segreti del sushi a, se ci riuscirete, i problemi del cuore. Quindi forse la notizia, è vero, non è tanto che a Milano ha aperto un nuovo omakase. Forse non c’è una novità e al suo posto troviamo una consapevolezza sopita che spinge un po’, si fa strada e riemerge: questo è quello che la ristorazione può essere, e che probabilmente, nello spirito, sempre dovrebbe. Lunga vita agli shokunin.
*Hatsune Ronin Milano è aperto dal martedì al sabato, in due turni serali (19:30 e 21:45), al costo di 160 euro bevande escluse.
Hatsune Ronin
Via Vittorio Alfieri, 17
20154 Milano MI
www.houseofronin.it