Testo di Letizia Gobio Casali
Foto cortesia di Distreat
Impeccabili. Nonostante la loro giovane età, i ragazzi di Distreat non sbagliano un colpo. Non avviene in cucina, dove lavorano fianco a fianco Federico Sordo – classe ’91, un’aspirazione manageriale e un passato da Oldani, Sadler, dai Cerea e al Ratanà – e il collega Andrea Tirelli, l’elemento più tecnico del duo, pure lui passato da Cesare Battisti a Milano. Né succede in sala sotto la sapiente direzione di Guido Dossena, classe ’75 e una predilezione per i piccoli produttori.
Per questo motivo il consiglio è di affidarsi e di lasciarsi guidare tanto nella scelta dei piatti quanto negli abbinamenti, inclusi gli amari post-prandiali. Tutto risulta ottimo e coerente, senza scivoloni o sbavature. E dire che le proposte sono numerose e, curiosamente, più a pranzo che a cena. A mezzogiorno, oltre ai piatti della sera, all’offerta si aggiungono proposte più leggere. Il rischio può essere che l’eccesso di proposte paralizzi chi deve decidere ma non vuole rinunciare, giustamente, a uno degli “irriducibili”, ovvero dei piatti ormai “classici” del Distreat, che includono sempre un risotto. Il motivo: siamo a Milano “e l’input della proprietà è di offrire una cucina accessibile e un locale aperto al quartiere”, ovvero a quel Naviglio Pavese che in versione cool è già stato ribattezzato Napa, ma che appare ancora assai meno glamour del vicino Naviglio Grande.
Tra i citati irriducibili, oltre al risotto che cambia a seconda della stagionalità, l’unico evergreen che non esce mai dalla carta, è un piatto a prova di bomba: il Baccalà mantecato su crostino di polenta. Si tratta di un’esplosione di morbidezza in grado di entusiasmare i commensali, pur se composto solo da pesce e olio: un dettaglio che ne fa un’alternativa possibile a chi non tollera il lattosio e una golosità imperdibile per chiunque altro. Ma tutti i piatti in carta fanno centro. Il nostro percorso degustazione, che è già cambiato da una settimana a questa parte, ha previsto un debutto d’effetto con una Crema di fave fresche con riccio, uova di trota ed erba ghiaccio, un tocco originale e croccante, dall’aspetto brinato, che è stato scoperto da un produttore di Pavia, da cui arrivano anche elicriso ed erba pola. A seguire, Fette di lingua marinata per sei giorni a bassa temperatura e poi affumicata con legno di melo, che si sovrappongono come striscie vellutate che ricordano le inconfondibili ricette della nonna, ma dotate di più raffinatezza.
La magia di evocare il passato e al contempo di migliorarlo si ripeterà con il dolce, ma già da qui si capisce quanto sia azzeccata la definizione dell’impostazione del Distreat coniata nel momento dell’apertura, nel gennaio 2018, da Medagliani, lo specialista delle pentole che ha i principali chef lombardi tra i clienti: è una cucina all’italiana. Che vuol dire che i piatti sono (abbastanza) tradizionali, ma non banali. Le preparazioni elaborate, ma non cervellotiche. La materia prima eccellente e senza divagazioni e contaminazioni.
Lo conferma il Diaframma con melanzane in salsa emiliana, composta di brodo di carne, marsala, funghi: buonissimo, gustoso, completo. Altrettanto dicesi per il Maiale cotto a bassa temperatura con chutney di fragole, ibisco e polvere di senape che è così: perfetto. A chiudere lo Sfogliamisù, una namelaka di caffè e mascarpone, con triangoli di sfoglia che di nuovo, riporta nel passato, ma con un solido equilibrio di sapori lontano dalla cucina casalinga eseguita “a occhio”. Tutto ottimo, tutto convincente e adeguatamente accompagnato da un Pelbery 2020 Domaine Obriere, seguito da un Fragrante, la cui etichetta lo fregia del titolo di “amaro insolito”, in cui la genziana lascia sulla lingua il sapore di Pepsi, ci spiegano. E poi la vera sorpresa: il conto leggerissimo, 45 euro per cinque portate (65 con i vini), che sono pochissimi in considerazione della qualità delle materie prime, del livello dei piatti e del fatto che siamo a Milano, pure se sul naviglio “sfigato”. Che dire se non “bene, bravi (e noi faremmo il), bis”?
Distreat
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