Testo di Stefano Cavallito
Foto di Davide Dutto
Torino brucia sotto la cenere. Non solo la dolorosa polvere dei mesi di pandemia, ma la fuliggine viscosa del declino post-industriale, della marginalità sociale, della povertà politica, della fuga a Gaeta intellettuale. Brucia d’orgoglio ferito in attesa che una raffica di vento, anche solo sporadica o effimera, le soffi via quel velo che la rende simile a una Ercolano in vita. Ma con meno turisti. E mentre i più prosaici sognavano nuove attività industriali, i romantici nuove olimpiadi, i revanscisti saloni dell’auto, i borghesi meno scritte sui muri, gli spensierati itinerari del tour d’Italy, i semplici finali di Champions e i maneggioni authority europee, la cruda statistica dice che dal 2006 a oggi le persone che vivono sotto la soglia di povertà sono aumentate in modo progressivo e i senza tetto più che raddoppiati.
Non saranno i ristoranti a salvare la città, che possiede un’articolata rete di solidarietà, ma il segno di quella fetta gastronomica di Torino, abitata da privilegiati amanti del buono, è unico e per fortuna ripetibile.
Da tempo, da prima della pandemia, alcuni cuochi torinesi, mossi dal desiderio di fare emergere la città attraverso le sue cose migliori, discutevano di un’alleanza comune, della formazione graduale di un movimento gastronomico che avrebbe potuto funzionare come accaduto, in maniera esplosiva, in altri luoghi d’Europa, dal gruppo basco proliferato nel terriccio de Lo Mejor de la Gastronomia alle enclavi nordiche, irrorate da investimenti pubblici e riscaldate dal fascino di Redzepi. Si cercavano strade adeguate per ristoranti diversi, da quelli con alle spalle investimenti milionari, come Del Cambio di proprietà della famiglia De Negri o Condividere di Lavazza, a quelli di giovani cuochi di talento, come Magazzino 52 o La Limonaia e, improvvisamente, decine e decine di ristoranti si sono naturalmente trovati avvinti da un sentire comune e condiviso, il “chilometro zero umano” che, come dice Andrea Chiuni, portavoce del movimento, “è il rapporto con la nostra città, quella comunità che solo uscendo dalle cucine si scopre non essere formata esclusivamente dai nostri clienti”.
Tutto è nato perché nei giorni del primo lockdown del marzo scorso, proprio Andrea Chiuni, executive chef del gruppo di ristoranti Carlina, Tre Galli e Tre Galline e il titolare Riccardo De Giuli, hanno iniziato ad aiutare due centri di distribuzione del cibo per i senza tetto, provati dalla contemporanea chiusura di alcune mense cittadine. Un messaggio in una chat, cuochi hanno chiamato cuochi, e nel giro di pochi giorni decine di cucine hanno riacceso i forni senza che vi fossero tavole apparecchiate. Chiuni, con la precisione maniacale dello chef che sa fare di conto, stila da quel giorno liste di turni settimanali, che comprendono ristoranti gastronomici, come Spazio 7, Del Cambio, Condividere, Limonaia; fast food come M*c Bun, osterie come i Du Cesari, etnici come Vale un Perù e Sovietniko, bistrot come Gaudenzio, Era Goffi, San Giors, Magazzino 52, Rabezzana, pizzerie come Sesto Gusto e Fuzion, e altri ancora che hanno contribuito alla data di pubblicazione di questo articolo a produrre quasi 41.000 pasti, per la mensa dei Frati Minori, la distribuzione ai senza tetto della Comunità di Sant’Egidio e gli asili notturni del Centro Torinese di Solidarietà. Pubblicandone i nomi, facciamo un torto al loro puro understatement sabaudo perché per molto tempo la prima regola delle “cucine solidali” – questo il nome della chat e poi del progetto – è stata “le cucine solidali non esistono”. Poi i cuochi hanno pensato che il loro modello potesse essere replicato anche in altre città, per altre persone, e deciso che fosse il momento di farlo sapere. Eppure se c’è un servizio del TG1 da fare, o di Striscia La Notizia o la foto con un calciatore generoso, non è facile trovare volontari per apparire in tv o sulla stampa, perché per molti di loro è sufficiente cucinare e sapere di avere trovato una strada per fare di Torino un modello di gastronomia di alta qualità alimentare ed etica.
A proposito di alta qualità, i cuochi delle cucine solidali hanno clienti che possono spendere per una cena l’equivalente di una spesa familiare di una settimana o che sono disposti a pagare per un hamburger il giusto valore di una carne di alta qualità e per una pizza il costo di lieviti, tempi e mozzarella buona. “Ma il tema della sostenibilità, riassunto nel mirabile mantra ‘buono-pulito-giusto” di Slow Food – dice sempre Chiuni – va letto anche a valle della filiera, affinché il buono pulito e giusto sia accessibile a tutti e non solo alla fascia abbiente e consapevole della popolazione. La nostra prima esigenza è servire dei pasti a chi ne ha bisogno ma ci dispiace servire al ristorante paste che costano 7 euro al chilo e alle mense altre che costano 10 centesimi e sono fatte con grani di provenienza misteriosa. Raccogliendo fondi, comprando in stock e pagando in anticipo, utilizzando i contatti privilegiati con i nostri fornitori, proveremo a ridurre questo iniquo divario, senza diminuire il numero dei pasti”.
Maggiori informazioni sul sito cucinesolidali.it