Testo e foto di Lorenzo Sandano
Apologia della trattoria. Quella che non nasce per esser tale, ma che lo è sempre stata. Conscio dell’attenzione ripristinata per osterie o trattorie contemporanee d’ogni specie – dilagante a macchia d’unto negli ultimi anni – mi arrovello spesso sulla paradossale eventualità di non render merito opportuno ai veri fondatori e veterani di questo movimento. Per carità, belli gli ambienti vintage rimodernati, belli gli arredi di recupero o le ricette desuete riadattate al presente, belli i claim accattivanti, i fornitori griffati, “bella ‘a boiserie, bello tutto” (parafrasando Sordi), ma diamo altrettanto lustro all’archetipo di trattoria? Parlo di quei luoghi infrattati ai margini delle periferie paesane, che animano combriccole da villaggio e ancora si sostengono coll’inossidabile scambio mediatico/orale del passaparola.
Parlo dei posti che portano in pegno l’appellativo bar o tabacchi nell’insegna, perché nati come punto d’aggregazione sociale e collettivo, prima di autocelebrarsi ristoro di culto. Parlo dei ritrovi sempre pieni di variopinte categorie umane, affollati senza necessità di campagne o strategie social media; arci-note dalla clientela nel loro successo in anonimato, conferito esclusivamente dalla certezza di un pasto delizioso, rinfrancante, al riparo dalle beghe quotidiane. Indirizzi esattamente come la Trattoria Bar Nadia di Fano (PU). E per rivolgermi a voi in assoluta schiettezza, rivelo che è solo grazie allo chef Michele Gilebbi del Nana di Senigallia (nativo di questi lidi, che andremo a raccontare meglio prossimamente) se ho scovato questo posticino imbattibile nella sua dialettica pura e radicale.
Da Nadia, non c’è bisogno di ripiegarsi in presentazioni o filastrocche introduttive, perché appena varchi la soglia – che passa serenamente inosservata allo sguardo forestiero – realizzi che la qualunque è qui da prima che la tua memoria possa impelagarsi a cercare qualche storiella romanzata. È tutto così, immutabile e basta. E devi pure piantarla di farti troppe domande. Dall’alba dei tempi, la famiglia di questo avamposto marinaro, custodisce e divulga le liturgie culinarie più fedeli alle tradizioni fanesi.
Cucina che, come ci anticipa Gilebbi, presenta un’insospettabile delicatezza esecutiva, un uso parsimonioso di sale o condimenti e un amore sovrannaturale nella manodopera rituale che ne suggella le preparazioni. Come la poetica da oste ci insegna, il menu non esiste. O meglio a noi non è pervenuto, perché la lista di vivande decantate a voce dal cameriere in sala – scandita solo dalla reperibilità quotidiana del pescato – funzionava molto meglio di qualsiasi carta stampata o lavagnetta scorrevole.
C’è un porticato floreale e grazioso che costeggia la sala, adottabile nella bella stagione, e un’atmosfera cordialmente distesa e rarefatta. Un mobilio che non cede troppo valore all’estetica, ma che riflette una cura indecifrabile nel solo atto di esistere e accogliere l’ospite nel migliore dei propositi. Una dote perseguita e certificata nel trionfo d’antipasti caldi e freddi, recapitati in tavola a ondate e in piattate abbondanti, che inneggiano alla condivisione sfrenata. Un’Insalatina tiepida di orata bollita, cipolla rossa e concassé di pomodoro nivea e squittente idiomi iodati; un battaglione imperioso di Alici marinate dall’acidità garbata e solleticate; un Plateau di cozze appena schiuse dal vapore, che esibiscono mitili polposi, profumati e carezzevoli senza dressing invasivi all’infuori dell’uso del limone a piacere. Esordio da ribaltarsi.
I primi piatti atterrano in pirofile dall’allure generoso, ulteriore elogio al convivio, collocando in primo piano la sapienza manuale della pasta fatta in casa. Tipo quelle sottilissime e callose Tagliatelline al ragù di pesce misto: colorate nella salsa da un uso fin troppo preponderante del pomodoro, che sarebbe scorretto ovunque ma non in questo caso. L’equilibrio tra carboidrato e intingolo marino è gentile, armonioso, serafico al gusto. Proporzionato nella sproporzione di ritagli ittici e cordicelle robuste d’acqua, uova e farina che intonano la sinfonia più ghiotta d’ogni fantasia riconducibile a un esercizio così semplice in apparenza.
Altrettanto disarmante il saggio recondito delle Cresc Tajat (o Crestaiate): formato d’antica foggia casalinga, che Michele ci spiega derivare dal riciclo della polenta avanzata secondo scaltri usi domestici. Farina di mais, dunque, impastata col frumento, cotta sulla brace in guisa di crescia (piadina) o sezionata in rombi e bollita a mo’ di pasta. Crescia tagliata, appunto.
Da Nadia la servono in un umido dolcissimo e saporoso di canocchie che ti proietta all’istante lungo il bagnasciuga salmastro di Fano (proprio fuori dal locale). Non solo, quella consistenza piacevolmente cheeky e fondente, rimanda a un’idea sofisticata di gnocco cinese dall’elasticità fine e conturbante. Si termina in coerenza, come si è iniziato, con una carrellata di portate principali in ampie terrine servite tutte assieme: il Pesce bianco in crosta di patate e peperoni dagli umori struggenti; gli Spiedini di calamaro panati e temprati in forno da menar la testa per la succosità e la tenerezza sconvolgente dei cefalopodi; la sfilata di Canocchie bollite per decretare la tua assuefazione con un manifesto glorioso del pescato indigeno. Ne divori impunemente una dietro l’altra e non ti sembrano mai abbastanza, che in confronto lo slogan delle Fruit Joy vede rifilarsi un sonoro “scanzate proprio!”
All’epilogo di cotanta baraonda gaudente, ti ritrovi a sbocconcellare l’ottima Crostata della casa e a tirar le somme, specchiandoti nel turbinio alcolico della Moretta fanese (miscela digestiva di liquore all’anice, rum, brandy, caffè, zucchero e scorza di limone): non esiste modernità o riadattamento che tenga dinnanzi alla meccanica instancabile del mestiere che alberga in insegne come questa. Perché quando pensiero e pancia ne escono così sazi e rilassati all’unisono, ogni dettaglio aggiunto o rimestato appare come una forzata velleità. Lode a Nadia. Lode al ristoro libero dei Bar Trattoria dell’Italia tutta.
Via del Bersaglio, 25
61032 Fano (PU)
Tel: +39 0721 806648
“Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita d’amore,
sono tutte creature della vita e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.
Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via”
Canzoniere – Umberto Saba