Testo di Francesca Ciancio
Foto cortesia di Cascina Fraschina
No, questo non è l’ennesimo racconto di un gruppo di amici boomers che lasciano carriere folgoranti ma snervanti per la campagna, che si mettono a fare l’orto e che lanciano una start up green. Questa è la storia di tre trentenni – e due di loro ancora non lo sono – che hanno studiato per fare gli agricoltori. Tommaso Montorfano, Claudio Vaccari e Marcello Requiliani sono imprenditori agricoli ed è esattamente ciò che volevano fare da ragazzi. Il loro posto si chiama Cascina Fraschina e si trova ad Abbiategrasso, che poi è anche il comune di origine di Tommaso e Claudio, mentre Marcello è di Milano. I primi due vivono in azienda, il terzo ritiene sia ancora opportuno tenersi uno spazio tutto per sé, lontano dal lavoro. Insomma, ci parli, ci ragioni e capisci che bisogna essere estremamente concreti per portare avanti un’attività così. Per le espressioni bucoliche c’è poco spazio e le si lascia volentieri agli articoli dei mensili patinati.
Faccio visita alla cascina nel periodo meno appropriato, quello del pieno inverno, dove tutto ha un aspetto brinoso e se a Milano ci sono quattro gradi, qui in campagna siamo sullo zero. Fa piuttosto freddo in questo pezzo di Pianura Padana, quindi si parte da un caffè e poi si inizia il giro. La Fraschina è una delle tante cascine del territorio a ovest di Milano, nel Parco del Ticino, a cui si può arrivare seguendo l’acqua e capire il sistema delle chiuse che serve per l’irrigazione dei campi. Abbiategrasso d’altronde sorge sulla cosiddetta Linea dei Fontanili, punto di incontro di tutti i corsi sotterranei della vasta pianura.
È la stessa acqua che, a una ventina di chilometri di distanza, viene fotografata tutti i giorni a Milano nei selfie con lo sfondo del Naviglio Grande. Qui invece siamo in un mondo agricolo che è ancora importante nell’identità dell’abbiatese. L’edificio storico risale al XVI secolo e, ovviamente, è sempre stato un posto dedicato all’agricoltura. Marcello mi racconta che durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale qui c’era un’ostetrica che faceva nascere tutti i bambini della zona e che si è sempre chiamata così, Fraschina. La nuova vita della cascina in realtà nasce nel 2014 quando viene comprata da una coppia di milanesi un po’ avanti con l’età che vogliono farne il loro ritiro dalla città, ma l’età avanzata li spinge a donare tutto alla Fondazione Don Orione che, proprio con i tre ragazzi, prende accordi per farla tornare alla sua attività principale. Sarebbe anche un b&b con otto camere, con lavori di ristrutturazione che sarebbero andati avanti se non ci fosse stato il Covid: “abbiamo ancora chi ci scrive per chiedere una camera – spiega Marcello – ma al momento siamo concentrati sull’azienda”. Tommaso è il primo ad arrivare con una laurea in Ortocoltura, seguito da Claudio laureato in Enologia e poi Marcello con un diploma ITS della Fondazione Minoprio di Como, una delle poche scuole in Italia ad avere un parco botanico. Qui il giovane imprenditore fa anche l’insegnante di Piani di produzione orticola biologica.
Ecco, veniamo al biologico, dove il bio non è una scelta di mercato, ma una scelta etica prima di tutto: il claim aziendale è infatti “Qualità di prodotto e rispetto per l’ambiente possono e devono convivere!”. La scelta è quella della filiera chiusa dove si coltivano non solo ortaggi tradizionali, ma anche tipologie esotiche, molto richieste su un mercato come quello di Milano ristoratori ma anche privati: “Non è un vezzo – racconta Marcello – coltivare più specie possibili favorisce la biodiversità e la rigenerazione dei terreni”. In tutto Cascina Fraschina ha tredici ettari di terreno, divisi tra serre e campo aperto. Il giro inizia proprio dalle serre che in inverno danno l’idea del riposo della terra e del fatto che sarebbe bene alimentarsi su base stagionale, lasciando le primizie ai capricci di chi non fa pace con i tempi della semina e del raccolto. C’è poco da vedere ma il lavoro è ancora molto: “Solo da un anno e mezzo abbiamo la trapiantatrice – spiega Marcello – per i primi 5/6 anni abbiamo fatto tutto a mano. Un po’ alla volta aggiungiamo un pezzo e poi c’è Tommaso che è come MacGyver, trova sempre una soluzione per riadattare un pezzo a qualcosa di utile in campagna”. Giriamo per le prime due serre che sono quelle del vivaio, dove prendono vita progetti e piante: troviamo l’erba cristallina che ha fiori e foglie ricoperti da gocce che sembrano rugiada; l’origano cubano che è una pianta semigrassa dal forte odore salmastro, il Malabar, lo spinacio dalle foglie rosse che si comporta come una rampicante e può raggiungere i dieci metri di altezza. “Molte delle produzioni nascono – continua l’imprenditore agricolo – perché facciamo continua ricerca botanica, altre perché ci vengono richieste dalla ristorazione, ma il prezzo che facciamo è lo stesso per chef e clienti privati. E non coltiviamo fuori stagione per accontentare un mercato che pure sarebbe remunerativo, ma andrebbe contro ciò in cui crediamo”. Le serre non sono riscaldate ma sono aperte e chiuse sui lati a seconda delle temperature e dei venti, la stufa per la germinazione va a legna e Tommaso-Macgyver si è inventato una modifica a una macchina che gli consente di creare dei panetti di terra dove le radici delle piantine non spiralizzano, ma rimangono fresche e corte, così da poterle semplicemente appoggiare sul terreno.
Anche le serre di coltivazione al momento sono vuote, anzi, questi sono i mesi del sovescio con le leguminose per azotare il terreno. Ce ne sono di più piccole che i ragazzi hanno messo su da soli riciclando gli archetti dismessi da aziende che hanno chiuso: “abbiamo comprato i teli e fatto gli scavi – aggiunge Marcello – usiamo il mater-bi compostabile per la pacciamatura e cerchiamo di usare meno plastica possibile, anche se al momento non esistono alternative valide ai flessibili dell’acqua che sono, per l’appunto, in plastica. Ecco cosa ci vorrebbe, una start up che studiasse un materiale adatto”.
In campo aperto, se pur in inverno, l’azienda ha un altro orizzonte, tra l’altro verdissimo grazie al periodo delle crucifere e qui scopro che i cavoletti di Bruxelles sono attaccati a un fusto – che può raggiungere l’altezza di un metro – che somiglia a una palma nana. Ci sono poi la verza, il cavolo cappuccio e il broccolo fiolaro, conosciuto soprattutto in Veneto e di cui si mangiano i germogli. Tutt’intorno un po’ di bosco che serve per la legna, ma anche per la raccolta dei frutti spontanei. In primavera, giura Marcello, lo spettacolo è quello dei fiori eduli con la calendula, il garofano, le erbe aromatiche e il sambuco e l’acacia sugli alberi. Forse un giorno potrebbe diventare anche un parco avventura progettato su misura per disabili, così come accogliere i campi scout: “sono tutti progetti di cui stiamo parlando con la Fondazione Don Orione – aggiunge Marcello – non abbiamo ancora deciso l’esatta destinazione, ma qualcosa faremo”.
Questa voglia di fare ha portato i tre ad avere clienti di fama: Claudio Sadler ha tessuto le lodi della loro zucca Hokkaido, Marco Ambrosino del ristorante 28 Posti si serve di diverse cose, la trattoria Ciciarà, tra le nuove e più promettenti insegne milanesi, usa le loro verdure, Yoji Tokuyoshi adora il Kangkong (lo spinacio d’acqua) di questa cascina. Le referenze sono oltre centocinquanta ma non possono essere sempre garantite e alcune sono state abbandonate. Il vivaio però è una fucina di curiosità e di prossime buone cose da mangiare. Tra gli ultimi arrivati c’è il riso: “Non so neanche io come sia venuto su così buono – sorride Marcello – due anni fa fu un disastro, ci abbiamo riprovato e l’ultima raccolta è stata fantastica per quantità e qualità. Anche chi ci ha dato i semi non riusciva a crederci”.
Per info e acquisti:
Cascina Fraschina
Via Cassolnovo
20081 Abbiategrasso (MI)
https://cascina-fraschina.business.site