Testo di Eugenio Signoroni
Foto cortesia di Confraternita del Grappolo
C’è sempre un altro mare. Un mare che non viene preso in considerazione, non viene acquistato anche se estremamente economico, non viene cucinato perché difficile e lungo da trasformare, non viene chiesto dai clienti perché considerato minore e poco adatto a celebrare la nostra voglia di pesce. Un altro mare che è stato etichettato come povero o minore, termini che, sebbene usati in buona fede, non hanno contribuito alla sua fama.
Un altro mare che, invece, non ha nulla da invidiare a quello più noto e desiderato. Un mare fatto di merluzzo, un pesce nobile che ha il solo difetto (almeno in alcune zone d’Italia) di essere associato al cibo per bambini o per malati; di zerri e suri pieni di sapore e però anche di spine; di razze, che non solo hanno molto spreco e vanno pulite con cura e sapienza ma che, se pescate con sistemi invasivi, puzzano anche di ammoniaca; di piccoli crostacei meno appariscenti delle loro versioni di prima o seconda categoria; o di piccoli pesci, perfetti per essere infarinati e fritti, ma costantemente sostituiti da calamari e gamberi surgelati e provenienti da chissà dove.
Quest’altro mare, con tutte le sue specie, è stato il protagonista della cena organizzata da Slow Food Abruzzo e Molise e dal ristorante Vecchia Marina di Roseto degli Abruzzi (TE) per accendere un faro su questa tematica. Una cena durante la quale Gennaro d’Ignazio – cuoco e oste di quello che, come ha detto Marco Bolasco, è senza dubbio uno dei migliori indirizzi in Europa se si parla di pesce – ha mostrato come non serva molto per dare a questi pesci il giusto valore e come, anzi, si possa costruire un lungo menu. che nemmeno per un istante ha fatto rimpiangere scamponi, rombi e vongole veraci.
Gennaro d’Ignazio, va detto, è uno dei più grandi conoscitori del pesce dell’Adriatico. La sua è una conoscenza profonda e minuziosa, costruita in quasi vent’anni di notti passate al mercato ittico di Civitanova Marche a parlare con i pescatori, a vedere migliaia di cassette di pesce passare sul nastro trasportatore, a interrogarsi sul perché dei prezzi e sull’impatto che le diverse reti e tecniche di pesca hanno su ciò che poi arriva al suo ristorante prima e nei nostri piatti poi. Non c’è dettaglio che sfugga a Gennaro. Non c’è elemento che non abbia una spiegazione: non la bocca aperta di merluzzi e naselli, non il colore interno del guscio delle vongole o quello del carapace di una pannocchia, non la struttura di un pesce San Pietro o la consistenza di una piovra.
Si è iniziato con un Tris di crudi composto da gallinella, tracine e gamberetti serviti nudi o delicatamente conditi da senape al miele, arancia o da uno dei tanti oli extravergini locali che si trovano su ogni tavolo. A seguire quello che provocatoriamente è stato chiamato Il merluzzo per bambini: un delicato carpaccio cotto con il solo calore del piatto da portata e condito con olio, limone, sale e gambi di prezzemolo. La tradizione abruzzese e marchigiana ha invece ispirato le saporitissime Pallotte senza cacio e senza uova (ma con razza) e i Frittini ascolani: un’oliva ripiena di gallinella e una crocchetta a base di patate e suri profumata dalle note intense dell’aglio bruciato. Lo Scottadito di scarpette (piccole seppie) e sgombetti è stato il dovuto omaggio alla brace, mentre la Tjella con pannocchiette, piccole pescatrici e totanetti è stata un’esplosione di sapore e un tuffo nell’idea più profonda di gusto italiano. Qui olio, aglio, rosmarino, peperoncino e vino bianco oltre a cuocere in modo veloce e soffice la polpa dei pesci, restituiscono un sughetto da inzuppare con il pane di rara profondità e golosità. La pasta fresca senza uovo – un must di questi luoghi – ha trovato spazio nelle Patelle patate e pesce, mentre quella secca è stata esaltata da un Riquadro Verrigni condito da un saporito e concentrato piccato giuliese (un ragù di suro, sgombro e gallinella con pomodoro). Per chiudere l’immancabile Fritto di Paranza con zanchette, trigliette, gamberetti rosa e totanetti.
Ad accompagnare la cena – che, come ha più volte ribadito Raffaele Cavallo (legale rappresentante di Slow Food Abruzzo e Molise) deve essere il primo passo di un lavoro più ampio e strutturato – i trebbiano dell’azienda Nicodemi. Oggi questo vitigno, che ben si accompagnava alla serata non solo a livello gustativo ma anche ideale, è, infatti, considerato un simbolo dell’Abruzzo vitivinicolo a lungo è stato snobbato in favore di uve più note, ricercate e apprezzate. Un altro vino, se vogliamo, che ce l’ha fatta per accompagnare e dare un messaggio di speranza all’altro mare.