Il ristorante di Giulio Gigli in un vecchio mulino del seicentesco
Testo di Andrea D’Aloia
Foto cortesia
All’inizio non lo capisci come ci sia finito fin lì. Non c’è logica, non te ne fai una ragione. Non diresti nemmeno che si sia perso. Allora decidi di andare a vedere con i tuoi occhi, a cercarti qualche spiegazione convincente.
Capodacqua: meno di duecento esseri umani poggiati nel cuore verde d’una minuscola frazione di Foligno. Una piccola apnea, una specie di calma programmata, una porzione sottilissima di pianeta in cui muoversi contornata di spazi immacolati, rocce, boschi e fiumi, dettagli che per forza di cose son dovuti diventare importanti equilibri che hanno generato, un pezzetto per volta, interi ecosistemi. Quel genere di posto dove puoi vivere senza orologio, ma non senza un destino da scriverti.
Giulio Gigli da queste parti è nato e cresciuto, poi ci è tornato dopo quindici anni trascorsi a diverse latitudini nel mondo: per capirlo, per imparare come farci ballare il suo talento sopra cercando nel frattempo sé stesso e la sua direzione, interiorizzando esperienze e gestendo pensieri. Nel 2021, con la sua dolcissima compagna Lucile Kopczynski, non ha resistito alla forza di gravità che ti riporta al centro di questo paesaggio e ha aperto il ristorante Une in un vecchio mulino seicentesco. Qui si è ritrovato, conun’enorme, deflagrante capacità d’inventare, di definirsi, di immaginare desideri come si deve: irresistibili. È qualcosa che suona maledettamente affascinante, se ci pensi e alla fine non puoi far altro che constatare quanto possa essere coerente e sensato –contro ogni logica e ragionevolezza – l’idea di tornare a cercarsi l’anima proprio qui.
Ci ha trovato il respiro profondo del mondo: tempo che scorre in un’altra maniera, vite in slow motion e tutte quelle cose che sono qui da sempre, con il preciso compito di rimanere e di aspettare. Allora si è creato una sorta di passaporto per sognare in grande anche da qui. Ha rimesso tutto nel suo ordine, con cui è riuscito a risalire al cuore del progetto, alla sua idea di stare al mondo e al concetto che lui ha dell’esperienza: una specie di continua meraviglia negli occhi. E ha tirato fuori una capacità sublime di vedere cose che gli altri non avevano ancora visto, ha fatto luce su potenziali ed eccellenze ancora inespressi. Punti, linee e distanze che ora, finalmente, tracciano geometrie e architetture precise, che in questa mappa ci dicono esattamente dove è lui, incline a qualcosa di più e all’idea che questa terra abbia molto da restituirgli.
Une probabilmente non è mai stato soltanto un ristorante, ma l’idea dettagliata di come si debba abitare il mondo che si è scelto per sé. Gigli – calma serafica, atteggiamenti vellutati e parole centellinate (neanche una fuori posto, pronunciate davvero solo quando ce n’è bisogno) – qui materializza ogni giorno il suo artigianato avanzato, con una maestriain cui è indispensabile un grado assurdamente elevato di precisione e perfezionismo, con il puntiglio di rimanere onesto e di rispettare le proprie idee.
Del suo sogno e della sua visione, forse il merito più grande, ha fatto innamorare anche chi gli sta accanto: Lucile, la brigata di cucina, la preparatissima sala tutta al femminile (con le encomiabili Gaia Landrini, maître e Federica Capodicasa, sommelier: è incredibile come fluttuino tra le stanze prendendosi cura praticamente di tutto), i micro-produttori che ha intorno, che ha preso per mano e settato su standard qualitativi d’eccellenza e a cui dà la meritata importanza in un piccolo opuscolo consegnato assieme al menu. Li elenca uno a uno (con la distanza, in chilometri, che li separa dal ristorante): ci sono norcinerie, caseifici, pescherie, oleifici, produttori di mieli, di spezie, di tutto il resto che Gigli e i suoi non riescono (ancora) a prodursi in casa (e i progetti qui non mancano: dalla produzione di conserve e fermentati alla recente piantumazione di tre grani antichi – Rieti Mentana, Andriolo e Gentil Rosso – per farne farine sostenibili e pane, in collaborazione con il Forno O’Ma di Foligno).
Nello stesso opuscolo c’è anche il Diario di Campo, progetto artistico curato insieme a Giulia Filippi, che colpisce per il modo accattivante (e graficamente ineccepibile) di dipingere l’habitat botanico di Une, i semi e i frutti del campo arborato, dell’orto e del giardino appena fuori il ristorante. Una sorta di diario visivo di un ecosistema che genera ogni giorno risultati sublimi, in cui sono protagonisti il tempo, la sua influenza sull’alternarsi delle stagioni, le connessioni con la natura. Una narrazione che ti incunea la realtà nella testa e te la fa esplodere dentro: c’è una spettacolarità in questo modo di raccontare e raccontarsi che rende ogni argomentazione leggerissima, capace di arrivare lontano e a cui fa seguito una corrispondenza nei piatti che lascia sbalorditi.
I percorsi degustazione sono due: uno più agile, Acquedotto (per via dell’elemento che condensa in sé storia ed economia di questi luoghi: il torrente Roveggiano, che scorre lì vicino, porta acqua a Capodacqua e un tempo azionava il vecchio mulino/frantoio dove ora sorge il ristorante); il secondo – più strutturato – Relazioni, è la lettura e l’interpretazione di Gigli del patrimonio culturale umbro e dei suoi sapori, il suo modo di andare dove deve andare, in un modo che è specificatamente il suo.
Ogni portata è una tessera di un’esperienza molto più ampia, segmenti di una sequenza che è partita da qualche parte lì attorno – o lontanissima – e che, probabilmente, finirà altrove. Partite dalla tecnica (tantissima, ultramoderna), fatevi incantare dal talento: il cuoco folignate alleggerisce, semplifica cose complicatissime, stratifica i sapori con accostamenti ingegnosi, gioca con i contrappunti facendo dialogare fiume, bosco, orto; armonizza i gesti a cui si sta applicando fino a quando non ottiene spiragli sufficientemente aperti da farci transitare qualche suo pensiero o movimento. Tra le pieghe di Capodacqua ci infila un piatto francese (fa un pâté en croûte clamoroso), o una modernissima tecnica spagnola acquisita dove ha lavorato, con ruoli di assoluto rilievo.
I piccoli snack di aperitivo partono da questa logica e dunque sono micidiali (il Croccante di tapioca e zafferano, maionese al midollo, kimchi di sedano e tartare al manzo; il Bon bon fritto ripieno di spuma di patè di pollo e piccione, lardo e pepe rosa; l’iconica Tigella aerea ripiena di blu di capra e guarnita con praline di noci pickled e zest di limone). Seguiti dalla celebrazione dell’antipasto all’italiana, concetto molto caro allo chef, che vi riversa un certo gusto e una certa idea di bellezza: stratificazione di sapore – ingrediente su ingrediente – nei carnosi Porcini confit cotti in un olio di parmigiano e conditi con siero dello stesso, germogli di pino sottaceto, coste di bieta, farinelli (spinacio selvatico che lui lo coltiva in giardino), cialda croccante ed emulsione degli stessi funghi; poi la Terrina di stinco di maiale e limone, accompagnata da una Panna cotta di piselli, vinaigrette alla mostarda, foglie di senape, fiore di aglione; il Nido di agretti, anch’essi coltivati nell’orto e preparati in conserva. Tanti elementi che messi insieme aumentano il coefficiente di difficoltà dei piatti, ma che Gigli utilizza con perizia (e con risultati sempre molto equilibrati e appaganti): non c’è idea senza sfoggio di tecnica, sono incatenati l’uno l’altra, la concretezza non viene meno e la leggerezza delle proposte non ne risente.
Picchi sublimi con i primi ed i secondi piatti: i Ravioli di baccalà mantecato, pil pil e succo di fagiolini sono golosissimi, supersonici i Cavatelli paglia e fieno (mantecati in un sugo di orecchie di maiale saporitissimo, serviti su una spuma di lenticchie corallo di Colfiorito e gamberi di fiume); poi la Trota fario su cui lo chef ha un controllo maniacale: sono pesci di 5 anni, allevate tradizionalmente. Prima della cattura vengono fatte nuotare 1-2 mesi in acque libere, per perdere peso e grassi: da Une arrivano belle “asciutte”. La trota è avvolta da una foglia di aglio orsino, olio all’aglio, crema di mandorle stufate (cotte addizionando quattro tipi di aceti diversi: ginestra, acacia, sambuco, lilla).
La Bavetta di manzo, lumache, finocchietto e bieta è un piatto che meriterebbe, anche da solo, il viaggio, e lo stesso discorso vale per il Parfait al miele, gelato di cera d’api e pappa reale: bellissimo da vedere, incredibile da mangiare (tuile di miele di bosco, anello di gelatina al miele di castagno, parfait al millefiori, biscotto al miele indaco, gelato alla cera d’api, polline e un gel di miele d’acacia. Il tutto servito con una puntina di pappa reale, da mangiare per prima per attivare la salivazione: una perfetta conclusione di un pasto memorabile).
Qui da Une tutto ha maledettamente senso, tutto è incastrato alla perfezione. È il lavoro di gente che, con pazienza infinita, cerca di rimettere a posto un pezzetto di mondo, e di riportare le cose dove dovrebbero stare. Di correggere le impurità del destino. Un istinto che non conosce limiti e un’ossessione incurabile. È un piccolo slittamento dell’anima, che non si dimentica.
Ristorante UNE
Via Fiorenzuola, 37
06034 Capodacqua (PG)
Tel: +39 334 885 1903
www.ristoranteune.com