Viaggio – seduti oltre il tavolo – nell’essenza di Heston Blumenthal a Bray
Testo di Lorenzo Sandano
Cover Foto “Lollies” di José Luis López de Zubiria
“You say what you want to say
You do what you want to do
You be what you want to be
You go where you want to go
You say that you want to say
You have what you want to have
You live your own life just like me”
Just Like Me – The Adicts
Il grigio meticcio e underground di Londra ti rimesta i ricordi appena atterrato. Dirottandoli verso le vecchie glorie da adolescente punk. Ma non hai neanche il tempo di lasciar strimpellare in testa quei tre/quattro accordi a cui sei tanto affezionato, che devi reimbarcarti. Metro e treno a catena, per circa due orette, fino alla stazione fantasma di Maidenhead. Meta ultima: The Fat Duck Restaurant a Bray. Per un appassionato/cultore/gastronomo che si rispetti, esistono luoghi che non dovrebbero rimanere inesplorati. Quelli che – salvo eventuali chiusure o gap generazionali/anagrafici – hanno scandito un pezzo di storia per la ristorazione. Non mi ero mai spinto fin qui, sbagliando di grosso. Perché l’errore in cui molti precipitano è quello di dare per scontati alcuni passaggi cruciali. O semplicemente si rischia di pensare che la storia equivalga a qualcosa di vecchio, desueto, stantio. Che arranca verso l’appiattimento produttivo o creativo. Anche qui, nulla di più sbagliato.
Il caso The Fat Duck è anni luce distante da questa logica. Perché quello che in un’ottica superficiale potrebbe apparire vintage o datato, è in realtà un punto di partenza – e forse anche di approdo – per molti cuochi e addetti al settore. Mai più attuale nelle sue simultanee e incrociate sfaccettature espressive. Fondamentale da vivere, nel percorso di comprensione (in aggiornamento) di questo mondo palpitante. In una zolla di terra, tagliata dal Tamigi e battuta da cottage di campagna e indirizzi anonimi, che grazie al tocco folle/geniale di Heston Blumenthal (e Alain Roux del Waterside Inn, è giusto dirlo) è stata eletta come area ad alta concentrazione di ristoranti di pregio. Troviamo infatti, sotto il marchio H.B. e pochi metri di distanza dal ristorante madre, anche lo stellato Hinds Head e il gastro-pub The Crown (senza contare il 2 stelle Dinner nella city londinese). Sottolineo folle perché, dal polo giusto, un cuoco come Blumenthal lo è sempre stato. Londoner puro, classe ’66, esordisce come cuoco autodidatta dopo aver rimbalzato diverse professioni (cameraman, venditore di fotocopiatrici e architetto tra le tante). Forse proprio per questo, avvantaggiato da una libertà mentale che ha raggiunto magica alchimia con l’indole scapestrata del visionario innato, che gli scorre nelle vene. Tra studi accademici incessanti (con volumi di cucina sotto braccio) e un passaggio ai fornelli di Raymond Blanc, riesce in autonomia a inaugurare il suo The Fat Duck nel 1995. Rilevando un insospettabile e malandato pub di Bray. Più che un azzardo, per l’epoca.
Inizia classicheggiante, ma ammiccando già a cotture sottovuoto ed espedienti innovativi. Poi, l’anatra grassa spicca il volo repentino verso il futuro, nonostante quei decantati chili di troppo dell’insegna. Due stelle Michelin in un battito d’ali di neanche 6 anni. Tre stelle Michelin già dal 2004. Heston sarà tra i primi a inanellare studi scientifici/chimici applicabili alla sua cucina britannica: la frittura a freddo con l’azoto liquido (partendo dalle iconiche e pluri-plagiate french fries assolute); il concetto di gusto incapsulato su scala molecolare; l’amplificazione delle particelle d’aria attraverso il sottovuoto. E ancora studi sull’impatto uditivo/sonoro in degustazione (coadiuvato dalle celebri cuffiette a tavola); la psicologia del gusto e l’esplorazione delle interazioni fra i sensi in sinergia con la sfera emotiva e la memoria dell’assaggiatore. Aspetti presi, rimaneggiati e riadattati in numerosi stili e metodi gastronomici che ancora ci troviamo davanti, a distanza di oltre 24 anni. Fattori che oggi, al Fat Duck, trovano significato, forma e a loro modo anche un processo evolutivo costante. L’anatra ancora svolazza in alto, seppur non più di prima piuma.
Fat Duck Family – Sala&Cucina, unite nello storytelling
Il merito è anche e soprattutto di un team titanico di ragazzi in brigata, splittati e coesi equamente tra diverse mansioni/ruoli che intercettano tutte le ramificazioni ristorative di Heston a Bray. Profili eclettici, da ogni angolo del mondo, che operano in simbiosi totale con lo scheletro produttivo del Fat Duck Group. Seguendo un modello a dir poco unico nel suo genere. Per cercare di raccontarlo – scivolando poi fino all’esperienza a tavola – chiamo all’appello due baldi giovini che raggiungono a malapena il mezzo secolo di vita sommando le loro rispettive età. Italiani di nascita, ma da sempre attivi per passione professionale sui suoli internazionali. Stefano Di Giosia e Salvatore Delle Donne: in ordine, elementi di cucina & sala nel circuito Fat Duck. Scelgo la loro testimonianza non solo per assecondare un briciolo di patriottismo romantico in trasferta. Ma anche perché, da post-giovane stagionato quale sono, è stato incredibilmente rincuorante confrontarmi con l’entusiasmo fervido del loro approccio. Lasciandomi guidare lungo il viaggio filosofico e strutturale di questa entità fuori dal comune.
“Sin dalle prime gavette nel panorama salernitano, dove sono nato, transitando poi per Nord Italia, Francia e Germania, ho sempre amato la versatilità del lavoro di sala. Il contatto diretto con il cliente durante il servizio, partendo proprio dalle basi classiche del guéridon e della finitura a tavola in ottica conviviale” spiega Salvatore, introducendomi al servizio del ristorante. “Approdato al The Fat Duck, all’inizio mi sentivo insicuro nel confrontarmi con una realtà ignota. Che sulla carta era ben diversa da tutte le idee e i concetti che avevo appreso fino a quel momento. Le mie impressioni erano fondate, ma l’affiatamento del gruppo mi ha subito coinvolto attivamente nel moto inedito dello storytelling su cui poggia il lavoro qui. Si, perché lo storytelling in questo ristorante è un qualcosa che va oltre. La base fondante di una relazione incomparabile con l’ospite. Rapporto che cerca di innescare ricordi comuni attraverso il cibo, tutelando l’intimità culinaria soggettiva. Qualcosa da vivere in prima persona per essere compresa. Per questo Heston ha imposto come codice lavorativo – a ogni membro di sala e cucina – di sedersi almeno una volta a tavola come clienti normali. Ospiti dell’azienda, per carpire e immagazzinare le dinamiche del locale da più punti di vista. Si entra in una dimensione impareggiabile a quella che è l’aspettativa. Una frase molto usata qui, in cui mi ritrovo, è che siamo artefici di un ”business delle emozioni”. Non solo le emozioni che noi regaliamo all’ospite, anche quelle che l’ospite regala a noi durante la condivisione di intenti ed emozioni durante il servizio”.
Il ruolo dello storyteller, presentato da Salvatore, è un vero e proprio narratore gastronomico. Più che cameriere, un insolito e affettivo troubadour 3.0. Compagno di viaggio onnisciente e cantastorie fidato, a cui viene assegnato il tavolo dopo la prenotazione. Lui contatta il proprio ospite ben 3 settimane prima della visita, cercando di instaurare un primo rapporto, attraverso una telefonata o uno scambio di email: rilasciando un accenno introduttivo di quella che sarà l’esperienza multisensoriale del Fat Duck. Più sensi coinvolti, ma non solo in chiave teorica. Si tratta di un processo psicologico stanziato nelle retrovie a dir poco monumentale. In preparazione di una cena che non può essere lasciata al caso: circa 4 ore e mezza di degustazione, che solo grazie a questo training preventivo, scorre poi liscia e sinuosa come burro spalmato su pane caldo. Il questionario si articola su domande a volte anche difficili da comprendere nell’accezione comune di una visita al ristorante. Ma sono fondamentali per aprire un varco nell’inconscio, nella comfort zone palatale del cliente. Consentono di familiarizzare con quella che sarà l’esperienza finale e con una comunicazione molto efficiente e ben organizzata che collega i diversi reparti di cucina & sala. Per poi confezionare degli imprevedibili gift sartoriali a sorpresa, che si potranno scoprire solo seduti al Fat Duck.
“Si cerca il più possibile di personalizzare l’avventura, andando a toccare sia in modo culinario, verbale, che materiale dei punti che possano portare a galla ricordi passati, d’infanzia o stimolare corde evocative collettive” rimarca Salvatore. “Il mio percorso qui è iniziato con una settimana in cucina, ogni giorno in un diverso reparto. Poi due settimane di ufficio, di solo studio tecnico e gestionale, passando alla sala ristorante dal back, ovvero mise en place. Solo quando si è ritenuti pronti, quando il concetto del luogo è ben chiaro e lo hai percepito in pieno, puoi diventare uno storyteller. Il tema primario da sollecitare sono i momenti nostalgici, quelli belli però. Per questo costruiamo un questionario sulla traccia del nostalgic form. Vogliamo intercettare gusti, tracce emotive e infantili soppesate su ogni singolo individuo. Per comporre un momento magico e individuale, nelle 4 ore in cui si accomoderà da noi. Un metodo che ti cambia drasticamente la visione di tutto il lavoro di sala nel suo complesso. Eccezionale. E grazie al clima che si respira qui, ci si sente ogni giorno come in una grande famiglia”.
Spostandoci verso l’altra anima del Fat Duck, la cucina, interpelliamo gli occhi grondanti passione di Stefano: giovanissimo cuoco abruzzese, classe ’97, che dopo un tradizionale percorso alberghiero, uno stage illuminante all’Aga di Oliver Piras e un passaggio in Nord Europa e a Copenaghen, ha trovato la sua realizzazione nel flusso operativo di Bray. “La motivazione e il grado di meritocrazia che ho avvertito appena arrivato qui non le avevo mai viste prima” racconta. “Sono ancora commis, la “scalata” qui è lunga, ma non appena l’head chef Edward Cooke ha notato il mio impegno, mi ha assegnato la sezione che si occupa delle salse. Da 11 mesi circa, ho già la responsabilità di tutte le salse e le basi del Fat Duck, del Hinds Head e del pub The Crown. Ogni giorno sono sempre più stupito da quanto sia importante la ricerca della perfezione in questo ristorante. Non esistono compromessi, non c’è mai un calo di standard, perché la qualità è il fine ultimo da raggiungere e da tutelare costantemente. Si cresce molto in ogni ambito, sia come cuoco ma soprattutto come persona. Nascono rapporti professionali e di amicizia che creano un ambiente di lavoro sano e stimolate. A riprova di questo, ogni venerdì abbiamo un meeting con tutti gli chef (oltre ai meeting giornalieri) e parliamo ovviamente di tutte le cose che riguardano l’ambiente lavorativo. Confrontandoci su qualsiasi aspetto condivisibile, anche dello staff food da preparare per la settimana successiva. È molto importante nutrirsi bene e stare bene in quel momento di pausa durante la giornata. Sentirsi parte di gruppo, di una missione, di un racconto comunitario è un lato che emerge istantaneo qui al Fat Duck. Appena assunto, vieni scortato nella tua gavetta da un metodo induction (anche la guest experience a tavola che tutti devono vivere fa parte di questa formazione), che ti avvicina e ti fidelizza alla storia del ristorante sin dalle origini. Alla storia di Heston e alla sua idea di cucina, in ogni minimo particolare. Solo così riesce a girare magicamente una struttura grande, movimentata e complessa. Che non è riconducibile solo alla singola cena”.
Già, perché dietro la piccola sala del Fat Duck (14 tavoli appena), vi sono ben 3 edifici a reggerne il fulcro produttivo: uno è il ristorante; uno e lo staff canteen con gli uffici e l’altro è la prep house (cucina di preparazione). La trasformazione base delle pietanze parte da quest’ultima, per essere smistata e rifinita nei vari locali adiacenti. Vi è un continuo confronto tra i cuochi e un perpetuo aggiornamento che segue la stagionalità e il pensiero fiabesco di Heston rivolto alla sua visione contemporanea. Basi classiche (molto spesso francofile) ricette/ingredienti britannici ed evasioni esotiche spiazzanti. Il tutto rimodulato con macchinari fantascientifici. Dei quali, in qualche caso, è stato lui il primo a brevettarne la funzionalità sul campo. Nei piani alti della prep house, si trova anche la bakery, con un enorme reparto dedicato interamente alla pasticceria (con sale a temperatura controllata e aree apposite per il temperaggio del cioccolato). Sistema ordinato a ciclo chiuso, a dir poco pazzesco. “La connessione con tutti i membri del team, cominciando da sala e cucina, è inscindibile” conclude Stefano. “Posso tranquillamente affermare che siamo una cosa sola. I ragazzi di sala nel loro primo mese di lavoro trascorrono una settimana in cucina per osservare da vicino le nostre preparazioni. Onestamente io qui mi trovo proprio bene. Mi sento libero di essere me stesso, di esprimere le mie idee, grazie a un’azienda che ti riconosce i tuoi meriti, dandoti la possibilità di crescere a prescindere dal tuo tenore anagrafico. Amo l’Italia, ma non so se sarei riuscito a fare lo stesso percorso a casa mia. Il fattore umano che sto vivendo ora mi porta a vedere il mio futuro ancora qui. Perché avverto un rispetto e una condivisione professionale davvero rari”.
The Story Starts Now – Il menu in viaggio
Il menu – il format sperimentale del Fat Duck – è in continua evoluzione. Come il ciclo laborioso dell’intero gruppo di menti e manovalanza in background. Questa versione concettuale è stata sviluppata e promossa dal 2015, dopo l’ultima ristrutturazione del locale: una riproduzione culinaria di un autentico itinerario in vacanza, in stile british. Dove si trovano alcuni signature dishes di Blumenthal; nuove suggestioni su ingredienti e pensieri; e ulteriori digressioni semi-improvvisate, che si snocciolano sul concetto di cucina Tailor Made Immagineer. Ovvero, piatti sartoriali, confezionati in merito alle risposte del cliente al fantomatico questionario dello storyteller (sopracitato). Quindi non sorprendetevi se molti ospiti intorno a voi avranno piatti diversi dai vostri. È un percorso onirico, fantasioso, a tratti candidamente “straniante” dal mondo reale. Per quanto, al tempo stesso, risulti incredibilmente efficace nel ricreare le tappe itineranti di una vera giornata vacanziera (con tanto di mappa e lente di ingrandimento per non perdersi durante il tragitto gastronomico). Tutto è collocato e studiato al posto giusto, senza ammettere approssimazioni. Spiegando scrupolosamente ogni portata, in relazione al momento del viaggio, ricostruendone atmosfera e sensazioni in lettura maniacale. La sala stessa, isolata con finestre oscurate dall’esterno, esibisce camaleontici cambi di luce per suggerire la progressività del movimento e dell’alternarsi di ambientazioni a incastro. Quasi plagiando la tua mente, per poi risucchiarti in una sequenza di istantanee incalzanti, che coniugano tutti i sensi in una meccanica spinta all’estremo. Calcando la continuità filologica della storia e dei sapori posizionati in ogni precisa parte del menu. L’esperienza è divisa in 7 capitoli differenti (uno per ogni tappa) con tempi di servizio scanditi al metronomo, per non appesantire la permanenza al tavolo. E vi assicuro che grazie al dialogo tra sala e cucina, quasi non avvertirete l’incombere di quelle 4 ore sull’orologio. Si alternano narrazioni complesse – con aneddoti surreali o trattati storici ben definiti – a divagazioni sagacemente ironiche e provocatorie. Pronte a punzecchiare quell’enfasi ludica e infantile che si rivela componente chiave nel marchio identitario e stilistico di Heston. Ma è forse la sostanza degli assaggi quel che più sorprende durante questo eccentrico viaggio: il gusto non è mai soverchiato dai (numerosi) espedienti tecnici e scenografici che si susseguono. Corredati da supporti estetici eccentrici, che in molti altri casi interpretano il peggior nemico per un riscontro gustativo concreto e non fittizio. Da ciò è tangibile non solo il manico di un fuoriclasse, ma anche l’imprinting di un cuoco che ragiona con palato mentale e con la passione di un mangiatore seriale. Non a caso, il preludio del menu suggerisce il ricordo del primo pasto dello chef in un tre stelle francese, come punto mnemonico focale nel suo percorso in cucina. Sarebbe quindi inutile, quanto noioso, elencare tutte le pietanze provate. Troppe e a tratti troppo intraducibili, se non assaporate in prima persona tra queste mura. Ho estrapolato alcuni piatti/capitoli che difficilmente scorderò e che proverò a trasporre in queste righe. Ma il mio consiglio è di spingersi sino a Bray, almeno una volta nella vita. Pronti a scaldare i motori sensoriali, per sgommare lungo il viaggio di questo inguaribile folle genio della gastronomia britannica. Vivendo un grado di storia di nostalgia esperienziale tutt’altro che nostalgico.
A Welcome Drink
Nitro poached aperitif – Appena accolti al tavolo, si cerca di ricreare il retro di un automobile. Voi siete i passeggeri: luce soffusa che dal bianco acceso, sfuma al viola; sedie che ricordano il sedile di un automobile vintage; delle carte vengono consegnate in mano all’ospite. Ruoli differenti proposti per ogni carta: possono essere una lista cocktails, oppure si può giocare a un gioco d’infanzia inglese chiamato Top Trump. Se si sceglie la drink list (ovvio che sì) arriva con un trolley al tavolo, con dei sifoni contenenti una mousse con albume d’uovo montato, gelificanti naturali e ingredienti di uno dei cocktail presenti nella lista. Si va a creare una meringa che viene infusa nell’azoto liquido, ne congela l’esterno e rimane morbida al suo interno. Eterea e intensa al palato. Tutti questi drink, di estrazione internazionale” ruotano ispirandosi alle caramelle inglesi chiamate Opal fruits (molto simili alle più comuni Fruittella). Base frutta in 4 sfumature di Paloma, Pina Colada, Vodka Lime Sour e Negroni: cercando di toccare simultaneamente in uno shot ogni punto del gusto (amaro, acido, dolce, sapido). Stimolando il palato, seppur sottozero, in un elettrico boccone che lascia il segno nella sua penetrante evanescenza azotata.
Il tentativo di Heston, appena arrivati, è quello di farvi sentire come dei bambini che giocano a carte sul sedile posteriore dell’auto. In viaggio con i genitori, ciancicando allegramente caramelle. Una catapulta mnemonico/evocativa che centra il bersaglio, ponendoti subito a tuo agio.
Chapter N. 1
The day before we go: Are we nearly there yet? (The holiday starts)
Just the tonic we need – Passaggio/dedica di Blumenthal a sua madre, che con questa affermazione battezzava l’arrivo a destinazione di ogni vacanza in famiglia. Perché non c’è nulla di meglio di un gin tonic defaticante, al termine di un lungo viaggio in macchina. La versione Fat Duck, gioca ancora su temperature basse, a stuzzicare il palato su un timbro rinfrescante. Che cresce di calore e intensità solo durante la degustazione vera e propria: royale al cumino e un gelato al topinambur, temprano un Gin tonic al piatto, in compagnia di gazpacho di erbe, frutta e verdure, riproposte come fossero botanicals. Da sorseggiare, naturalmente, autoprodotto. Per non far latitare il tasso alcolico necessario alla gamma di percezioni sollecitate.
Chapter N.2
Morning: Rise & shine, it’s breakfast time
Breakfast. The day after. L’inizio della giornata in vacanza – Come se foste in pantofole nella vostra stanza d’hotel, dopo il drink di benvenuto, vi troverete a compilare il canonico foglio del room service per sbarrare le preferenze della vostra colazione. Si inizia dal rito comune con del pane tipico negli anni sessanta in Inghilterra chiamato Fan Tan: un assuefacente e morbidissimo pan brioche da annegare nella struggente clotted cream homemade (panna riscaldata finché coagula e poi raffreddata lentamente), tipica di Cornwall. Il luogo usuale delle vacanze di Heston and Family. In combo memorabile, una conserva di pomodoro e caffè. Come fosse un evolutivo e contaminato bread, butter and marmalade. Poi arriva la Breakfast in a bowl: ovvero la colazione più amata in hangover (Full Monty Breakfast) servita in forma di latte & cereali. La tazza di latte è una bowl con uno zabaglione salato alla base, del tartufo a dadini, una gelatina di pomodoro arrostito e una crema al bacon. A corredare il tutto, si aggiungono i cereali: 6 scatole dal design differenti, ridisegnati sul concept di celebri brand di corn flakes & co. La sorpresa, oltre all’intensità di gusto dei cereali (al pomodoro, funghi e salsiccia) sarà quella di trovare dei puzzle differenti nei rispettivi cereal boxes (a tratti personalizzati in relazione al questionario). Montati insieme, vanno a creare un “portamonete” da conservare lungo il viaggio. Nel salvadanaio inserirete la vostra monetina porta fortuna AKA la paghetta settimanale dell’infanzia. Strumento che potrà servirvi arrivati alla fine del percorso. L’ultima parte della colazione è l’Hot and Cold tea or coffee. Un bicchiere viene servito con 2 diverse temperature all’interno, un lato 0°C un altro lato 7°C. Delizioso nella sua progressione chaud-froid.
Chapter N. 3
Mid-Morning: First one to see the sea – Mattinata al mare
The Sound of the Sea – Il momento cult, che hai visto un po’ ovunque, ma che vissuto trova decisamente un impatto molto più incisivo. Vengono servite delle conchiglie contenenti degli auricolari, da indossare in ascolto durante l’intera degustazione di questo capitolo. Nelle orecchie (e nel sound spirituale) avrete lo scroscio tenue delle onde, il vento e il canto dei gabbiani. Nel piatto, una base sabbia edibile, sgombro marinato, polpo cotto sui carboni, erbe marine e un brodo di verdure alghe locali. Nessuna suggestione eccessiva: la propulsione salmastra, salina e iodata di questo passaggio ha un’amplificazione sensoriale unica.
Chapter N.4
Afternoon: If you go down to the woods today… Pomeriggio nel bosco & PicNic
Damping through the boroughgroves – Pronti per una passeggiata nella foresta? Un appariscente centro-tavola ricrea la fauna arborea di un bosco. Nel piatto un tronchetto di funghi e patate, cela una cangiante insalata di funghi freschi e barbabietole marinate, che emanano note di humus e umami a ogni boccone. Il crumble di funghi con burro al tartufo e scaglie di tartufo nero conferiscono musicalità e texture. Mentre il gioco teatrale del vapore azotato ai sentori boschivi – eruttante dalla teca/paesaggio collocato in mezzo al tavolo – inebria l’olfatto. Trasportandoti in una ennesima dimensione evocativa.
The mock turtle soup – Piatto/icona, ispirato ad Alice nel paese delle Meraviglie. Si arriva al momento del picnic, estrapolando un episodio del capitolo 7 del libro di Charles Lutwidge Dodgson: il Tea Party del Cappellaio Matto. La lepre marzolina mette il suo orologio da taschino nella tazza di tè, con la folle speranza di ripararlo. Un finto orologio da taschino (composto da brodo di manzo gelificato) viene servito avvolto con dei fogli d’oro alimentare. Successivamente sciolto in un infuso – versato con teiera di ordinanza – tramutandosi in un consommé di manzo intenso, ricco e aromatico. Nella tazza antistante, un omaggio ai banchetti regali dell’epoca della Regina Vittoria: una finta zuppa di tartaruga – The mock turtle egg, con lingua di bue brasata, rapa e cetriolo. Come degno side-with, per un picnic tristellato che si rispetti, troverete il Queen Victoria Toasted Sandwich: glorioso micro-tramezzino di pane bianco tostato, ripieno con midollo, mostarda, cetriolo e tartufo. Fenomenale.
Chapter N.5
Evening: Are you ready for dinner? Cena fuori – Non mi era mai capitato di fare una cena dentro a una cena. Effetto dinner-matrioska, perché con il cambio di luce soffusa, viene recapitato un ulteriore menu: pronti per andare a provare il ristorante dell’Hotel dove soggiornate in villeggiatura. Il main-course, è quindi un vero e proprio pasto a sé. Anche questo calibrato con il contagocce.
Aerated beetroot: macaron, dall’impatto esplosivo di sola barbabietola aereata al sifone e crema al rafano.
Snail porridge: un denso, avvolgente e succulento porridge di lumache, in cui l’avena viene cotta e mantecata sontuosamente come un risotto all’italiana. Con tanto di burro al prezzemolo autoprodotto a inspessirne la struttura. Per l’ulteriore spinta sapida/aromatica, arriva la sferzata del prosciutto iberico, lumache brasate e finocchio. Tecnica al servizio del gusto, senza un briciolo di esitazione.
Duck and turnip: virata prepotente sul classico, definito a mestiere, con una zampata vegetale e amaricante. Anatra cotta magistralmente, fondo d’anatra aromatizzata allo sherry e porto, fluid gel di cime di rapa, fondente di rapa e insalatina agra di cime di rapa.
Botrytis cinerea: la muffa nobile che concentra gli zuccheri degli acini – il cui nome deriva dal fungo nobile che si sviluppa sul grappolo d’uva – è il tema di questo supersonico dessert. L’obiettivo di Blumenthal: dimostrare che da un bicchiere di vino dolce e possibile estrarre numerose tonalità di gusto e aromi di altri ingredienti. Unificate e distinte al tempo stesso in un dolce futuristico: zafferano, succhi d’uva di differenti varietà e annate, formaggio erborinato inglese, fieno greco e agrumi. Chapeau.
Whisky gums: il digestivo è d’obbligo a fine pasto. Qui si crea la rappresentazione di tutti gli aromi che il whisky contiene, servendo caramelle gommose a forma di bottiglia di diverse varietà di whisky. Una mappa dei differenti luoghi di provenienza è servita alla base di ogni rispettiva gum: Glenlivet, Oban, Highland Park, Laphroaig e Jack Daniel’s.
Chapter N.6
Off to the Land of Nod – Bed time
Counting Sheep – l’onirico sfonda il reale a tavola. Più che mai in questo capitolo, dove il nome legato al rito mentale della conta delle pecore. In disperato tentativo di addormentarsi per gli insonni. Per i bambini invece, un innocuo gioco/filastrocca. Un cuscino volante viene servito con 2 meringhe al di sopra ripiene di double milk ice cream. Latte concentrato fatto in casa, altamente grasso, ricco e confortevole al palato, ottenuto con un processo di estrazione dell’acqua dal latte intero. Powered lattuccio e siamo pronti per la nanna…
Chapter N.7
And then to dream…
The Sweet Shop: lo Sweet Shop (meccanico) che approda in tavola sembra un pezzo d’artigianato raro per collezionisti. È una riproduzione in scala del ristorante visto dall’esterno, con tutti i minimi dettagli che possono far ricordare un negozio di caramelle vintage. Al suo interno, troverete la tipica camera di un bimbo inglese cresciuto tra gli anni 70 e 80, con tanto di giocattoli tipici dell’epoca. Assurdo. Dall’altro lato del negozio, una rappresentazione di quello che è il laboratorio dello Sweet Shop vero e proprio. È il momento di rompere il salvadanaio e dare un senso alla vostra moneta/paghetta ricevuta a colazione (sono passate una giornata intera o 4 ore?). Inserita nell’apposita fessura del negozio, salteranno fuori 48 cassetti, dei quali solo uno si aprirà: il vostro. Un dolce trucco, a base di cioccolato in formato giocattolo, aromatizzate in base ai gusti che avevate evidenziato nel corso della vostra breakfast room service, spuntando le caselle del cartellino in dotazione. Goliardia e petit four, per un cioccolatoso rientro a casa. Le vacanze sono finite e forse qui, un po’ di nostalgia potreste avvertirla
High St
Bray SL6 2AQ – UK
Tel: +44 1628 580333