Testo di Elisa Teneggi
Foto cortesia
Un supper club romano dedicato alla comunità queer, un torrone peruviano che contiene storie e tutto il resto che mettiamo in tavola: il detto “siamo quello che mangiamo” non è mai suonato così reale.
Ripetere questo messaggio in Italia suona come una tiritera: il cibo non è solo l’ingrediente che mettiamo nel piatto. Il cibo è altro, è una storia, gesto sedimentato che racconta di una comunità, di ciò che è stato. Gli avanzi della cucina di nonna, le guerre, le contaminazioni. Ingredienti da nuovi mondi e il sincretismo con cui li assumiamo. Lo sappiamo, a volte lo dimentichiamo. Oppure crediamo che sia una nostra prerogativa, che per gli altri non funzioni così. Questa è, naturalmente, una fantasia. Il cibo è memoria, è politica, è un’idea di mondo. E ci parla per negazione: ciò che non mangeremmo dice di noi molto più di quello che invece accettiamo alla nostra tavola.
“La tradizione italiana è rigida, escludente. Proponi un piatto che viene considerato diverso perché, non so, hai messo la frutta nell’insalata, e subito ti guardano male”. A parlare è Sara Baron Goodman, cuoca e autrice. È canadese di Montreal, arrivata in Italia dopo aver vissuto nel Regno Unito per studiare all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e ora vive (anche se forse per poco) a Roma. Sara è una donna queer, non ne fa mistero – “ma non capisco nemmeno perché ci sia bisogno del momento in cui si fa il discorso” – e la sua identità passa anche attraverso il cibo. “All’università ho iniziato a focalizzarmi sul rapporto tra cibo e identità queer: come si esprime la comunità attraverso il cibo, come si può spiegare questo concetto e come la nozione di queerness viva all’interno di un’identità nazionale e culturale. Pensiamo alla cultura italiana, della tavola e non: dov’è lo spazio dei queer”. La risposta a questa domanda non è precisa, ma continua a formarsi. Sara parla del cibo come di uno spazio di liminalità per una minoranza che fatica a collocarsi nel flusso “principale” di una storia culturale. Allora ciò che si mangia, e che si condivide, diventa mezzo di sostentamento non solo fisico, ma anche spirituale.
Dalla teoria, Sara passa alla pratica con il suo arrivo a Roma. “Mi ero trasferita e all’improvviso è arrivata una rottura con la mia partner del tempo. Lì mi sono resa conto di non avere una rete sociale queer nella città dove vivevo. Ci sono i locali gay e saffici, certo, ci sono situazioni in cui puoi bere e ballare e magari conoscere qualcuno. Ma avevo bisogno di qualcosa di diverso, di connessioni più profonde. Così una volta, parlando con un’amica, è venuta fuori l’idea di creare un supper club saffico”. Provano, funziona, le partecipanti arrivano. Lo chiamano Eat Out, che ha un triplice significato ed è una strizzata d’occhio a chi vuole intendere: mangiare fuori, mangiare allo scoperto, praticare cunnilingus. Arrivano non solo donne queer, ma chiunque appartenga alla comunità. “Sulla partecipazione siamo stringenti, e davvero mi dispiace molto. Ci sono dei motivi per cui, almeno per ora, non vogliamo non-queer ai nostri eventi. Il primo è che abbiamo una capacità molto ristretta. Poi, vogliamo che la conversazione parta da un terreno comune, che le persone si sentano a proprio agio, accettate, comprese. Anche gli “alleati” lo possono fare, e idealmente la società non dovrebbe nemmeno avere bisogno di spazi separati per comunità marginalizzate. Però al momento è così, tutti abbiamo tanto lavoro sistemico da fare. In Italia la strada è particolarmente lunga”.
Ma dunque di che cosa parliamo quando parliamo di queer food? Il manifesto pubblicato sul profilo Instagram di Eat Out recita: è un modo per nutrire la comunità; è una reazione al sistema di oppressione eterosessuale e patriarcale e in quanto tale pone attenzione sulla diversità, sostenibilità, eticità e inclusione sia del consumo che a ogni livello; è creativo, esagerato, sperimentale, nostalgico; è incasinato, sexy, e vuole portare gioia; non è codificato. Nei fatti: sfogliando tra i menu di passati supper club (che avvengono a cena come da nome, ma magari anche ad aperitivo, per un picnic, e insomma non scandalizziamoci) si intravedono torte decorate con Barbie svestite, pesche arrostite, panzanelle, taglieri di fichi e formaggi, Challah, fiori di ibisco fritti, verdure fresche, ravioli avvolti a ricordare una vulva. Piatti deliziosi ma anche giocosi, insomma.
“Quello che ritengo importante, e per cui ammiro molto alcuni ristoratori queer soprattutto negli Stati Uniti, è cambiare la cultura della cucina”, che ricordiamo essere stata codificata per il mondo occidentale da Escoffier su modello militaristico. “La giacca bianca ti è scomoda? Vestiti in modo appropriato e potrai portare quello che vuoi. Stai affrontando una transizione di genere? Devi poterti presentare al lavoro senza vergogne. E poi sostenibilità economica, prestando attenzione alle paghe. E collaborare con piccoli produttori locali, naturalmente per noi meglio se donne”. Perché è così che le persone lavorano meglio e sono più creative, secondo Sara: mettendole a proprio agio. Oggi, Eat Out è anche Sophia Zbinovsky Braddel – ricercatrice, artista femminista e cuoca vegetariana – e Nathalie Di Sciascio (si occupa soprattutto dell’organizzazione degli eventi), mentre i partecipanti sono soprattutto internazionali. “Ma ogni volta viene qualche italiano in più, siamo contente”. Il prossimo evento sarà a gennaio, nel mentre il supper club si sta espandendo sull’internazionale. Con qualche progetto a Londra, poi Sara tornerà in Canada per un po’, ma è solo un arrivederci. “Con Sophia stiamo ragionando sul concetto del disgusto, del brutto e del decadente applicato al cibo. Quindi continueremo l’attività, sempre in posti nuovi, sempre con persone che ci piacciono e che stimiamo”.
Di viaggio e incontro parla anche la storia di Fidel’s Bakery: oggi è a Milano nel quartiere di NoLo, ma il negozio è nato nel 1990 a Lima, in Perù. Dietro il banco di questo forno-pasticceria ci sono tre fratelli, Katherine Deidad Santos Alva, Jocelyn e Oscar, insieme alla madre Doris. “Il Fidel’s originale era la pasticceria di mio padre, era lui Oscar Fidel. Noi siamo la terza generazione nel mestiere, lui aveva imparato da nostro nonno, Fidel Santos. Era stato lui, con mia nonna, a cominciare l’attività nel 1956 imparando da un pasticcere italiano di Lima. Noi siamo nati in questo mondo. Ed è lo stesso che abbiamo portato in Italia quando la nostra famiglia si è trasferita per lavoro”. La prima storia dietro le porte di Fidel’s è dunque una di migrazione e perciò ancora una volta di identità. Oscar Fidel è purtroppo venuto a mancare durante gli anni della pandemia di Covid-19, ma le sue ricette le ha lasciate tutte. Scritte, in più versioni, perché lui era un perfezionista, ci dice Jocelyn, e una ricetta non era mai definitiva. Tutti i processi erano e sono ancora artigianali e le preparazioni avvengono con i migliori ingredienti. Infatti, entrando da Fidel’s noterete un affaccendarsi costante dietro il banco, il laboratorio non dorme mai. “Ora siamo le sue mani, e pian piano stiamo introducendo qualche ricetta anche nuova”.
Da qualche anno i clienti italiani sono sempre di più, arrivano con il passaparola e attirati dalle empanadas, torte di compleanno, alfajores che si trovano dietro la vetrina di Fidel’s. E, soprattutto, dalla qualità. “Spesso – ci spiega Jocelyn – la comunità latina tende a preferire la quantità del cibo sulla sua qualità. Noi ragioniamo al contrario”. Durante ottobre, l’attrattiva raddoppia: perché in Perù il decimo mese dell’anno significa Turrón de Doña Pepa. Un dolce dell’infanzia – manco a dirlo – identitario e con storie da raccontare a partire dal suo consumo, legato alla festa del Señor de los Milagros (Signore dei Miracoli), che culmina a fine ottobre con una grande processione per le strade di Lima. Chiamato anche Signore dei Terremoti, l’origine del culto particolare rivolto a questo Cristo risiederebbe in un terremoto avvenuto nel 1655 nella capitale dello Stato, quando, tra i molti edifici crollati, si salvò una parete particolare del Santuario de Las Nazarenas, con dipinta sopra appunto un’immagine del Cristo. La ricetta però è legata a un’altra storia, che a sua volta, in un gioco di caleidoscopio, ne riflette un’altra.
La prima scatola cinese è la leggenda di Josefa Marmanillo, schiava della Valle di Cañete che intraprese un viaggio fino a Lima e al Signore del Miracoli per chiedere di essere guarita da una paralisi che l’aveva colpita alle braccia. Il suo desiderio fu esaudito e Josefa preparò un dolce particolarmente elaborato per ringraziare il Signore. Sarebbe quella la ricetta usata ancora oggi del torrone di Doña Pepa, dove Pepa è diminutivo di Josefa. “La preparazione richiede sei o sette ore per circa cinque chili di torrone – di nuovo Jocelyn – C’è una componente di pasta e una di miele aromatizzato, e solo per quest’ultimo ci vogliono due ore. Lo si mischia con ananas, mela cotogna, lime, arancia, altra frutta fresca e poi panela (zucchero di canna non raffinato, nda). L’impasto invece si lavora a mano perché rimanga morbido, dentro ci sono anice stellato e semi di sesamo tostati e macinati. Una volta pronti si costruiscono diversi strati intrecciando i bastoncini prima in verticale, poi in orizzontale, si unisce il miele e si copre tutto di glassa con caramelline colorate. Bisogna lavorare in fretta per non far asciugare il miele e il sapore finale unisce il dolce e il salato”.
La fetta è imponente e potrebbe scoraggiare gli scettici. Al taglio però il torrone è morbido, profumato e gustosissimo. Jocelyn racconta che suo padre teneva molto a portare il torrone in Italia, ma era dubbioso: “Perché voi avete già il vostro tipo. Ora invece i clienti italiani comprano il torrone per curiosità, poi piace e lo ordinano di nuovo”. Portando la sua storia, e le tante altre che contiene, da una parte all’altra. A proposito: si dice che Josefa fosse nera, schiava di origini africane arrivata in Perù. Il che ci porta a un’altra storia e altre identità, tra i sincretismi religiosi dell’America Latina, piatti, musiche, umanità. Ma questa teniamola per la prossima cena, ché è un’altra narrazione.