L’avamposto territoriale fuori dal tempo di Cristina Taddeucci e Dino Lera
Testo e foto di Lorenzo Sandano
Giunti a destinazione, l’occhio potrebbe cascarvi sul contatore del carburante. Ipotizzando che Google Maps abbia preso possesso in autonomia del navigatore, portandovi a fare rifornimento per non lasciarvi a secco. Sì, perché la prima cosa che noterete è una stazione di servizio con pompa di benzina, adiacente a un anonimo bar-tabacchi di ordinanza. Non agitatevi, come spesso accade le apparenze possono fuorviare. Girato l’angolo del parcheggio, la graziosa veranda con giardino e dehors vi catapulteranno in una di quelle osterie da fiaba che difficilmente riuscirete a scollarvi dal cuore.
La frazione geografica è quella di Lammari, che pur rimanendo a un tiro di schioppo da Lucca e Capannori, passa inosservata sulle cartine quasi quanto il prezioso locale che prende il nome da questa terra di passaggio: l’Osteria di Lammari, appunto. Il setting della struttura – atipico, ma per questo magico – narra già molto della storia e dell’identità che si respirano qui: nato come un antico ristoro per viandanti, rilevato da Guglielmo Tognotti nel 1895 al rientro da una vita di ristoratore-emigrato negli Stati Uniti. Poi adibito in successione a stazione di posta, caffè, spaccio di alimentari, sala da ballo e infine anche benzinaio, galoppando di generazione in generazione. Un autentico focolare sociale, avamposto di collettività e aggregazione indigena. Rimasto umilmente tale, fino alla presa delle redini da parte dei fratelli Marco e Dino Lera (eredi diretti), che decidono di spartirsi la gestione dell’edicola-tabacchi (il primo) e dell’attività ristorativa (il secondo).
La cultura e l’esperienza affinate da Dino nel campo dell’enologia e delle chicche gastronomiche italiane ed estere, lo trasportano a metter in piedi una cantina di rara profondità, visione e pensiero. Cresce anche l’offerta dell’alimentari affiancata al bar, che si colora garbatamente con le opere di design dell’artista locale Andrea Salvetti. Ma l’evoluzione culinaria, quanto mai graduale e sentita, arriva con il carisma ai fornelli della moglie di Dino, Cristina Taddeucci: che da autodidatta tutta gesto, gusto e passione, si lancia nell’avventura di cuoca per vocazione. Riaccendendo l’animo dell’Osteria con tatto e sensibilità innate. Una missione ricca di nobili intenti, più che un progetto d’impresa. Ma il valore unico che segna la differenza, risiede proprio nei caratteri e nei sistemi affettivi dei titolari. Capaci di infondere e trasmettere ai clienti ogni millimetro del proprio amore legato a una ristorazione sempre più difficile da rintracciare.
Fedeli al cordone ombelicale della tradizione territoriale e dell’inamovibile cucina domestica – dalla quale Cristina ha appreso, ripristinato e alleggerito le ricette per il suo menu – ma al tempo stesso modernisti nella stesura concettuale e materica di quel che si mangia e si beve all’Osteria. Maniacalmente attenti alla ricerca di ingredienti autoctoni e biologici, alla stagionalità delle verdure autoprodotte, alla selezione di etichette che raccontano l’opera dei vignaioli biodinamici locali. Alzando lo sguardo oltre confine, per importare solo il meglio che intacca e pervade questa filosofia portante. A rinfrescare questo instancabile moto laborioso, troverete goliardici siparietti di battute e frecciatine intercambiabili tra l’oste in sala e la temeraria cheffa.
Un tratto emotivo e umanamente pregno di convivialità nella sua accezione più rincuorante e sana. Potrei dirvi di prendere postazione nell’intima saletta e scorgere le pietanze del giorno appuntate in lavagna (rigorosamente aderenti al mercato) per cominciare le danze a tavola. Ma proprio perché questo luogo possiede spazi vissuti – di inestimabile entità variopinta – il mio consiglio è quello di aggrapparvi appollaiati al bancone del bar. Spiluccando deliziosi crostini con alici al verde, focaccette e cetriolini, mentre il buon Dino darà prova delle sue doti da mixologist confezionandovi un Campari shakerato in grado di instradarvi al meglio verso il percorso gastronomico che vi attende.
Pochi fronzoli e tanta sostanza nelle pietanze. Ma non di quella greve, opulenta e piatta toscanità inflazionata. Il tocco è lieve, mirato e in completa devozione del prodotto. Manipolato il giusto, per dare il massimo all’assaggio. In spoglia esultanza gustativa. Vedi le Zuppe – cavallo di battaglia di Cristina in ogni ciclo stagionale – che dal timbro dolce e setoso della zucca servita in apertura, si caricano di humus e voluttuosità nella variante con funghi porcini dall’impatto corroborante e definitivo.
Periodo di funghi, omaggiato in più passaggi, come nel corposo Raviolone con baccalà e patate al sugo di porcini. Nerbo calloso della pasta e farcia fondente, in didascalico fraseggio con la terrosità fungina del condimento. Ancora una Tagliatella tirata a mano, vestita a festa col porcino in purezza, di semplicità commovente. Per poi cedere il passo a un baluardo territoriale come il Tordello lucchese: bistrattato su più fronti dalle versioni che affollano le insegne turistiche, qui riconquista la gloria nel suo abito panciuto di carne su carne (ripieno e ragù).
Con un bilanciamento mirabile e suadente che invoglia progressivamente sempre al nuovo boccone. Si casca bene, anzi benissimo, anche con l’evasione dal suolo autoctono: il Vitello tonnato con salsa all’antica dalla trama folta e saporosa, vi conquisterà all’istante. Anche per il tocco frizzante dei cetrioli pickles adagiati sul girello a modino. Antologica la Trippa in umido, qui riletta con un leggero ragù a ingrassarne la fibra, ma il vero KO si assesta con un’apparentemente banale Scaloppina ai porcini: tenera, soave e avvolgente come un abbraccio materno. Applausi.
Ma non gettate l’ancora prima dell’approdo al comparto dessert, perché Cristina sarà capace di stupirvi fino in fondo, recapitando al tavolo una delle Torte di mele più buone che avrete mai assaporato. Almeno per quanto mi riguarda. Stuzzicate l’appetito per i vini dolci di Dino e concluderete il simposio tra risate, aneddoti ritemprati e viscere satolle di gioia. Dannatamente bello perdersi nel ristoro di Lammari, scordarsi di truffe, vili danari e Campi dei Miracoli. Perché se fossi stato Pinocchio avrei condotto qui quei manigoldi del Gatto e la Volpe, banchettando alla grande nel ritrovo fiabesco e fuori dal tempo di Dino e Cristina.
“Entrati nell’osteria, si posero tutt’e tre a tavola: ma nessuno di loro aveva appetito. Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato! La Volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche cosa anche lei: ma siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dové contentarsi di una semplice lepre dolce e forte, con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro. Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di noce e un cantuccino di pane e lasciò nel piatto ogni cosa. Il povero figliuolo, col pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli, aveva preso un’indigestione anticipata di monete d’oro“
Le Avventure di Pinocchio – Carlo Lorenzini “Collodi“
Osteria Di Lammari
Via Lombarda Lammari, 147
55012 Capannori (LU)
Tel: +39 0583 962011
www.osteriadilammari.it