Testo e foto di Paolo Bosca
È la prima volta che mi trovo a raccontare di qualcosa che si beve, ma non si può comprare. Mi chiedo se non sia pretenzioso condividere un’esperienza non immediatamente ripetibile e, normalmente, risponderei di sì, ma non è questo il caso. La gastronomia non è solo ristorazione, ma anche cultura, tradizione e sapore, e nell’acquetta questi “ingredienti” si esprimono sfacciatamente; quindi, vale la pena raccontare il mio incontro con questa strana bevanda.
L’acquetta era una tradizione diffusa in tutto il Piemonte, la regione da cui provengo e in cui ho avuto occasione di indagare brevemente questa storia. Tutte le famiglie che producevano vino tenevano questa bevanda fresca e leggermente alcolica per il consumo casalingo. Ho incontrato l’acquetta a Cascina Tavijn: era l’estate 2020 e Nadia Verrua ne aveva stappata una bottiglia accanto a quelle di ruché, barbera, grignolino, freisa, lasciandoci piacevolmente stupiti e curiosi. La curiosità mi ha subito fatto scoprire le pagine di Tommaso Melilli, chef e scrittore, che nel suo libro I conti con l’oste racconta delle giornate passate a Cascina Tavijn e descrive così il processo di produzione dell’acquetta. “Dopo la vendemmia si prendono le vinacce non troppo spremute, si mettono in un tino e si aggiunge dell’acqua. Si fanno fermentare per qualche giorno, poi si svinano e si torchiano. Ne viene fuori una bibita poco alcolica, a volte un po’ frizzante, che noi beviamo fresca a tavola. Hanno sempre fatto così”.
Di ritorno a casa ho raccontato l’incontro ai miei genitori (entrambi figli di vignaioli) e la reazione è stata inaspettata: in mia madre come in mio padre quel nome ha risvegliato una miriade di ricordi. “La facevamo anche noi – raccontano – era il primo vino che ci hanno fatto bere da piccoli. Si beveva tutti insieme in autunno, appena finito di lavorare in cantina, mangiando le castagne i primi di novembre.” Mi dicono anche che si è smesso di farla con l’arrivo in vigna della chimica di sintesi e sono stupiti dal fatto che ancora oggi qualcuno continua quella tradizione che avevano dato per perduta. Una tradizione che però, almeno ai miei occhi, vale la pena di essere raccontata perché conserva una memoria storica preziosa per vari motivi. Il primo è quella capacità comune a tutto il mondo contadino di non sprecare nulla e trovare sempre il modo di sfruttare al meglio anche la minima risorsa. Ribagnare le bucce “inesauste” per far fermentare anche il minimo residuo non significa altro. Gli esempi di questa attitudine, anche solo nel mondo del vino, sono infiniti: pensiamo ai mille usi delle foglie di vite in cucina o ai vini “del torchio”, come quello recentemente riproposto da Braccia Rese (ne ho parlato QUI). Oggi più che mai questi antichi sistemi sono patrimoni ai quali guardare per rileggere il futuro della produzione alimentare alla luce delle emergenze che viviamo quotidianamente. Un secondo tema è ovviamente quello della chimica di sintesi, che se da un lato ha facilitato enormemente la produzione vitivinicola, dall’altro talvolta interrompe una continuità produttiva circolare virtuosa. Il terzo, che approfondiremo tra poco, riguarda il futuro del vino, sia per quanto riguarda la sua diffusione e consumo, sia per ciò che concerne le modifiche alle quali andrà inevitabilmente incontro col riscaldamento globale.
Sono tornato da Nadia nell’autunno 2022, attraversando banchi di nebbia spessi come manti di pecora; davanti a un’acquetta di bianco imbottigliata nel 2019 (stranissimo bere acquetta d’annata, ma così è, ed è buonissima) mi dice subito che con l’innalzamento delle temperature, le gradazioni alcoliche dei vini stanno crescendo esponenzialmente. “Con alcuni vini rischio di toccare i 16 gradi”. Questo non solo cambia la palette gustativa del vino, ma porta i vignaioli a doversi confrontare con tutta una serie di problemi nella produzione, dalla vigna alle fermentazioni, con cambiamenti di tempistiche e nuovi rischi. “Ultimamente capita che la fermentazione malolattica cominci contemporaneamente a quella alcolica. Questo comporta che i batteri lattici si cibino anche dello zucchero residuo della fermentazione alcolica. Tutto questo rischia di far salire troppo la volatile (la volatile crea un odore che può risultare sgradevole). In sostanza è sempre più difficile lavorare senza additivi chimici”. D’altra parte, mi racconta anche che le bucce stanno diventando sempre più resistenti e vive, quindi il margine per la seconda fermentazione dell’acquetta sta diventando più ampio. Per di più, con queste gradazioni, il vino rischia di diventare sempre più difficile da vivere nel quotidiano e, di nuovo, l’acquetta è una soluzione interessante, capace di conservare la beva, la delicatezza, senza perdere troppa profondità né gusto.
Parliamo anche di un altro aspetto legato specificamente al consumo di vino, che è in continua crescita. L’acquetta è un prodotto semplice, invita alla convivialità di amici o famiglia senza richiedere troppa concentrazione; quindi, può aiutare a eliminare quell’imbarazzo che caratterizza ancora per molti l’esperienza di bere vino. Penso allo stereotipo del “doverne sapere qualcosa” per godersi una bottiglia, del dover riuscire a riconoscere aromi misteriosi nelle esalazioni del bicchiere che rotea. Il vino è semplicità (mai banale), scoperta e allegria. E sapere qualcosa di vino ha senso solo se aiuta a rendere ancora più profonda l’esperienza che se ne fa, non ci sono soglie d’accesso. L’acquetta può aiutare ad abbattere queste inutili barriere.
A questo punto non rimane che spiegare brevemente il perché questa bevanda non si possa comprare in Italia. Da qui siamo partiti, dal fatto che l’acquetta è ancora uno di quei misteri senza etichetta (o meglio con fantasiose etichette di bottiglie di recupero, come da tradizione). In Italia non è legale l’aggiunta di acqua a un prodotto vinicolo in commercio. Si tratta di una legislazione molto restrittiva, che deriva dalla necessità di tutelare al meglio una tradizione storica unica. Per questo la commercializzazione dell’acquetta avviene con maggior successo nei paesi dove la produzione è più giovane e meno normata, informalmente, dalla tradizione: Australia, Nuova Zelanda, California, sono tra i paesi che fanno più sperimentazione sul prodotto, arrivando a presentarlo in formati che possono sembrarci strani, ma sono senz’altro accattivanti, come la lattina.
Cercando di trarne il buono non possiamo che ricordare quanto sia emozionante per ogni curioso, gastronomo e non, andare alla ricerca di questi prodotti che ancora vivono a margine del commercio, legati unicamente a rapporti umani. Se il vino, come tutto il cibo, rispecchia un mondo di relazioni che si esprimono anche nel sapore, andare alla ricerca di rapporti così autentici e nascosti è una tentazione alla quale non consiglierei di resistere. Come scrive Mario Soldati nel suo straordinario Vino al vino (giustamente citato anche da Melilli) talvolta è ancora valida “una grande legge dell’Italia: che, da noi, tutto ciò che ha un titolo, un nome, una pubblicità, vale in ogni caso molto meno di tutto ciò che è ignoto, nascosto, individuale”.
Cascina Tavjin: www.instagram.com/cascinatavijn