Testo di Eugenio Signoroni
Foto di Davide Dutto
Quando nacquero, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, le sfilate di moda non erano spettacolari eventi organizzati nel cortile di un lussuoso palazzo parigino o sulle scalinate della Stazione Centrale di Milano. Erano, invece, momenti privati, allestiti in piccoli salotti borghesi, da stiliste e stilisti che volevano mostrare ai propri clienti la nuova collezione di abiti in anteprima, raccogliere gli ordini e magari qualche commento o suggerimento.
Proprio ispirandosi all’origine delle sfilate di moda, Matteo Baronetto ha organizzato una serata – mercoledì 22 giugno – per pochi ospiti durante la quale ha presentato in anteprima alcuni piatti del nuovo menu e ha chiesto a tutti i partecipanti di commentarli sottolineandone pregi e difetti, suggestioni e ricordi. È stato un momento di confronto molto interessante per provare a cogliere non solo la direzione che la cucina di Del Cambio prenderà nel prossimo futuro, ma anche per provare a individuare il processo creativo che porta alla costruzione delle portate che compongono il menu.
Trattandosi di piatti talvolta non finalizzati o del tutto sperimentali, gli assaggi hanno messo in evidenza anche imprecisioni o elementi da sistemare. Niente di grave però, ragionare sugli errori e sul rapporto tra perfezione e imperfezione era uno degli obiettivi della serata. A emergere senza indugi è stato l’approccio di Baronetto alla cucina che si può riassumere così: personale e votata al rischio, costruita su sapori e consistenze non necessariamente facili, ma golosa, lontana da molti degli elementi più ricorrenti nella cucina contemporanea e interessata a esplorare vie alternative e intime.
Esempi notevoli di questo orientamento sono le quattro pietanze a mio avviso più riuscite. Innanzitutto, la Madeleine con uova di trota affumicate e burro alla salvia. Un boccone minimo che non porta a ricordi lontani, come ci si aspetterebbe da questo piccolo biscotto, ma conduce a sensazioni gustative molteplici, tendenzialmente grasse ma subito ripulite dalle delicate note del fumo e della salvia. Poi la Gremolada di carota e sedano, cotta in un intenso jus di vitello e servita con rucola alla brace e caviale. Un piatto di equilibrata intensità dove il caviale è un accessorio utile a dare profondità, consistenza e un tocco (morbido) di sale mentre il vero protagonista è l’insalata, piccante e bruciacchiata.
Di tutt’altra tonalità, invece, il piatto forse più sorprendente: Animella, mozzarella, basilico e pomodoro. Una portata bianca, non solo nell’aspetto ma anche nei toni gustativi, con l’animella cotta al rosa (una cottura perfetta che restituisce un morso dolce e morbidissimo) adagiata su una fetta di mozzarella e la insegue nella consistenza e nella succosità, riprendendo il tema delle similitudini tanto caro allo chef torinese, ed è condita da una foglia di basilico cotta al burro come fosse uno spinacio che, insieme ai pomodorini semplicemente pelati e intiepiditi, dà slancio e dinamica al piatto. Infine, gli Scampi con succo di ciliegia e coriandolo: una composizione minimale, con i tre elementi quasi non toccati – la coda di scampo è velocemente cotta al vapore, il succo di ciliegia è una gelatina ottenuta sfruttando le sue stesse pectine, il coriandolo è messo sul piatto così com’è – e affiancati l’uno all’altro lasciando al cliente la libertà di comporre il boccone a proprio gusto ora mettendo più succo, ora concentrandosi sul coriandolo.
Meritano di essere raccontati anche gli altri piatti di questa sequenza. I Nigiri di seppia sono quattro piccoli bocconi che imitano una delle più classiche preparazioni giapponesi, in un gioco di similitudini. Il riso del nigiri è sostituito dalla seppia ridotta in piccoli pezzi e parzialmente cotta al vapore e viene completato da una cozza, da un’ostrica del Delta del Po, da un fiore di zucca e da una sottile fetta di wagyu, il tutto condito con tre salse: allo zafferano, al pompelmo e al sugo d’arrosto. Un piatto certamente intrigante e bellissimo che in questa fase manca però di un tocco di acidità in più e di un maggior dialogo tra le salse.
La salsa, invece, è il supporto centrale e sorprendente, del Saltimbocca di sogliola con leche de tigre, lattuga ghiaccio e daikon; una composizione millimetrica nelle cotture e negli abbinamenti. Baronetto si diverte, di nuovo, a mischiare i mondi e a confondere il palato utilizzando elementi che provengono da molto lontano per raggiungere sensazioni famigliari. La sogliola innanzitutto che ricorda per consistenza una fettina di vitello e che è, da un lato, insaporita dal prosciutto crudo e dall’altro, completata dalla leche de tigre che con la sua acidità tagliente ripulisce la bocca e, grazie a una consistenza cremosa, dona a livello tattile la stessa sensazione delle salse che condiscono le scaloppine.
Il Raviolo di ostrica e marzapane mette in mostra diversi elementi ricorrenti nella cucina di Baronetto: l’impiego di ingredienti in purezza (qui l’ostrica del Delta), la costruzione eterea del raviolo con una pasta che quasi sparisce, l’utilizzo punteggiato del dolce come contrappunto morbido a note intense e marine.
In attesa di provare di nuovo i piatti in una loro versione definitiva c’è senza dubbio il merito di Baronetto di dare vita a un dialogo attivo con i propri clienti lasciandosi guidare e non esclusivamente guidandoli, di rivitalizzare la critica nel suo senso più ampio e di riflettere sull’imprecisione, oggi denigrata, come elemento di partenza per una nuova cucina.
Del Cambio
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