Quando a misurarsi con il lavoro è il corpo
Testo di Virginia Dal Porto
Foto di Camille Langlois
La vendemmia non ha mai una data precisa e non dipende da nessuno: decide la vigna. Adele non ha preso bene tutta questa imprevedibilità, ma lo sa che sarebbe inutile prendersela con una pianta. È il dieci settembre e stiamo andando al Domaine Thenard per la vendemmia. Dovevamo partire cinque giorni fa, ma Dominique – la proprietaria del Domaine – mi ha scritto per dirmi che l’uva non è ancora pronta. Ha piovuto un sacco e non è matura. Adele aveva ansia di partire. È la sua prima vendemmia – e in generale il suo primo lavoro agricolo. Dice che è una settimana che non dorme per l’ansia. Dice che non è sicura di farcela, che ha già il mal di schiena, che ha paura di essere sempre l’ultima del filare. La guardo e la sua agitazione mi mette agitazione. A nessuno importa se è l’ultima o va lenta, ma se non ce la fa? Io la rassicuro, le dico di non preoccuparsi. Anche io avevo paura la prima volta.
La vedo che si carica lo zaino in spalla e fissa il bus che sta parcheggiando davanti a noi. Ci chiedono i documenti e mi sembra che esiti prima di tirare fuori il portafoglio. Sa che salire sul bus vuol dire farlo davvero, che non si torna indietro. Quando si mette a sedere al suo posto mi fa: “Sei sicura che non sia così faticoso?”. E io le dico “Certo”, le spiego che ci sono anche signore di sessant’anni con noi e lei mi chiede: “Ma è la prima volta anche per loro?”. Il bus ci porta da Torino a Lione e poi saliamo su un altro bus per Chalon-sur-Saône, dove ci viene a prendere Alessandro, che lavora al Domaine tutto l’anno. Io e lui siamo entrambi lucchesi. Saliamo in macchina ed è tutto un parlare di cosa è successo da quando non ci siamo visti. Adele sta in silenzio, poi iniziamo a parlare della vendemmia e lei gli dice che non è molto brava nei lavori manuali, Alessandro scherza e le fa “Sei venuta nel posto giusto, allora” è ironico e Adele ride ma lo so che ride per nascondere che in realtà se la sta facendo sotto.
Al Domaine parte dell’équipe è già arrivata e altri sono ancora in viaggio. Adele si muove con l’impaccio di chi entra in una casa nuova per la prima volta, come se camminasse in punta di piedi per paura di fare qualche disastro. Noi siamo a nostro agio, perché il Thenard è già casa da un paio di anni. Al Thenard ci danno gli alloggi, ci danno pure colazione, pranzo e cena. Anche il vino e le birre a dire il vero. E la casse-croûte, che è la merenda a metà mattinata, con formaggio, salame, cioccolato, pane, caffè e birre. Adele è contenta della birra gratis alle undici e noi ci affrettiamo a spiegarle che sarebbe la tradizione in Borgogna, ma non è così ovunque – glielo spieghiamo con quell’orgoglio di chi lavora in un posto a cui vuole bene e con la rabbia di chi sa quanto sia ingiusto un trattamento diverso. Le raccontiamo di un gruppo di italiani che fanno la vendemmia a Mercury, in un Domaine che gli ha dato a disposizione solo un campo, senza bagni né elettricità. Altri che sono stati assunti con un alloggio e poi un alloggio non c’era. Alcuni amici se ne sono andati perché il loro capo faceva il viscido con le ragazze dell’équipe.
Al Thenard dicono che le persone così non sono veri vignerons, cioè vignaioli. Dicono che la vendemmia è un momento sacro e che i vendemmiatori devono essere festeggiati, perché raccolgono il lavoro di un anno intero. Nel mentre Adele inizia a sentirsi a suo agio e parla con Eloi, un ragazzo catalano che lavora anche lui al Domaine tutto l’anno. A forza di stare con lucchesi ha imparato il lucchese e ogni volta che dice “granata” o “figliolo” ci ripromettiamo di insegnarli l’italiano corretto. Eloi le dice di stare tranquilla – che Alessandro è il solito stronzo –perché c’è la regola dei tre giorni in vendemmia: i primi tre giorni sono la parte peggiore per schiena e gambe, poi il corpo si abitua. Adele è un po’ rassicurata, ma prima di dormire mi fa: “E se soffro tutta la settimana?”. Non mi pare il caso di dirle che la vendemmia potrebbe durare più di una settimana, quindi le dico: “No, no, c’è la regola dei tre giorni”.
Ma è una vendemmia strana, quella di quest’anno. Fa freddo e non ci sono le levatacce alle cinque del mattino. Si inizia a lavorare alle otto. Il sole che gli anni prima puntava insistente le nostre teste non c’è e le nuvole coprono il cielo. A me non piace, ma mi dico che è meglio così, per Adele. Le spieghiamo che iniziamo a tagliare le vigne di Givry e solo dopo ci spostiamo ai Grand Cru fuori città, perché hanno ancora bisogno di qualche giorno per maturare bene. Gli ultimi giorni faremo il Montrachet, che è la raccolta più importante e dove ci richiedono più attenzione. Il Montrachet è considerato il vino bianco più pregiato al mondo e quest’anno, visto che di uva non ce n’è tantissima, dobbiamo essere sicuri di raccogliere tutto.
Mentre tagliamo traduciamo a Adele cosa urlano i capi di équipe dall’inizio del filare, perché non parla francese e i capi parlano solo francese. Le diciamo che deve pulire il grappolo quando ci sono dei chicchi secchi o vede della muffa (il primo triage, cioè la prima selezione, seguito dal secondo triage che fanno i capi all’inizio del filare, con l’uva che abbiamo appena tagliato e poi il terzo, che fanno in cantina) e quando non tagliarlo proprio, perché non è ancora maturo. L’uva acerba la chiamano “l’uva di JP”. JP è uno dei capi, che passa nelle vigne dopo la vendemmia per prendere i grappoli che a quel punto saranno maturi e farci le sue marmellate.
Adele fa la vigna “di culo” e le diciamo che è normale: la prima volta che vendemmi non riesci a stare piegato né in squat – la pianta è bassa, arriva più o meno alla vita. La schiena non è abituata e fa subito male. Quindi ti fai tutto il filare a sedere. Le diciamo che i novellini si riconoscono per le macchie di terra sui pantaloni. Ma Adele ride. Ogni tanto qualcuno si ferma e urla “Adelina?” per controllare che stia bene e lei trascina un “Sì”. Sono felice che Adele sia felice. A nessuno interessa che Adele sia veloce o lenta, se noi finiamo prima la andiamo ad aiutare e dopo qualche giorno non interessa neanche a Adele. Piano piano la paura che non riesca, che si stufi di tagliare, che la schiena le faccia troppo male per alzarsi, finisce sia per me che per lei. Alla fine del terzo giorno ci racconta che ha pianto in mezzo al filare perché la schiena le faceva troppo male e non riusciva a tirarsi su. Abbiamo riso, perché abbiamo pianto più o meno tutti in vigna per quel motivo. Comunque, Adele ci dà ragione: il terzo giorno è il peggiore.
Dal quarto giorno iniziamo a chiederci quando finirà la vendemmia. Arrivano informazioni diverse, perché nessuno può esserne certo – dipende da tante cose: da quanto andiamo veloce, da come si sviluppa il lavoro in cantina, da quanta uva c’è. Adele si è abituata all’imprevedibilità della vigna e non ha più l’ansia di avere una data. C’è chi spera che duri di più, per prendere più soldi e rimanere ancora un po’ insieme. C’è chi spera che duri meno, perché ha un esame all’università o altro a cui pensare. Ma a metà lavoro siamo ancora allegri, perché ora siamo qua e l’incertezza sulle date ci dà un rassicurante senso di impotenza. Inizia a esserci bel tempo, anche se continua a fare freddo.
La Borgogna si spiega davanti a noi con i suoi campi infiniti; sembra che esistano solo le vigne, che si srotolano ai lati della strada e poi vanno su per le colline fino ad arrivare chissà dove. Noi tagliamo. Le macchine che passano accanto ai campi suonano il clacson per salutarci. Se passano camioncini con altri vendemmiatori si sporgono dal finestrino per urlarci un “ciao” che il vento si porta subito via. Un giorno un gruppo di turiste cinesi si mettono a fotografarci e si fanno anche dei selfie con noi sullo sfondo e Dominique gli deve dire di allontanarsi o comunque di chiederci il permesso. Poi dal niente arrivano gli ultimi giorni e a quel punto nessuno vuole che finisca. Ci sono amici francesi come Kevin che prendono le ferie dal loro lavoro in fabbrica per venire qui al Domaine. Tutti noi amiamo stare qua, tra di noi, a tagliare l’uva. E tutti noi siamo tristi gli ultimi giorni e ci ripetiamo “È già finita? Anche quest’anno?”.
Adele mi fa vedere fiera il bicipite che in effetti è cresciuto. Quando a misurarsi con il lavoro è il corpo la prendiamo sul personale. Siamo abituati a essere stupidi in qualcosa, ma se è il corpo a non arrivare, è più difficile da accettare. La debolezza è palese e nessuno vuole sentirsi palesemente debole. Quindi se il corpo arriva, ci si sente davvero forti. Di una forza giustificata, però. Non è una forza artificiale, quella. È diversa.
L’ultimo giorno si fa la festa di fine raccolta e ceniamo tutti insieme, con i capi e i proprietari. Abbiamo messo i tavoli fuori, non fa tanto freddo stasera. Alla fine, siamo ubriachi e felici, ma con quella malinconia di quando qualcosa di bello finisce. Certe persone lo sai che non le vedrai per un anno, anche se ti stai promettendo che quest’anno, davvero quest’anno non sarà così, che ci incontreremo a metà strada piuttosto. E nessuno è mai sicuro di poter tornare: ci sono il lavoro e la vita. Ogni vendemmia può essere l’ultima. Adele sta parlando con Kevin. Ora riescono a comunicare, perché Adele qualche parola l’ha imparata e Kevin si fa capire. Domani la saluterò e io tornerò a Torino, mentre lei ha deciso di rimanere ancora qualche giorno. Ormai non si muove più in punta di piedi.