Testo di Eugenio Signoroni
Foto cortesia di Tempi di Recupero
Che cosa rende Osterie d’Italia una guida unica nel panorama nazionale? Me lo chiedo spesso, avendo il privilegio di esserne il curatore. E me lo chiedo in questi giorni nei quali insieme a Francesca Mastrovito e a tutta la squadra dei coordinatori e delle coordinatrici, delle collaboratrici e dei collaboratori stiamo per dare il via ai lavori della nuova edizione.
Certamente è il suo voler ostinatamente occuparsi di un angolo della ristorazione, quello dei locali che hanno optato per una proposta informale di territorio, che per lungo tempo è stato considerato secondario dalla maggioranza della critica e che oggi, invece, gode di attenzione e di stima universali. Un angolo di ristorazione dove si sono poste le basi, a parere di chi scrive, di quella che è oggi la parte più interessante della cucina contemporanea italiana, fatta di stretto legame con il proprio intorno, grandi materie prime, vini naturali, familiarità del servizio, rapporto solido e libero con la tradizione. Poi c’è la sua affidabilità, figlia di uno sforzo editoriale con pochi eguali, che ci porta ogni anno a visitare la stragrande maggioranza dei locali presenti nell’edizione precedente e una quota consistente di potenziali novità.
Un’affidabilità e una vitalità che traggono linfa dalle comunità dei soci di Slow Food sparsi in tutta Italia e da quella dei lettori che ogni giorno ci scrivono raccontandoci delle gioie che i nostri suggerimenti gli hanno regalato, ma anche delle (fortunatamente) rare delusioni. E poi, ma forse soprattutto, c’è il fatto che Osterie d’Italia, pur nel suo rigore costruttivo – visite in anonimato, turnazione dei collaboratori, comunicazione con i ristoratori ridotta all’osso in fase produttiva – anno dopo anno non definisce solo una lista di indirizzi, ma contribuisce a costruire la comunità delle ostesse e degli osti. Una comunità alla quale ostesse e osti non scelgono volontariamente di appartenere, ma nella quale si trovano e che sentono loro sin dall’inizio, in modo spontaneo. Una comunità che si riconosce in alcuni valori, in un modo di portare avanti questo lavoro e di contribuire attraverso esso non solo alla felicità degli ospiti che ogni giorno si siedono alle tavole delle osterie d’Italia, ma anche al miglioramento dei territori nei quali ognuno opera.
Quest’idea di comunità mi si è palesata in modo chiarissimo la scorsa settimana a Faenza durante la presentazione emiliano-romagnola della guida. Parlare di osterie nella città simbolo dell’alluvione che ha colpito la Romagna a maggio 2023 è stata l’occasione per ricordare quanto questi luoghi possano essere il motore della ripartenza di un territorio e di quanto il loro arrestarsi metta in pausa intere filiere locali con conseguenze non solo economiche ma anche sociali e ambientali. A esprimere questa idea è stato per primo il sindaco di Faenza, Massimo Isola, che ha sottolineato come proprio la ripartenza delle osterie possa essere il primo passo di una ripartenza più diffusa e una spinta per l’accelerazione di interventi necessari ma ancora lontani dalla realizzazione.
La serata di presentazione – che si è conclusa con una cena a più mani preparata da Francesco Dini (cuoco toscano dell’Alleanza Slow Food), e dalle osterie Tèra, La Campanara, La Baita e Dei Frati – è stata anche l’occasione per annunciare la prossima edizione della Tempi di Recupero Week (che si svolgerà dal 3 all’11 febbraio). La settimana organizzata dall’omonima associazione guidata da Carlo Catani durante la quale i riflettori si accendono sui temi della limitazione dello spreco alimentare, del riutilizzo di quelli che con troppa superficialità chiamiamo scarti o della riattivazione di pratiche tradizionali troppo spesso dimenticate più per pigrizia che non per inefficacia delle stesse.