Testo di Stefano Cavallito
Foto cortesia della famiglia Ceretto
Se la sua fine è nota, normalmente sbriciolato sulla tovaglia delle feste e appiccicato alle mani dei bambini, la sua provenienza è quasi misteriosa. Compare improvviso, il torrone, sulla tavola di una nonna, in una dispensa di casa, sugli espositori di qualche carrozzone d’ambulante a smuovere le nostalgie più profonde degli adulti, come il ghiaccio del generale Buendía. Finisce sulle mani, inizia dalle mani.
Prima che il Piemonte fosse dichiarato zona rossa, essendo allora rosso solo il colore dei filari di nebbiolo, Relanghe, società della famiglia Ceretto, ha organizzato un viaggio all’origine tonda e gentile del torrone. La nocciola è insieme al vino e al tartufo l’icona delle Langhe, terra baciata da un dio dall’appetito autunnale, e non solo perché sulla nocciola ha fondato un impero il colosso Ferrero, ma perché la nocciola è l’ingrediente di mille ricette da libro di cucina piemontese, dalle acciughe alle torte.
Arrivano in sacchi dai noccioleti d’alta Langa e, sgusciate, scorrono su un nastro trasportatore sotto i palmi di quattro mani che le selezionano eliminando quelle imperfette. Sono quattrocento chilogrammi in quattro ore; scorrono sotto polpastrelli allenati a percepire, prima ancora degli occhi, gli spigoli nella rotondità, le cedevolezze inattese, le spaccature allarmanti. A vedere il nastro trasportatore e l’architettura di silos e tubi aspiranti, ci si immagina una fabbrica da tempi moderni, ma da quella fase inizia invece, nonostante una produzione ben più ampia di quella di un laboratorio di pasticceria, un procedimento artigianale in cui i tempi sono dettati dalle sensazioni dell’uomo.
Un torrefattore decide l’intensità della tostatura delle nocciole in ragione delle ricette; un maestro torronaio la durata della mantecatura dell’amalgama di nocciole e miele; occhi di donne l’elasticità adeguata perché il torrone possa essere steso, pressato e lasciato asciugare sino al suo stato di solidità, morbida o friabile.
La sala del ristorante Piazza Duomo – Foto di Spadoni
Le nocciole si spostano traballanti e frenetiche, vanno a formare il ripieno di tartufi dolci o l’impasto della Torta di Nocciole, ideata da Enrico Crippa, chef di Piazza Duomo, tristellato ristorante “di famiglia”, che con la determinazione feroce che lo distingue ha ideato una torta senza farina, di sole nocciole. Sebbene sia possibile che le trattative per ricercare l’equilibrio tra la creatività della cucina e le esigenze di confezionamento e di conservabilità dell’azienda siano state lunghe e abbiano lasciato feriti sul campo, il risultato della torta è perfettamente in linea con la traccia gastronomica di Crippa, votata al nitore del gusto e alla concentrazione del sapore. In ogni frammento morbido di torta, un’esplosione di nocciola in bocca.
Oppure le nocciole finiscono altrove, nel laboratorio del maître chocolatier Gabriele Majolani che ne ricava pralineria di gusto franco-torinese, ad esempio, o nei panettoni di Relanghe e di Gino Fabbri, pluripremiato e noto pasticciere i cui prodotti sono ora distribuiti dalla famiglia Ceretto. Il suo panettone è una nuvola eterea che sa di burro soffice e in cui anche i bambini più schizzinosi non smetterebbero di scavare alla ricerca famelica di un candito. Majolani, invece, ha studiato a bottega in Francia, anche alla scuola Valhorna di Tain L’Hermitage, a poche centinaia di metri dalla famosa cappella che fa sognare gli amanti di quell’inarrivabile vino del Rodano. Ma anziché preziose bottiglie di Chave, Majolani ha riportato a casa, a Torino, gli insegnamenti della scuola di cioccolatieri più raffinata del mondo e li ha utilizzati per aprire un laboratorio nella città che, per ragioni storiche e geografiche, più di altre poteva apprezzarli. I sottilissimi gusci di cioccolato fondente delle sue praline sono regali sottane di seta per bontà profondamente contadine.
Dalla fabbrica del torrone, le nocciole rotolano verso le destinazioni più dolci, ma nonostante il movimento, i profumi e le colline d’intorno che evocano altri alcolici piaceri, non è facile staccare gli occhi da quella macchina in cui il torrone allo stadio lavico si avvolge ipnoticamente su sé stesso e nella quale a stento ci si trattiene dall’idea immatura di infilarci la mano.