Cronaca di un simposio nell’entroterra ligure, a tavola con il DUO per Cook_inc. 28
Testo di Lorenzo Sandano
Foto di Gabriele Stabile
Il sole scivola pacato all’orizzonte dalle finestre sopraelevate del locale, gentile e rigonfio di tepore rotola nell’entroterra ligure, quasi a ricalcare lo stato di grazia dei nostri pancini al termine di un pranzo così sostanzioso. E non parlo di sostanza in termini di lunghezza o volumi di portate (anche se non ci siam fatti parlar dietro), bensì di profondità culturale, ricerca e devozione storica rivolte al territorio ove sorge il locale. “Ma perché La Brinca?” Avanzo l’interrogativo un po’ sciocco del forestiero a Sergio, in merito al nome impresso sull’insegna “Se hai due minuti te lo racconto. E perdonami in anticipo se finirò nel dilungarmi, ma più che un ristoro questo luogo per noi è una casa, una famiglia. Per definizione queste storie hanno sempre bisogno di tempo”.
Variabile preziosa e irrilevante. Come contraddirlo? Perché non basterebbe una vita – se non quella investita qui dai suoi protagonisti – a riassumere le vicende che tratteggiano il corso in divenire di questo luogo magico.Partendo da lui, Sergio Circella, che dall’87 con i fratelli Roberto e Andrea ha scelto di ri-forgiare in guisa di trattoria un’ex casa colonica ottocentesca intitolata all’antica proprietaria Teresina Texinin dei Brinche. Soprannominata la Brinca, appunto, in quanto matrona di quell’avamposto ripido e scosceso che assume questo nomignolo secondo il dialetto ligure. Eccola la storia che prende forma. I fondatori portavano il nome di nonno Tugnin e nonna Virginin, in prima linea sin dagli anni ’30 insieme a 5 figli in un locale che condensava più servizi in metrica d’antan: un po’ osteria, un po’ frantoio, un po’ bottega, un po’ mulino, già ben saldato nel florido terreno di Campo di Ne, culla di risorse gastronomiche ricolme di tradizioni e usanze remote. Capace di scrutare all’unisono terra e mare, assimilando influenze ben strette alle radici piantate nell’humus di campi, orti e colline.
Negli anni ’60, l’arrivo di una strada carrozzabile sbarrò la via all’attività della gastronomia: rimasero operativi solo il frantoio e l’ortofrutta, a cura di Carlo e della moglie Franca. Cuoca provetta, grazie alle nozioni trasmesse da mamma Maria e delle nonne Milia e Genotto. In successione, da questo prestigioso focolare di saperi, divampa la prima svolta significativa. Perché i tre figli di Franca – i sopra citati Sergio, Roberto e Andrea – rimpolpano il tenore culinario della locanda, affiancandolo alla propria formazione territoriale. Svezzati con gli straordinari prodotti ortofrutticoli handmade, a contatto con l’arte contadina locale, con gli uliveti e il loro prezioso olio (che tanto amano e continuano a produrre) e addestrati alle stufe da quei gesti inestimabili appresi in tenera età.
Il primo assetto in cucina vede Roberto destreggiarsi alle carni – con l’inossidabile madre ai fornelli – e gli altri due fratelli in sala. Ma già con l’ingresso di Pierangela, moglie di Sergio, nel nucleo familiare e nella gestione del comparto dessert, la formazione del locale muta e si accresce agevolmente negli anni: i loro due figli-gemelli, Matteo e Simone, vanno a supportare e a evolvere con passo garbato rispettivamente i reparti di sala e cucina. Tramutando quel che era già un baluardo della cucina territoriale in un tempio della ristorazione ligure aperto al futuro. Amorevolmente aggrappato alle ritualità classiche e ai suoi panni intrisi di profumi casalinghi, ma col grado di maturità necessaria per spingersi oltre. Rivolgendo lo sguardo curioso e sagace all’enorme potenziale dell’enogastronomia ligure tutta. Rimodernando senza deformare, trasformando senza tradire. L’opera gastronomica più complessa di sempre, che oggi suona senza intervalli in uno spartito armonico, ricolmo di grazia e possanza esecutiva.
FLUSSO GENERAZIONALE: PRODOTTO, CUCINA & CANTINA
Testimonianze di questo portentoso pentagramma generazionale? Ne avanzano fiere a bizzeffe, sin dall’orto ricavato negli spazi di un ex-vigneto, agli antri ricolmi di etichette della cantina (adibita anche a saletta per gli ospiti). Ormeggiando lungo le sale permeate da legno, pietra e candore. La lungimiranza forbita di Sergio a tutela delle gemme contadine liguri gli ha permesso di rivalutare prodotti reconditi quali la patata quarantina; il grano Tosella (dall’ultimo coltivatore local di questa varietà); la nocciola misto Chiavari, la cipolla rossa di Zerli, legumi arcaici e formaggi di vaglia che vengono rielaborati con cura dalle mani di Simone. Dove non incorrono i baldi artigiani che sostiene acquistandone i frutti, interviene appunto il proprio appezzamento di ortaggi che gli fornisce zucchine trombetta, varietà vegetali autoctone, borragine ed erbe aromatiche. Un restauro non soltanto materico, bensì adottato di pari passo alle antiche ricette modellate ai fornelli.
Lo leggi impresso a chiare lettere nei caratteri che delineano i piatti in menu. Dal folto bagaglio enologico invece – già ampio di chicche territoriali e non solo figlie di annate rare – oggi c’è il tocco da fuoriclasse del figlio Matteo a far roteare bottiglie wine-pairing intercontinentali con la maestria guascona di un giocoliere e la professionalità colta di chi si è guadagnato sul campo il fresco riconoscimento di miglior sommelier 2021 secondo la Michelin. Da queste fondamenta non può che svilupparsi una melodia estasiante.
E la possiamo udire con delizia papillare sin dall’ouverture degli antipasti: il Prebugiun di Ne, che in queste lande non appare come il canonico insieme di misticanze liguri, ma in forma di soave impasto a caldo di patate e cavoli. Poi la corposa Baciocca (AKA torta di patata quarantina bianca); il Castagnaccio; cubetti croccanti di Focaccia ligure panata e fritta (micidiale); il leggendario Brandacujun di baccalà mantecato come in nessun altro luogo troverete a questo livello e l’interpretazione terragna del celebre cappon magro, il Cuniggiu Magro: eretto in multilayer di rollatine di coniglio alle erbe, intervallati da cialde croccanti di pane e turgida giardiniera maison.
Menzione a parte per i Testaieu al Pesto di mortaio: dischi roventi di farina rustica locale (simbolo della Val Graveglia) drappeggiati con l’iconica salsa al basilico, qui confezionata con un risultato d’immorale bontà. Nel complesso aitante dei primi – tutti rigorosamente partoriti dall’olio di gomito della pasta fresca tirata a mano, senza ausilio dell’uovo – trionfano i Corzetti con funghi e noci (formato circolare marchiati a stampo con lo stemma familiare d’origini antichissime); i delicati Ravioli d’erbette miste Cu Tuccu di Cabannina (ovvero un setoso sugo di carne sfilacciato e denso, in perfetto sodalizio con la callosità di pasta e ripieno); e le memorabili Lattughine in brodo: impalpabili e soavi foglie di lattuga sbollentante e ricamate a mo’ di tortello, farcite con trito di carne, aromi e adagiate nel manto candido di un brodo da standing ovation.
Mentre godiamo a valanga (giù per i pendii saporosi de La Brinca) Matteo ci fa volteggiare in una roller-coster vinofila senza margini geografici: dai vigneti eroici di zona, a perle d’Oltralpe e minerali digressioni nel terroir dello Jura. Geniale! Quando poi piombano in tavola le portate principali, apprendiamo fino in fondo quanto ogni dettaglio alimentare, agricolo e culinario qui si erga a trattato territoriale prolungato alla massima potenza.
Prima il monumentale Fritto misto, dolce e salato – tra latte brusco, mele, stecco di prosciutto e formaggio U Cabanin, coniglio, verdure e patate a sfoglia – che da solo vale un viaggio per mole e imponenza gustativa. Poi la Punta di vitello marinata nel vino alle bacche di ginepro, cotta per intero al forno a legna: sontuosa e tenera a dismisura, in tutta la sua regale atavicità carnivora. Memorabile per fibra, metro di cottura e affondo di sapori in match con patate rosticciate e cipolle.
Per gli implacabili fanatici del dolce (come il sottoscritto) avrete sempre pane per i vostri denti. O meglio una carta dei dolci sulla stessa traccia filologica del salato da mandarvi in visibilio glicemico. La Panera: “crema al caffè” che rispolvera il sapore vintage della Coppa del Nonno su artigiane ed evolutive rotte di piacevolezza; la libidinosa Sacripantina (in gran spolvero dall’800) a base di strati di pan di Spagna, crema al burro e al cacao; e infine una discesa lieve e floreale a bordo valle, interpretata dal Biancomangiare e dal bucolico Semifreddo allo sciroppo di rose.
Anch’esse, manco a dirlo, colte a mano dal giardino del ristorante.Perché proprio nulla di quel che dipinge la ricchezza dell’entroterra e della liguritudine più vivida e meritevole rischierà mai di esser trascurato in questa incubatrice del buon cibo e del buon bere. Senza tempo sì, perché il tempo che necessità tale premura è incalcolabile e naviga a vele spiegate traendo forza motrice da generazioni a confronto in sincera affinità sinergica tra loro. Aveva ragione Sergio, quei due minuti non sarebbero mai bastati. E in fondo La Brinca e la sua storia son così belle e uniche proprio per questa sua incessante variabile extra-temporale. Pregna di valori familiari e di scintillante umanità.
Via Campo di Ne, 58
16040 Ne (Ge)
Tel: +39 0185 337480