Testo di Andrea D’Aloia
Foto cortesia
Dal 1999 il maxi Consorzio promuove e valorizza le varietà enologiche come tratti distintivi dell’identità regionale. Ora, con una strategia pragmatica (e lungimirante), intende ridefinire la propria unicità e spalancarla al mondo: perché la vocazione collettiva dei territori dev’essere assecondata dai gesti delle persone che li animano.
Delle Marche del vino colpisce questa enorme capacità di proiettarsi avanti, di rimodulare l’idea di cosa sia importante e cosa no, la voglia di ridefinire il concetto stesso di qualità. Uno sforzo titanico, a pensarci bene, specialmente se c’erano da mettere assieme peculiarità molto diverse tra loro. Persone, aziende, porzioni di territorio eterogenee che a un certo punto – anni fa – han deciso di strutturarsi e mettersi insieme, per canalizzare energie e sforzi in un’unica direzione condivisa ed elevare i propri standard, costruendo in simultanea un sistema in grado di imprimere un’accelerazione decisa agli scenari enologici e promuovere (e vendere) il vino marchigiano, in Italia e nel mondo, con una forza tutta nuova.
Il compito, in questo tempo, è stato agire senza perdere il contatto con quelle idee. Salvarle e restarle fedeli. Evolverle, in qualche modo. Se ne è occupato l’Istituto Marchigiano di Tutela Vini (IMT), fondato nel 1999 da 19 cantine associate in rappresentanza di 7 denominazioni, presieduto oggi da Michele Bernetti e diretto da Alberto Mazzoni. Per comprendere il mastodontico lavoro di questi 24 anni: attualmente si contano 519 aziende e 16 sono le denominazioni di origine tutelate (12 Doc e 4 Docg): numeri che sono espressione di oltre 7.500 ettari di terreni, ossia il 45% della superficie vitata regionale.
Una centralità, quella dell’IMT, acquisita non soltanto tra gli associati, ma anche con gli interlocutori istituzionali (Regione, Repressione frodi, Ispettorato e Camera di commercio): soggetti che svolgevano la loro opera in autonomia e che hanno trovato nel maxi Consorzio una figura capace di coordinare, sviluppare strategie e intercettare – ricollocandoli sul territorio – investimenti e contributi sia nazionali che comunitari (una cifra che nel decennio 2010/2020 ha oltrepassato i 28 milioni di euro).
In quasi cinque lustri si è fatto sistema e impostato un discorso corale (al rialzo) sulla qualità, ottenendo risultati soddisfacenti per chi anima questi territori ed entrando nell’élite del vino che conta. Soprattutto: sono stati fissati i contorni di alcune identità, molto definite.Su tutti i terroir è stato fatto un lavoro davvero coerente, i vignaioli hanno risolto problemi e costruito prospettive profonde, le denominazioni sono evolute in modo omogeneo e il valore del vino è cresciuto, così come la percezione e l’attenzione dei consumatori di tutto il mondo verso l’enologia marchigiana. I mercati hanno premiato questa impostazione, con grandi gioie arrivate dall’estero, per un valore di vendite che ha superato, lo scorso anno, i 75,6 milioni di euro (+25% rispetto al 2021).
Se oggi si pensa ai vini marchigiani si pensa al Rosso Conero, ai Colli Maceratesi e Pesaresi, alla Lacrima di Morro d’Alba, al Bianchello del Metauro: ognuno di essi si è guadagnato reputazione e attrattiva commerciale. Sul Verdicchio il percorso è stato straordinario, forse (non vorremmo far torto agli altri) il vitigno più rappresentativo quando c’è da identificare questa porzione d’Italia. Nei secoli s’è dato una solidità e una sua importanza, una perfetta collocazione geografica nei 2.200 ettari certificati dei Castelli di Jesi e i 400 ettari di Matelica. Si è scoperto di longevità insospettabili e versatilità su cui c’è ancora tanto da immaginare.
Perché è un’uva che si presta particolarmente alle interpretazioni “sartoriali” in vigna e in cantina: “sente” la maggiore o minore mineralità dei sottosuoli, le diverse ore d’esposizione al sole, al vento e alle brezze marine, l’abbondanza o meno di pioggia durante l’anno. Si può vinificare in acciaio, cemento, in anfora o in botte: decidono i vigneron se esaltarne le sapidità o le note floreali e fruttate. Può diventare passito, se ne possono creare liquori, lo si può spumantizzare con Metodo Classico, per rispondere alle nuove domande dei consumatori: non tradirà le aspettative.
Scontato dunque che le nuove sfide, da affrontare nell’immediato, riguardino la salvaguardia e il rafforzamento del binomio tra territorio e il suo vino più conosciuto: il problema potenziale è la riproduzione del vitigno in altri angoli del mondo, cosa che sta già accadendo ed è perfettamente legale, secondo le normative attuali (ma che, probabilmente, non ha molto senso… volendo estremizzare: è possibile immaginare un Verdicchio prodotto… sull’Himalaya?).
Per contrastare queste iniziative, la soluzione è un movimento più ampio, a cui era sciocco negare un senso, o una logica. Che includesse, anziché innalzare muri, e si spalancasse al mondo con tutta la forza della propria identità. Sul piano tecnico: tenendo ferme le iscrizioni in etichetta (Riserva, Classico, Classico Superiore, Superiore) e con le dovute modifiche ai disciplinari (sempre votate in un’ottica di apertura), si è immaginato un cambio di nome. La dicitura “Verdicchio” sulla bottiglia diventerà facoltativa, da poter essere inserita a discrezione dei produttori in coda alle altre. Un percorso decennale, iniziando dalla vendemmia 2024, in cui verrà data la possibilità di affermare in etichetta le denominazioni “Castelli di Jesi” e “Matelica”, enfatizzando l’importanza dei territori e geolocalizzando macroaree che – per ovvie ragioni – non potranno esser “scippate” da nessuno. Sarà una caratterizzazione territoriale unica, dinamica, dove i rispettivi ettari verranno divisi in 4-6 zone a seconda di criteri scientifici, climatici e di consumo d’acqua.
Un secondo passaggio intreccerà sinergie strutturali tra il settore vitivinicolo e attività di incoming, coinvolgendo Regione, Università, tour operator, associazioni di categoria e figure professionali dell’accoglienza, dei servizi, del marketing e della comunicazione, aprendo scenari nuovi alle stesse aziende agricole e ai produttori di eccellenze del territorio. Siamo all’inizio di un periodo che porterà sempre più pubblico nelle Marche, in visita ai terroir delle 16 denominazioni: sarà un enoturismo che porterà le attività esperienziali in una nuova dimensione e in una prospettiva più moderna, nell’ottica delle opportunità di lavoro, del business e dello sviluppo dei fatturati in maniera più dinamica. Sarà l’occasione per condividere i valori identitari che caratterizzano le produzioni e generare con essi valore economico.
Non è più un turismo di nicchia (ma non ancora di massa): le persone che oggi si muovono per fare esperienze enogastronomiche sono dai 10 ai 15 milioni (erano un terzo un decennio fa). È un segmento trasversale, decisamente internazionalizzato, che ha ancora importantissimi margini di crescita (se si pensa, ad esempio, alle aperture verso paesi asiatici e mediorientali), con ripercussioni economiche importanti. I viaggiatori, inoltre, stanno cambiando molto. E non soltanto rispetto al tipo di esperienza “autentica” che vogliono vivere (la bellezza e la cultura che il territorio offre, il tipo di attività che è possibile fare): è una domanda che sta diventando più sofisticata e competente, e che oggi denuncia l’eccessiva omologazione di molta dell’offerta enogastronomica, facendo diventare il lavoro di diversificazione strategico e rilevante, in modo da non abbassare la qualità delle proposte o di standardizzare un discorso che dovrebbe andare esattamente nella direzione opposta.
Adottando questa “logica di sistema” il brand Marche si consolida e cresce nel suo insieme, l’offerta è competitiva, mentre restano dei focus sulla conoscenza delle produzioni su cui ci sono ancora importanti margini di lavoro da poter sviluppare. Il vino può essere un ottimo volano per l’attrattività di questo territorio e la chiave in grado di sbrogliare certe criticità, purché non si perda mai questa visione collettiva e ognuno faccia la sua parte.
Nel mercato moderno nessuno ha ragione da solo e il turismo non può svilupparsi con l’esclusivo contributo del settore pubblico o sforzo privato: bisogna radicare la logica di filiera che sta prendendo piede in questi anni, continuando a connettere aziende, enti e attività che poi scandiranno le esperienze dei visitatori.
È una sfida da vincere, che travalicherà intere generazioni, e su cui bisognerà farsi trovar pronti, connessi l’un l’altro: perché la vocazione collettiva dei territori dev’essere assecondata dai gesti delle persone che li animano. La strada – nelle Marche – sembra tracciata e chi l’ha raccolta appare più determinato che mai.