Testo e foto di Gloria Soverini
Una sveglia (troppo) presto, circa 10 kg di zaino di attrezzatura fotografica, il reminder mentale “Bevi molta acqua da adesso”, due soste in altrettante stazioni di servizio e, 243 km dopo, eccomi a varcare la soglia di Villa Traverso Pedrina. Con soglia leggi ingresso con cancellata di legno. Con Villa Traverso Pedrina leggi C’era una Volta e il sottotesto Racconti di vino che si beve.
Scopro presto che sono a una festa più che a una fiera dedicata al vino naturale; del resto, se penso alle produttrici e ai produttori che ho incontrato fino a ora in questo settore, la prima parola che mi viene in mente è “divertimento”. A seguire:
– dedizione
– rispetto
– cultura.
Bando alle ciance: mi accolgono stand, bottiglie, persone davanti e dietro a lunghe tavolate di legno cariche di bicchieri, tappi già solitari, il primo pubblico che arriva con il sorriso stampato in faccia pregustando questa giornata di sole che promette molto gusto e poca sobrietà – dai, non giriamoci intorno.
Ci sono vignaiole e vignaioli da diverse parti d’Europa oltre che dall’Italia; sento parlare soprattutto inglese e francese, sento soprattutto il rumore dei brindisi e le spiegazioni appassionate di cultori e cultrici che si affaccendano da una postazione all’altra, di degustazione in degustazione. Ci sono cani e piedi scalzi. È tutto bello, me ne rendo conto da subito; quindi, sono subito felice di essere qui.
Vado a cercare Sarah Cicolini del Santo Palato di Roma che è qui per riempire di porchetta gli stomaci affamati dei presenti; nello stand dedicato alla gastronomia convivono, poi, polpi laziali, gelati e mieli piemontesi, salumi veneti, panini liguri. Pochi metri per percorrere un bel pezzo d’Italia, pochi metri e un solo stomaco (ahimè) per farci star dentro tutto. Si può anche far pausa dai coffee roaster del D12 che con i loro specialty coffee mi conquistano all’inverosimile tanto che sono pronta a rischiare un infarto pur di assaggiare 3 tipologie diverse di caffè.
Salto da una parte all’altra di questa corte, fotografo tutto quello che mi capita a tiro; fotografo soprattutto persone felici di essere qui e l’alcol mica c’entra – forse solo un po’. Capto descrizioni su uve e processi di vinificazione, qualcuno mi consiglia di provare le birre a fermentazione spontanea “là in fondo, i toscani sono bravissimi” e i Chinati (che assaggerò solo in ultimo fortunatamente portata da una ragazza che conosco proprio durante il mio errare di stazione in stazione).
La Villa si riempie e me ne accorgo solo quando nelle inquadrature vedo sempre meno spazio negativo; fotografo tatuaggi, mani che si scambiano calici, nasi dentro ai calici, persone che si sdraiano su coperte nei prati come se stesse per iniziare un concerto.
Inizia il pranzo a sei mani ed entro in quello che è da tempo uno dei miei luoghi preferiti: la cucina. L’esperienza è sempre incredibile: oggi, poi, il menu prevede piatti che uniscono la gastronomia di Corea del Sud, Giappone e Italia; di là, nella stalla, tavole apparecchiate aspettano l’uscita dei piatti (bellissimi, sicuramente anche buonissimi). Di qua, le cinque portate si compongono sotto ai miei occhi in un clima disteso ma vagamente marziale. Si sa, la cucina.
Fuori, il caldo aumenta e “i morti” (gergo tecnico per dire “bottiglie vuote”) riempiono nuovamente scatoloni, stanno dritti appoggiati ai muri e abbandonati un po’ ovunque. Ogni tanto incontro gli stessi volti e mi complimento mentalmente per la tenacia e la resistenza; faccio conoscenza con un fotografo francese, un gruppo di persone dal ferrarese, un ceco con cui faccio a gara su chi ha i tatuaggi più belli, una coppia che si scambia baci e sguardi densissimi aspettando il proprio turno per assaggiare i vini di un produttore italiano. Fotografo tutto, ogni tanto assaggio, per fortuna qualcuno mi riempie il bicchiere.
Sì, ancora, sono a una festa e verso il tramonto c’è anche il dj set e si alza un filo d’aria. Noto le scarpe abbandonate in giro, il prato è più pieno di prima, le persone continuano ad arrivare, produttrici e produttori a raccontare le loro scelte di vita e poi arrivano a parlare del terroir, del metodo di invecchiamento che usano, delle uve locali che hanno selezionato; raccontano di storie di cavalli e di resistenza, di esperimenti passati e futuri. Raccontano di viaggi, ed è tutto lì, calice dopo calice, per chi ascolta con la lingua e le orecchie.
Il C’era una Volta è davvero una storia che si racconta con molte voci; indubbiamente non una favola, ma mi auguro una tradizione per il futuro che non smetterà di rinnovarsi assieme a questo mondo incredibile che è quello dei vini naturali.
Grazie alle persone che, volenti o no, mi hanno fatto compagnia in questa giornata speciale :-)
Alla prossima!