Testo e foto di Gloria Feurra
La prima informazione è di tipo quantitativo: per un litro di prodotto occorrono circa 1650 alici. Mentre osservo la sobria boccetta in vetro da 100 ml, immagino accanto al laptop 165 pescetti freschi, e m’impressiono. La seconda informazione è invece estetica: dentro il caveau dove la maturazione avviene, una delle più vigorose ed enigmatiche zaffate mai esperite investe l’olfatto, disorientandolo e catturandolo. Tento oggi di decriptare: è l’odore di un mare profondo, salato e roccioso, imbrigliato dentro piccole e antiche botticelle di legno.
In Corso Umberto I, al numero 64 sito in Cetara, dal 1950 sta lo spaccio e la fabbrica della famiglia Giordano, che nell’insegna azzurrognola porta il nome di Nettuno, prodotti ittici conservati. Arrivo a fargli visita un venerdì di fine agosto, dopo aver epicamente percorso i rinomati tornanti della Costiera Amalfitana, ancora nella sua calda stagione d’oro. Giulio mi aspetta in laboratorio e, dopo una vigorosa stretta di mano, specifica immediatamente che se nel sito internet e in strada si legge “1950”, quell’attività familiare, in realtà, si replica da tempi ben più remoti. Prima ancora del padre Raffaele c’era il nonno Giulio, omonimo, e si potrebbe proseguire a ritroso in questa circolarità di nomi come in un loop antico forse quanto la colatura d’alici, la ragione del mio pellegrinaggio. Il passato familiare scuote fresco un ricordo: “la colatura a Cetara si mangiava solo in inverno, quando il pesce fresco non c’era; si mangiava a Natale, per le vigilie, per condire la pasta, mentre adesso i ristoranti la servono tutto l’anno, e per fortuna!”.
Se a partire dagli anni ’90 il consumo si spalma su 365 giorni l’anno, la produzione della colatura di alici tradizionale di Nettuno, che si fregia della chiocciola Slow Food, rispetta rigidamente il calendario della biologia più che quello del mercato: nel golfo di Salerno, tra aprile e agosto (o secondo altre credenze dal 25 marzo, Festa dell’Annunciazione, al 22 luglio, giorno di Santa Maria Maddalena) nutriti banchi di alici si avvicinano alla costa per depositare le uova. Nel cuore della notte, la pesca alla lampara (o cianciolo, localmente) cattura nelle sue reti i piccoli pesci. “Entro le 6 del mattino li abbiamo qua in laboratorio”, racconta Giulio, e da qui comincia una storia che si trascinerà per due anni.
La prassi prevede che le alici vengano immediatamente decapitate ed eviscerate (scapezzate), per poi trascorrere le seguenti 24 ore in legno insieme al sale, “così da perdere l’acqua”. Tutto ciò che segue, a sentirlo raccontare non avendo mai avuto occasione di assaggiare il risultato finale – e se così fosse: vergogna! – farebbe pensare ad un processo dall’esito più che improbabile. È una spremuta di pesce fermentato, ed è ancestrale, misteriosa, meravigliosa, squisita. Riassumendo: le alici, ora parzialmente disidratate, sono pronte ad essere disposte “testa-coda” dentro i terzigni (le terze parti delle botti di castagno), alternandole ad abbondanti strati di sale. All’ultimo strato viene disegnata la corona, una raggiera di pesci argentati che rappresenta la firma del preparatore, questa nel caso di Nettuno:
La corona sarà prima coperta di abbondante sale e, sopra di essa, verrà poi adagiato il tombagno, un disco di legno dal diametro inferiore a quello della bocca della botte, su cui poggiate stanno le “pietre di fiume prese dal mare”, lisce e pesanti, raccolte dai nonni e lavate una sola volta con acqua dolce, di lì in poi sempre e solo salata. Dentro ogni terzigno sono contenuti circa 25 kg di pesce.
Le stagioni diventano complici nel resto del processo produttivo: la salatura in estate favorisce con le sue temperature più generose l’innescarsi del processo di maturazione delle alici che, macerate dal peso delle pietre e dall’azione del sale, lentamente rilasciano un liquido ambrato che sale in superficie, tenendo sul fondo la componente solida. I mesi passano e il liquido aumenta, imbrunendosi gradualmente. Giulio mi permette di curiosare tra terzigni ormai più che settantenni le diverse fasi di maturazione e gli stadi evolutivi di quella che però, ancora, non si può propriamente definire colatura. Sarà necessario assistere ad almeno due primavere prima che il liquido affiorato percorra a ritroso la sua strada: la botte, forata nel suo fondo con una chiave a vite (la vriale), consentirà la ricaduta attraverso quegli strati di pesce macerato e sale, facendo insaporire ulteriormente il liquido e filtrandolo. Goccia dopo goccia, la colatura d’alici si raccoglie. A chiudere il cerchio, quel che resta del pesce, ormai depredato di tutti i suoi umori e sapori, torna ammare, facendosi mangime per le acquacolture.
Impossibile a questo punto non ricercare un nesso con il garum romano caro ad Apicio. Certo, ma se devi fartelo raccontare da Giulio, lui, forse non a torto, rintraccia le origini di questo estratto di sapore incredibilmente versatile intorno alla seconda metà del XIII secolo. È grazie alla proverbiale e accidentale fortuna monastica in ambito di preservazione dei cibi che la colatura, by-product di pesce conservato ma poi dimenticato sotto sale nelle botti, nasce. E noi, riconoscenti, ringraziamo sia la sbadataggine dei monaci cistercensi delle colline Amalfitane per quell’antica dimenticanza, sia i fedeli pescatori che, omaggiando gli ecclesiastici, generarono nelle dispense di questi ultimi quell’indispensabile surplus alimentare che diventò molla creativa.
Dicevamo versatile, e se dovessi azzardare un termine di paragone citerei il glutammato monosodico, ma senza la psicosi della sindrome da ristorante cinese in agguato. Umami, iodato. Da impiegare in ricette di una semplicità squisita come quella degli spaghetti – di Gragnano, e reidratati senza sale – con olio, aglio e prezzemolo, fino alle verdure al vapore (con le patate e le erbe aromatiche, suggerisce Giulio) o al pesce stesso. Qualcosa di più audace? O’ sang ‘e Maria, la versione cetarese del Bloody Mary creata dallo chef Pasquale Torrente de Il Convento, dove la colatura sostituisce il sale, fornirà un esempio emblematico.
Ed ecco alcune dritte che non si leggono in etichetta: la conservazione. Giulio docet, regola #1: fuori dal frigo. E non ci sarà da storcere il naso se nel corso di qualche settimana il liquido imbrunirà, virando verso le tonalità del mogano. È il processo di ossidazione che – guarda che fortuna – non solo non stona né deteriora il prodotto (che una volta sgocciolato fuori dai terzigni risulta eccezionalmente stabile) ma lo arricchisce, regalando ulteriore profondità e lunghezza. Una volta aperto, il tappo in dotazione potete pure buttarlo: uno spicchio d’aglio non pelato o un ciuffo di origano lavoreranno persino meglio.
In questa sede non ho detto tutto; ad esempio di quanto Giulio sia un comunicatore nato, di quanto sia dedito al suo lavoro e di quanto la sua simpatia sia trascinante. Ma questo ve lo posso dire: dal 20 al 24 settembre, a Torino, lo troverete al Salone del Gusto. Io un salto ce lo farei.
Nettuno
Corso Umberto I, 64 – 84010 Cetara (SA)
Tel: +39 089 261147