Testo e foto (imperfette) di Anna Morelli
Era un giorno X nel novembre dello scorso anno. Andrea Petrini, via FaceTime, affronta gli attesi punti del giorno: viaggi, articoli, eventi. Terminata la rassegna, Andy-San mi ordina di sedermi. C’è qualcosa di importante cha ha da dirmi. Da copione, un brivido sfiora il cervello: è successo qualcosa di brutto, di triste. “Sei pronta a partire in giro per il mondo a mangiare in 5 ristoranti che costituiscono una delle short-list degli Awards?”. Per un indefinibile lasso di tempo resto impalata a decidere se mandarlo al diavolo per quel preambolo da drama queen che mi ha lasciato in apnea, o mettermi sulla sedia – ma sui due piedi, stavolta – a saltare a ritmo di sì. Opto per la moderazione: “Che razza di domanda, certo che sono pronta!”.
Per circa un mese l’unico dettaglio reso noto era quello del mio partner: Paul Carmichael – chef del Momofuku Seiōbo di Sydney – mi avrebbe affiancato come giudice di una delle categorie dei The World Restaurant Awards. In ogni caso, ancora prima che arrivasse la rivelante email di Joe Warwick sulla nostra area di interesse, l’adrenalina, l’entusiasmo e l’emozione di far parte di questo gruppo di lavoro hanno invaso le mie giornate. Il tempo dava forma alle cose: Arrival of the Year è la categoria assegnata. Era arrivato il momento di organizzare il viaggio. Due settimane per scorrazzare da San Francisco fin giù a Lima, tornare nel vecchio continente tra San Piero in Bagno e Parigi e concludere il tour a Tokyo. Non si trattava solo di acquistare biglietti aerei e prenotare alberghi. Disegnare l’itinerario significava anche massimizzare i tempi e, per esempio, non arrivare all’altro capo del mondo per trovare il ristorante da visitare chiuso per ferie o giorno di riposo. Incastro dopo incastro, con l’organizzazione di IMG, il piano era stabilito.
“I’m in and down for the ride” scrive Paul, sulla mia stessa lunghezza d’onda dell’iper-gasatura. Il nostro viaggio comincia il lunedì del 7 gennaio, destinazione San Francisco. E comincia male. La fitta nebbia all’aeroporto di Firenze suona come un déjà-vu di ritardi colossali, e i pensieri negativi sul non arrivare a SF in tempo per la cena mi oscurano. Breathe-in, breathe-out e il volo parte con solo qualche minuto di ritardo. L’attitudine zen non premia però ad Amsterdam, dove il margine del dubbio è colmato dalle due ore di ritardo cubitalmente espresse sullo schermo. Paul mi dice di non preoccuparmi; aspetterà in aeroporto. Dopo lo sbarco, mi preparo all’ennesimo esercizio di pazienza che non mi si addice: code chilometriche per il controllo passaporti. Ed è di nuovo sorpresa: in pochi minuti sono davanti all’agente. Tutto è in ordine, e mi chiede solo quanto tempo rimarrò negli States. “One day, I’m leaving tomorrow.” L’espressione interrogativa sulla faccia della signora dai tratti asiatici del Customs and Border Protection muta in un divertito “Oh! I want that job!” dopo averle brevemente raccontato la missione da portare al termine in due settimane.
Ed eccolo palesarsi, accessoriato con un mega sorriso, lunghi dreadlocks, borsone dai colori rasta, una mega valigia e un carry-on. È Paul, anche lui arrivato con 2 ore di ritardo da LA. Divertito mi racconta di essersi imbattuto in Virgilio Martinez in aeroporto. Non poteva credere alla coincidenza di averlo incontrato per caso, considerando che la nostra prenotazione al suo Central a Lima è solo due giorni dopo! L’Uber ci porta al Van Ness Inn, tipico drive in americano costruito a ferro di cavallo, con lo spazio auto al piano terra. Chiavi in mano, ci salutiamo e raggiungiamo le nostre camere. L’appuntamento è vago: chi si sveglia per primo manda un whatsappino, ché tanto la cena è prevista alle 9.00 PM. Quando ci sentiamo sono già le 8.00. Paul mi racconta che la sua camera puzzava di varechina e che ha dovuto dormire con la porta aperta. Era un po’ annoiato, avrebbe dovuto chiedere di cambiare camera ma alla fine è crollato comunque. L’aspetto positivo è che siamo sufficientemente ricaricati per affrontare la prima tappa: Angler, il nuovo ristorante di Joshua Skenes.
La serata da Angler inizia con un Pineapple Daiquiri al bar. Siamo arrivati un po’ presto e il servizio diligente e accogliente west-coast style ci chiede di attendere la preparazione del nostro tavolo. In fondo alla sala decorata con enormi Blue Marlin appesi ai muri, c’è la bellissima cucina a vista con le griglie e il fuoco, peculiarità voluta da Skenes. “Open wood fire”, la chiama, un design personalmente pensato e disegnato che rispecchia il concetto di cucina naturale, senza sovrastrutture, caratterizzata da prodotti selezionati con cura di cui esaltare i sapori. Decidiamo di ordinare alla carta: Antelope Tartare, Diamond Turbot, Radicchio X.O., Little abalones, Petrale Sole e il pane, i Parker House Rolls con il burro di Angler. Tutto è decisamente buono: non credo di avere mai mangiato l’antilope in vita mia, anche se a dirla tutta il sapore non differisce tanto da altre carni. Il crudo di rombo è squisito, mentre il radicchio si fa aspettare un po’. Gustoso, ma forse un po’ troppo dolce per il mio palato. I mini abalones sono eccellenti, ma il top è la sogliola. Non ne avevo mai assaggiata una così grande e cotta magistralmente. Le carni sono tenere al punto giusto e nulla viene a coprire il gusto del pesce. Si coglie l’idea di cucina dello chef Skenes pur non assaggiando il suo signature dish: Whole Pastured Chicken.
Ne hanno servito uno al tavolo accanto a noi, e un po’ ci mordiamo le mani. Sembrava assolutamente perfetto. Siamo ancora seduti al tavolo quando davanti a noi si materializza indovina chi? Virgilio Martinez. Che doppietta! Stava insieme a Dominique Crenn proprio nella sala accanto, in una tavolata di cuochi e amici. Dominique, col suo entusiasmo contagioso e la sua energia elettrizzante, decide di riaccompagnarci in albergo promettendoci di vederci il giorno seguente. Fissiamo l’appuntamento alle 9.00 del mattino per visitare la sua Farm nella Sonoma Valley. Una scampagnata sotto la pioggia prima del volo per Lima.
La pioggia si è calmata, e dopo poco più di 24 ore siamo di nuovo in aeroporto. Viaggeremo con American Airlines. Non ne ho un buon ricordo, e la memoria non m’inganna: una combo di cabin-crew scorbutica e del peggior cibo mai messo sotto i denti. Lo scalo è a Dallas, e in men di un’ora siamo di nuovo in volo verso Lima. La mia strategia è quella di mangiare il meno possibile e di diluire il pasto con un cocktail di GT + Aspirina. Il trucco funziona alla meraviglia. Ho dormito per quasi tutto il volo e all’arrivo mi sento benissimo, fresca e rilassata. Paul invece si è guardato 3 film e ha dormito poco, che non lo aiuta una volta sul taxi immerso nel traffico caotico della periferia Limena.
Sono le 7.00 del mattino. In Perù siamo riusciti a concederci qualche giorno extra. Sia io che Paul abbiamo approfittato dell’occasione per visitare qualche ristorante in più. Ma io ho qualche altra ragione personale per trattenermi. Per inciso: il Perù fa parte del mio DNA, lì ho la famiglia materna e l’ennesimo caso della vita vuole che anche la mia figlia junior sia in Perù in quei giorni. Arrivati in albergo, ovviamente le nostre camere non sono ancora pronte, così temporeggiamo nella sala delle colazioni. C’è qualcun altro che però ha più esigenza di noi di ristorarsi a suon di caffeina. Starter pack dell’hippy 3.0 composto da: zaino in spalla, salopette, infradito e faccia di chi ha viaggiato tutta la notte su un autobus partito dall’estremo nord del Perù. Carla, mia figlia, è arrivata.
Ci lasciamo per installarci nelle nostre camere e ritrovarci per esplorare Miraflores, cogliendo l’occasione per incontrare l’amico Javier Masías, un giornalista che ha aperto la libreria Babel all’interno di una casetta da sogno: La Casa Inclán, non lontana da noi.
Lo spazio è meraviglioso, immerso nel verde di un negozio di fiori e piante, tutto accanto a un design store, una gioielleria artigianale, uno negozio di moda e la libreria, con un piccolo coffee bar adiacente. Insieme a lui facciamo un giretto per il quartiere, mangiamo ceviche e chicharrón de pescado nel Mercato di Surquillo. Optiamo per un pomeriggio di relax: io lo trascorro felice con la mia bimba, mentre Paul riesce a ritagliarsi il tempo per una bramata pennica. Barranco è la nostra prossima tappa.
È uno dei quartieri più piccoli e più belli della città: un po’ artsy, è diventato trendy negli anni. Vivo, pulsante, zeppo di piccoli caffè, locali notturni, gallerie d’arte. È là che scopriamo il Bar Ayahuasca. Il nome viene da quello che è un infuso fatto di erbe amazzoniche (l’aya-huasca, detta anche liana degli spiriti o liana dei morti) dalle proprietà allucinogene. Saremmo certamente stati là a sorseggiare un altro Pisco Sour e a curiosare con il cameriere su questo locale incredibile, ma il count-down scorre inesorabile: la cena da Statera del giovane chef André Patsias è vicina. Il ristorante è fresco d’apertura ma, secondo Javier, questo è uno dei posti da tenere sott’occhio e di cui si sentirà parlare spesso. Cucina contemporanea basata su prodotti dell’incredibile biodiversità peruviana. Ancora un Pisco Sour – al Carnaval, un coktail bar davvero fantastico – ed è decisamente tempo di congedare quella che è sembrata una giornata di 48 ore. Il programma dei prossimi giorni è altrettanto intenso. Ce ne andiamo tutti a dormire.
Giovedì 10 gennaio parto presto dall’hotel per andare a salutare un cugino e poi ritrovarmi con Carla. L’appuntamento con Paul è alle 12.30 da Maido, il ristorante di Misha (Mitsuharu Tsumura) di cucina Nikkei. Maido non era tra le tappe contemplate per Awards, ma se ci sei a tiro non puoi bypassare uno dei migliori ristoranti del Sud America e del mondo. La capacità di Misha di mediare e fondere le sue due culture, giapponese e peruviana, è davvero unica, sorprendente e squisita. Spenderei parecchio altro spazio a scrivere di Maido, ma questa è la sede dedicata alla short-list dei New arrival, e allora torno in tema anticipandovi che il prossimo sulla lista è il Kjolle di Pía Léon, la moglie di Virgilio.
Visiteremo Kjolle il giorno seguente, mentre la cena, quella del 10, è stata al Central. Non credo sia sensato raccontare il primo senza citare l’ultimo, o viceversa. Ne è complice la prossimità – i due ristoranti e il bar Mayo sono nello stesso complesso, a Barranco, in un luogo incredibile risultato di anni di ristrutturazione/costruzione, il tutto circondato da un bel giardino curato. Ci sono due ingressi: uno per ristorante e al centro si trovano gli uffici di Mater Iniciativa, progetto guidato da Malena, sorella di Virgilio.
Il Central costeggia una vetrata lunga quanto la sala, mentre la cucina è a vista. Il menu degustazione parla di altitudini e dislivelli, racconta storie di comunità e di ecosistemi: dai prodotti della costa a quelli del deserto, dalle Ande alla Ceja de Selva, fino alla foresta amazzonica. Ogni piatto racchiude un racconto, è composto da prodotti esclusivi di specifiche aree. È un’esperienza complessa, come se ogni portata fosse circondata da altri satelliti, altre parentesi che si aprono e che raccontano nuove storie. Io però qua di parentesi ne sto aprendo un po’ troppe; è tempo di rimettermi in riga.
Venerdì 11, sveglia alle 6.00 di mattina. Perché non stravolgerci un po’ di più e partire con Virgilio a Cusco (in aereo) per continuare (in furgoncino) su strada sterrata fino a Moray (3.568 metri di altitudine), nella Valle Sacra degli Incas dove si trova MIL, l’ultimo nato dei progetti che questo inarrestabile chef è riuscito a mettere su? Non si può definire MIL come un ristorante, è molto di più. È un esercizio di vita, è agricoltura, è antropologia, è ricerca e studio, produzione e lavorazione, inclusione e condivisione, contaminazione tra persone e culture diverse, nel rispetto di ognuno. Il paesaggio è mozzafiato, le rovine di Moray sono di una bellezza unica. Non ho mai visto niente di lontanamente simile a MIL nel mio curriculum di girovaga per ristoranti.
Letteralmente: ne sono rimasta folgorata. Sotto la pioggia ci aspettava una piccola delegazione della comunità indigena locale. C’erano 4 donne, Santiago Pilco – il leader della comunità e Francesco, l’antropologo che mantiene i rapporti con le popolazioni coinvolte. Ci hanno raccontato del loro lavoro e ci hanno fatto bere Chicha de jora (non prima di averne versato un goccio alla Pacha Mama). MIL è aperto solo a pranzo e il menu degustazione è composto da 8 portate che di nuovo si muovono tra prodotti, altitudini ed ecosistemi diversi.
Purtroppo il tempo a disposizione era veramente poco, a fine pasto siamo dovuti riscappare e giù col furgoncino sulla strada sterrata e tutta curve, per tornare all’aeroporto di Cusco. Paul comincia a non sentirsi troppo bene. Sospetta sia qualcosa che ha mangiato, ma i sintomi sono chiaramente quelli del soroche, il Mal di Altitudine. Arrivati a Lima, Paul deve andare a riposare. Un vero disastro per noi visto che (per la shortlist) dovevamo assaggiare proprio Kjolle. Ci riaggiustiamo così: io vado a Kjolle la sera e Paul, rifiorito, il giorno dopo.
Kjolle (pronunciato koye) è il nome di un albero andino resistente alle altitudini più estreme e che ha un bellissimo fiore arancione. Il ristorante è al primo piano del complesso. È luminoso e accogliente, con un ambiente allegro e informale e tavolate fino a 8 persone. Il menu degustazione è di 10 portate (anche in versione vegetariana), ma si può anche scegliere alla carta. Si inizia dal pesce – con l’antipasto di Capesante con semi e riccio di mare, la Spigola e conchiglie con Mashua e noci dell’amazzonia – piatti freschi e saporiti, per continuare con i Tuberi vari e con una tartelletta di Cassava Olluco e patate, scoperta di sapori primordiali.
Segue l’Anatra, servita in tartare e accompagnata da un pane senza mollica tipico della zona di Cusco. Il concetto è quello di farcire il pane e mangiarlo con le mani, ed è succulento, da bis. C’è poi il Polpo, sachatomate, aglio e basilico nativo e c’è un piatto vegetale di Yacón, carciofo e brodo di caffè. Arriva anche una sorta di Crême brulée fatta di crema di zucca, con gamberi e arancia amara. E ancora: Manzo e mais con macambo e paico. Chiudiamo con due dessert: Frozen Pomerose, muna e airampo e Cacao del Mil con chirimoya e miele amazzonico. Wow, direte voi. Wow, confermo io. Una valanga di ingredienti dai nomi totalmente ignoti. Quello che succede a Kjolle però, è che Pía, a differenza del Central, si prende la libertà di giocare, utilizzando tecniche ibride e mescolando elementi provenienti da aree diverse. La cena è stata fantastica. Un’esplosione di gusti e profumi in un locale bello dove il servizio funziona alla perfezione. Una scoperta, un ristorante dove vorrei tornare, e presto.
Il giorno seguente, a pranzo, accompagno Paul ad assaggiarsi con tutta calma il menu. Il nostro volo era a fine pomeriggio. Fino a questo momento io e Paul abbiamo deciso di confrontarci il meno possibile sui 2 ristoranti, ci siamo detti che era meglio parlarne dopo. La sera siamo volati verso casa. Arrivati a Firenze, Frans, mio marito, era lì che ci aspettava. Per andare a San Piero in Bagno non esistono troppe opzioni: bisogna arrivarci in macchina. In 3 ore siamo Da Gorini. Quanto è bello tornare in un posto che ti piace facendolo scoprire a un amico?
Prendiamo l’aperitivo davanti al camino. Il locale è tranquillo: è lunedì sera, e Gianluca ha tempo per noi. Appena seduti al tavolo, i piatti arrivano a ritmo cadenzato: Battuta di Daino, bergamotto, miele di castagno e caffè – Mandorlato di baccalà, rosmarino, limone e olive – Carciofo arrosto, salsa di carciofo, capperi e tè Matcha – Anguilla alla brace, radicchio e scalogno – Tagliolini verdi alle canocchie, pane profumato alle alghe e limone marinato – Rigatoni alla crema di Parmigiano affumicato, macis, cocco e salsiccia secca – Ravioli ripieni di scalogno, primo sale di capra e cicoria appassita – Passatelli in brodo di verza, semi di zucca e soia – Stinco di capriolo stufato alla birra, cavolfiore arancio e garofano – Piccione alla brace, estratto di alloro e cipolla fondente – Spiedino di quinto quarto di piccione speziato.
Sono felice di degustare questo menu, molto diverso da quello assaggiato la scorsa estate. È giusto così; cambiano le stagioni, cambiano i prodotti, pur restando una cucina di terra, più che di mare. Sono solo due gli appunti marini: il baccalà che riporta al sud, sotto il sole tra olivi, limoni e rosmarino e i tagliolini con le uova di aringa, che saltellano in bocca insieme all’aroma dell’erba cipollina.
Gianluca si mette in gioco e rischia, declina sapori e li spinge fino a dove può. Tornano punte di amaro, sapori decisi ma bilanciati. È il caso dei rigatoni, dove il cocco (spiazzante all’esordio) trova il suo posto preciso, mescolandosi al sapore forte e determinato della salsiccia secca e all’affumicatura non invadente del Parmigiano. L’amico Paul ha ancora appetito, per fortuna. Io sono arrivata al limite ma non posso non assaggiare i dolci e finire con gli strepitosi Spaghetti mantecati con il burro alla genziana, pecorino e scorze di bergamotto candito. Stupore e profondità. Paul sgrana gli occhi, non ci può credere. Il dopocena è ritmato da chiacchiere fitte e GT, e rientro a piedi al nostro simpatico hotel Bologna. Paul e io parleremo spesso e a lungo di questa cena memorabile.
Dopo un meritato giorno di riposo a Lucca siamo pronti a ripartire. Prossima tappa: Parigi, partenza mercoledì 16. Tutto scorre senza intoppi e arriviamo al nostro hotel. Paul decide di andare a trovare degli amici e così anch’io vado a salutare Desirée, la mia amica d’infanzia, attrice che vive a Parigi da sempre. La accompagno al teatro. Questa sera (e per il resto del mese) reciterà nella pièce “Les derniers jours de ma vie”: il ruolo è quello della madre di un uomo in coma, che la famiglia vorrebbe far tornare alla vita. Desi mi presenta tutta la troupe, insistendo affinché mi trattenga. Vorrei, ma la mia agenda prevede altro.
Ritrovo Paul. Siamo a due minuti a piedi dal Virtus, dove abbiamo la prenotazione per le 8.30 PM. C’è solo il tempo per una birretta su una terrazza e siamo al Virtus, che toglie il fiato. Un locale spazioso accogliente, con una decorazione elegante e colmo di opere d’arte. Quasi una maison privée. È quella dell’architetto e proprietario Marcelo Joulia. Gli chef Chiho Kanzaki e Marcelo di Giacomo si sono conosciuti nel 2009 al Mirazur. Lei giapponese, lui argentino, hanno deciso di intraprendere il proprio percorso a Parigi. Al nostro arrivo ci hanno accolti al bar, con un aperitivo e un primo assaggio. Paul e io ci eravamo ingenuamente convinti di arrivare in un ristorante di cucina giapponese, realizzando solo dopo che in realtà la maggior parte degli chef giapponesi che lavorano in Francia sono orientati alla cucina francese di stampo più classico.
Inizia il menu con le Capesante, cavolfiore e brodo di Granny Smith, squisito e fresco un’apertura perfetta. Segue la Declinazione di sedano rapa, caviale Osciètre e il Riccio di mare, frutto della passione e crescione. Non c’è un dettaglio fuori posto, tutto è buono e gustoso, forse solo un po’ troppo gentile. Il riccio di mare ha perso parte del suo carattere. Il Merluzzo giallo, pur nella sua delicatezza, ritorna perfetto nella combinazione di rapa e brodetto di vongole. Il Canard de Challans, un’anatra arrosto con scorzonera e sesamo nero non fa una piega. È succulento, cotto divinamente. Ci siamo lasciati tentare anche dal Plateau de Fromages – come si faceva a rifiutarlo – dividendone uno in due e accompagnandoci un calice di La Notas di Jean Claude del 2012, Rosso Argentino. Non siamo certo rimasti sorpresi di sapere che, poche settimane dopo la nostra visita, la guida Michelin attribuiva la prima stella al Virtus. Meritatissima.
È tempo di chiudere le valigie e ripartire. È la volta di Tokyo, ultima tappa del nostro tour. Tokyo, la metropolitana. Guardavo esterrefatta Paul orientarsi con disinvoltura tra le sue linee, e riflettevo: io di sicuro mi sarei persa. Paul e la sua destrezza riescono ad accompagnarci in hotel dopo poche ore dal nostro arrivo all’aeroporto e da un viaggio estenuante. L’arcano è presto svelato: Paul è stato tante volte a Tokyo, quel che basta per farlo cicerone del duetto. Ancora oggi mi sembrava surreale essere riusciti a trovare Inua. Insegne, frecce, ideogrammi, cartelli? Nulla. Un mistero come abbia fatto a portarci lì.
Entriamo in un edificio moderno, elegante e sobrio. Dobbiamo aspettare di essere accompagnati al 6 (7?) piano, e varchiamo la soglia per accedere alla grande sala di Inua. È uno spazio minimal elegante e accogliente, con la cucina a vista dentro cui una ventina di giovani si muovono con agilità e leggerezza, concentrazione e solerzia. Sono felice di essere qui per poter conoscere Thomas Frebel e assaggiare personalmente la sua cucina.
Sul numero 23 di Cook_inc., in uscita a marzo, sarà Andrea Petrini a raccontarlo. Il menu degustazione è composto da 13 portate: comincia con una Mousseline di capesante, Tofu fresco, noci e caviale, King crab e tartufo bianco, Lingua di renna, insalata di erbe selvatiche, e prosegue con un assaggio di Agrumi speziati. È da sballo. Tanti sapori nuovi con qualche eco alla cucina del Noma, dove Thomas e vari altri membri dello staff hanno lavorato a lungo. Prodotti del territorio reperiti con cura maniacale ed estrema difficoltà, specie per garantire un approvvigionamento regolare.
Mentre continuiamo con il Maitake stagionato e affumicato, la Cernia in salsa salata di susine e l’Insalata di gamberi dolci e alghe, arriva al tavolo l’Anatra selvatica intera, della quale in un primo momento ammiriamo estasiati solo la cottura. Arriva poi nel piatto sporzionata. Rossa la carne, croccante la pelle, fondente il suo grasso in bocca. Siamo senza parole. La bistecca di Enoki con salsa al tuorlo d’uovo è sorprendente, ma facciamo il bis di Riso e beechnuts, servito ancora su quella pelle croccante e ricca di anatra. Golosissimo, squisito.
Una cena memorabile. Quando si arriva al dessert (tra cui un Mochi da sballo!) tutto comincia a tremare. Eppure, grazie in larga parte alla saggezza di Paul, abbiamo deciso di moderare il vino per concentrarci al meglio sulla degustazione. È la stanchezza – mi chiedo – mi gira la testa, o l’effetto collaterale di questa cena sublime? Sospetto che non sia nulla di tutto ciò quando incrocio lo sguardo impietrito di Paul. Le lampade oscillano, e qualche posata inizia a traballare. Nessun effetto speciale: è una reale scossa di terremoto. Ancor più straniante, di principio, è osservare la nonchalance dei tavoli attorno: nessuno si muove, tutti continuano a mangiare placidamente. Prendiamo spunto dai locali, così faremo anche noi, godendoci i dolci rincuorati dal ricordo che l’antisismico in Giappone è brillantemente collaudato.
Dopo cena siamo rimasti a chiacchierare con Thomas e il suo team. Abbiamo visitato gli spazi, le cucine, la zona Lab, le celle per le fermentazioni, osservando quanto il tutto fosse incredibilmente tecnico, avanzato, professionale, stupefacente. Sono state una cena e una serata memorabile, senza eufemismi. La mattina dopo mi sono svegliata molto presto, e non avendo alcuna voglia di rimanere chiusa in albergo, ho deciso di passeggiare per gli iconici e meravigliosi giardini del Palazzo Imperiale resi ancora più affascinanti dal fatto che a quell’ora fossero deserti. Ho visitato il Museo Nazionale di Arte Moderna della città. Ho fatto il pieno di sole, ho camminato per quasi tre ore, preparandomi al meglio all’ennesima segregazione di 12-13 ore dentro un aereo.
Ed è così che siamo arrivati al momento cruciale, quello di confronto, quello in cui non basta ripercorrere una per una le esperienze, ma tirare le somme, per prendere la difficilissima decisione: scegliere solo uno dei 5 ristoranti come vincitore della categoria dei Arrival of the Year. È stato veramente complicato, e a tratti ci è sembrato quasi ingiusto. Angler, Kjolle, Da Gorini, Virtus e Inua sono ristoranti estremamente diversi, tutti veramente unici e speciali. Solo alcune solide linee guida hanno potuto portarci verso una scelta univoca e, come accordato al principio del nostro viaggio, abbiamo preso in considerazione ambiente, servizio e, chiaramente, la proposta gastronomica dei 5, guardandone poi tutte le componenti in maniera olistica. Il risultato oramai lo conoscete, è stato annunciato il 18 febbraio alla cerimonia dei The World Restaurant Awards a Parigi: il premio è stato assegnato a Inua. E io, ça va sans dire, non posso che essere pienamente d’accordo.