Testo di Barbara Marzano
Foto di GDComunicazione
C’è sentimento. Questo il concept alla base della ventunesima edizione di Festa a Vico, un’indescrivibile reunion tra chef, italiani e internazionali, amici e sconosciuti, portatori di felicità che per tre giorni servono tutta l’emozione di un ristorante a cielo aperto, di un paese vivo, tra degustazioni, passeggiate e talk gastronomici. L’edizione passata – dal 10 al 12 giugno a Vico Equense – ha messo ancor di più al centro l’identità territoriale, grazie alla candidatura della cucina italiana come Patrimonio immateriale Unesco. Un’impresa immensa che ha coinvolto Maddalena Fossati (direttrice de La Cucina Italiana), chef Gennaro Esposito, chef Davide Oldani e il professore Pierluigi Petrillo (direttore Cattedra UNESCO Università Unitelma Sapienza).
Maddalena Fossati: “Ho intrapreso questo viaggio senza un effettivo interesse diretto, ma per una questione culturale, intesa come una stretta connessione tra quello che mangiamo e il nostro territorio. Abbiamo richiesto la candidatura nel 2020, con l’obiettivo di proteggere l’identità e la cultura delle persone. E il 23 marzo dell’anno scorso, siamo stati ufficialmente candidati”.
Al momento il processo di candidatura è a metà del suo percorso, il dossier che lo rappresenta è infatti stato consegnato a un organo di valutazione, che esaminerà tutto entro un anno. C’è chi dice che la cucina italiana non esista, ma mangiare – e ancora prima “il preparare da mangiare” – è un fatto culturale che riguarda tutti. D’altronde se analizziamo la quotidianità del cibo, ci rendiamo conto che anche quando siamo a tavola parliamo di cibo. Basti ricordare quando le nostre mamme, o ancor meglio nonne, alle prime ore del mattino erano solite chiederci “cosa ti preparo per cena?”. Il cucinare si è sempre manifestato come puro atto d’amore, un modo di prendersi cura del prossimo, una responsabilità che difficilmente non possiamo riconoscere a noi stessi.
Gennaro Esposito: “Noi italiani ci mettiamo l’ingrediente umano. Cucinare italiano è una grande responsabilità, è conforto, è accoglienza. Il famoso piatto da trattoria, o una semplice spaghettata, non devono costare meno, perché anche per quella estrema semplicità, chiamiamo a raccolta tutte le energie, saperi e ricordi, solo per non sbagliarlo. Già, perché anche una ‘semplice’ aglio, olio e peperoncino racchiude una sapienza incredibile”.
Ecco quindi, che oggi ci ritroviamo tutti nel bel mezzo di una crociata volta a difendere quella cucina che non dobbiamo perdere – quell’identità e quella complessità della realtà gastronomica casalinga – fatta di gesti che necessita d’essere codificata. Solo così, il patrimonio culinario che abbiamo ricevuto in eredità dalle generazioni precedenti, figlio delle nostre madri e nonne, non rimarrà un mero fattore romantico. Nessuna tecnologia potrà mai avere la gestualità e il conforto di un gesto in cucina, di una tecnica che si sviluppa sull’ingrediente umano e che sempre più cerca di trasmettere, con un’interazione concreta, anche i concetti delle tecniche della cucina tradizionale, per far sì che finalmente siano comprensibili a tutto il mondo.
È necessario trovare delle chiavi di racconto che rendano i piatti italiani sempre più internazionali quanto unici. Questa candidatura vuole essere infatti altamente inclusiva, proponendosi come una candidatura che assimila influenze, dialoga con altre culture e porta con sé una marcata impronta femminile, in quanto rispetta e ricorda il valore della donna in cucina. Ma forse, come suggerisce chef Oldani, sarebbe meglio specificare ancor di più la direzione di questa candidatura.
Davide Oldani: “Ma perché non dire direttamente la cucina è italiana? Una piccola cognizione che magari può permettere di impattare maggiormente anche all’estero. Dobbiamo creare un sistema italiano, come ha fatto già la Spagna che, rimanendo coesa dietro e davanti alle quinte del panorama gastronomico, ha fatto sì che oggi la cucina spagnola significhi qualità, non quantità, marcata da una grande tecnica”.
La tecnica in cucina ha comunque dei limiti, potrà continuare ad affinarsi nel tempo, aumentando la sua precisione, ma ciò che fa davvero la differenza è la costanza nel tempo. Non è un caso, infatti, che altri paesi come la Francia non si siano mai concentrati su temi di cui non fossero già promotori, come il vino ad esempio che, è da riconoscerlo, che piaccia o meno, ha una sua storia costruita con coerenza, nata dalla coesione e dall’alleanza di una Francia che ha sempre lavorato per obiettivi comuni. Questa candidatura, intesa come un progetto che, oltre a fare bene all’uomo, ha l’obiettivo di promuovere una comunione di beni e uguaglianze, delinea le basi per una “tavola moderna”, una sorta di ritorno al passato proiettato al futuro. La richiesta di candidatura non è d’altronde rivolta al governo – un’entità che cambia in modo repentino, ma all’UNESCO, presente dal 1945, un pilastro a rappresentanza di un valore temporale.
Professore: “L’Unesco incarna un po’ il sistema Michelin della cultura. I flussi turistici mondiali selezionano i luoghi da vedere sulla base dei riconoscimenti UNESCO. Ma il motivo per cui vale la pena battersi per la candidatura è quello di affermare come il cucinare, familiare, quotidiano o dello chef, sia una cucina dinamica che si arricchisce continuamente di influenze straniere, come un mosaico di diversità che si è arricchito nei secoli con influenze storiche, culturali e religiose, che negli anni hanno attraversato – e attraversano – l’Italia”.
L’obiettivo ultimo è quindi quello di fare capire che tutto il lavoro che fanno i grandi chef, come anche tutti i cuochi che ciascuno di noi ha in casa, ha un significato e una funzione culturale: se noi italiani mangiamo, non è solo per sfamare il nostro corpo. Se ci sediamo attorno a un tavolo, non è solo perché abbiamo fame, ma per parlare, confrontarci, discutere, magari litigare. Per noi il cibo è una scusa, diventa un modo di dialogare con gli altri, di essere parte di una comunità, fatta di italiani o meno, è irrilevante. È un modo per prendersi cura degli altri, un atteggiamento inclusivo per natura.
Gennaro Esposito: “Noi chef siamo un po’ come la Formula 1. Nella Formula 1 si studiano tutte quelle soluzioni tecniche e tecnologiche perché il sistema funzioni e poi, dopo qualche anno, sono proprio le stesse a diventare parte delle automobili di tutti i giorni. Noi cuochi dobbiamo fare tesoro di questo ruolo, crederci e portarlo avanti, senza preoccuparci del resto”.
Restiamo quindi fedeli a un unico traguardo: inorgoglire chiunque abbia a che fare con il cibo, chi lo produce, chi lo trasforma e magari anche chi lo acquista, per fare sì che inizi a vederlo con un atteggiamento, una sensibilità e una consapevolezza nuovi. La cultura del cibo non è altro che una questione di approccio e responsabilità: chi lo prepara, che sia un panino o un piatto à la carte, deve prepararlo con un atteggiamento di orgoglio e responsabilità, di tutela e difesa verso la nostra cucina, perché se smettiamo di cucinare con sentimento, probabilmente smetteremo di esistere.