La crescia self-made di Luca Donninelli come audace esempio di imprenditoria italiana all’estero
Testo di Lorenzo Sandano
Foto cortesia di Strutto
Il sole picchia dolcemente sulla testa mentre mollo la bici nell’apposito parking del mercato di Broens Gadekøkken: uno dei palcoscenici all’aperto più gettonati di Copenaghen in cui sgraffignare street-food d’ogni sorta, passeggiando bordo canale. Davanti agli occhi ho il gelido mare del Nord e scorgo POPL Burger di Noma in un angolo, eppure mi sento improvvisamente a casa. La bandierina tricolore si impone con timido orgoglio tra le insegne etniche che affollano il food-market; la scritta impressa sotto il logo di un ammiccante maialino mi consegna un lipidico stato di gioia familiare: “Strutto”. Mi avvicino abbracciando prima le rime di Fabri Fibra in sottofondo e poi quel folle genialoide di Luca Donninelli: lui, marchigianissimo talento di sala che avevo intercettato anni fa al Relæ di Puglisi è l’artefice di questo coraggioso progetto da strada.
Lo dico a chiare lettere dall’inizio, la sua è la miglior crescia sfogliata della Danimarca e non solo. Crescia avete letto bene, non chiamatela piadina, focaccia, pita o quant’altro, perché come ci tiene a rimarcare Luca mentre stende l’impasto (facendosi in 4 da solo, nel suo chioschetto): “La Crescia sfogliata d’Urbino è un prodotto unico, tipico del Montefeltro. Secondo la leggenda la sua invenzione è merito di una giovane fornaia che un giorno vide il sole abbassarsi più del solito e rimanere impigliato a una delle torri del Palazzo Ducale di Urbino. Agli occhi della fornarina, il sole stesso nel tentativo poi di liberarsi lasciò grondare mille stelle dorate, ispirandola nel realizzare qualcosa che esprimesse libertà e voglia di volare alto come quel radioso cerchio solare. Era considerata la piadina dei ricchi in passato perché prevedeva e prevede l’uso dell’uovo e del pepe, spezia pregiatissima all’epoca. Le altre prerogative sono che viene prima impastata con farina, strutto, sale e acqua, poi il composto va steso e ricoperto da un ulteriore sottile stratto di strutto, arrotolato su sé stesso creando una sorta di chiocciola, steso nuovamente e infine cotto”.
Ok, dopo aver fatto chiarezza sulle radici storiche del prodotto e aver azzannato la prima delle tante turbo-farce ideate dal Donninelli (l’impasto maculato a puntino sulla piastra vale già la medaglia, ma il ripieno con Ciauscolo, pecorino semi-fuso e carciofi sottolio fa decollare il tutto), mi scaglio in un interrogatorio sul suo percorso, sul come sia finito qui dal nostro ultimo incontro e, soprattutto, sui suoi appetitosi progetti futuri.
Luca Donninelli: from Marche To Relæ with (Crescia) love
Classe 89, nato a Jesi, buona forchetta e spadellatore seriale sin da piccolo, il nostro crescia-master intraprende prima la scuola alberghiera nelle sue amate Marche, per poi specializzarsi nel mondo del servizio (e del vino) seguendo l’indirizzo di sala e un primo corso AIS.
Fugge poi a Londra per imparare l’inglese e dimostrare a sé stesso di che pasta è fatto. La pasta, da stendere, la trova nel primo lavoretto in una pizzeria italiana (vocazione o elezione per il genere?), riuscendo poi a guadagnarsi spazio nelle sale di diversi stellati londinesi. Stabilità, finché la nostalgia italica non lo assale.
“Dopo circa tre anni da straniero in trasferta mi mancava troppo l’Italia, mi capita anche oggi – ricorda – la tappa più vicina e ambita al tempo stesso si è rivelata Padova al fianco della famiglia Alajmo. Anche lì 3 anni che mi hanno formato e insegnato tantissimo, Raffaele è un vero maestro e non finirò mai di ringraziarlo”. Il magnete del movimento new Nordic però lo attrae a tal punto da riportalo a viaggiare sino a trasferirsi a Copenaghen.
“Noma spopolava come un ristorante imprescindibile, più volte premiato come miglior indirizzo al mondo – spiega Luca – lavorare lì era l’obiettivo iniziale, ma dopo che mi proposero un periodo troppo lungo di prova decisi di tentare col Relæ che era comunque nel mio mirino. Avevo voglia e bisogno di lavorare, entrai quasi subito e quel locale rivoluzionò tutto in me. Un posto così controverso e pieno di passione come non ne avevo mai visti in vita mia”. Nella Community di Puglisi Luca si integra perfettamente, esternando doti rare di connessione con l’ospite, dialettica e fervore passionale in ogni movenza. Una carica di coinvolgimento che l’ha condotto a ricoprire il ruolo di manager del locale. Al tempo stesso però in lui già lievitava (è il caso di dirlo) lo spunto per il format coniato oggi.
“Ogni sera dopo il servizio tornando a casa mi ritrovavo a scaldare una tortilla del supermercato e farcirla con mozzarella e prosciutto scadenti – evoca sghignazzando – quel morso però, seppur di pessima qualità, mi riempiva il cuore. Da quei pasti un po’ disagiati nacque l’idea che se mai avessi aperto qualcosa sarebbe stata una Piadineria. Non solo perché a Copenaghen non era mai arrivata, ma inoltre sarebbe stata una rivalsa italiana alle alternative trash presenti in commercio. Gli anni sono volati e il Relæ ha annunciato la sua chiusura nel periodo pandemico. Un bello shock per tutti noi del gruppo, ma è proprio in queste situazioni che io tento il tutto per tutto. L’ho colto come un segnale e ho deciso di puntare su quel progetto appena abbozzato. Nel mentre avevo conosciuto la mia attuale ragazza Cecilia Aroni, marchigiana come me che, oltre a specializzarsi come baker-girl da Hart Bageri mi ha fatto conoscere la specialità d’Urbino. L’orgoglio regionale ha prevalso insieme al sentimento e quella che doveva essere una semplice piadina si è evoluta in una crescia”.
Strutto: non chiamatelo Street-Food
Ci vuol tanto fegato a proporre un prodotto sconosciuto a Copenaghen, anzi parecchio strutto a quanto pare: perché la grassa prerogativa di questo lievitato nostrano (che oltre alla doppia lavorazione dell’impasto lo rende così sfogliato e inebriante all’olfatto) diviene per Luca il nome battesimale e l’icona più adeguata a promuovere il suo concept con ogni mezzo possibile. Non esagero:
“Era il Gennaio 2021, in pieno lockdown, senza lavoro e troppo tempo libero – racconta – mi ritrovo sul divano di casa a lanciare un progetto dal nulla utilizzando solo la nostra pagina Instagram @struttocph e iniziando a postare foto provando a spiegare cosa davvero fosse la crescia. Forse incentivato dalle prime reazioni, azzardo nel postare una storia in cui invitavo la gente a ordinare con la promessa che avrei consegnato l’indomani in prima persona. Piomba l’ordine inaspettato di ben 40 cresce e noi, presi alla sprovvista, ci siamo rimboccati le maniche per non deludere i primi clienti. Mentre io impastavo in cucina, Cecilia era in salotto a costruire buste per il take away arrabattato last minute. Nel provare il packaging poi, ho rispolverato il motivo che mi aveva ispirato in questa follia e ci ho associato lo slogan che da lì a pochi mesi è diventato virale. La scritta Better than a fucking tortilla in breve tempo ha diviso l’opinione pubblica tra chi si sentiva offeso e chi la provocazione l’aveva letta con il mood giusto. Di aneddoti buffi e difficoltà ne ho collezionati a iosa, soprattutto nello stabilizzare la ricetta con gli ingredienti danesi che avevamo a disposizione, farina in primis. Siamo andati avanti circa 2 mesi così e quella routine non mi dispiaceva. Ero a impastare e cuocere cresce al testo sin dall’alba quando Cecilia andava in Bakery e l’intero appartamento profumava di piadineria, con sacchi di farina e secchielli di strutto ovunque”.
Provenendo da ristorazione stellata, c’è chi avrebbe considerato denigrante investire in un formato così in umile in apparenza. Luca, al contrario, ha saputo trasferire le skills maturate al Relæ in vari aspetti: sviluppo del brand; selezione oculata dei prodotti per migliorare la sua crescia; brevettarne la produzione; recuperare la strumentazione idonea e addirittura ottimizzarne la vendita in chiave totalmente selfmade.
“Ogni pomeriggio salivo in sella alla bici e giravo 20/30 km per le consegne – spiega – lì mi resi conto che forse quelle 2/3 ore al freddo andavano ottimizzate e così dopo aver toccato l’apice della mia carriera da Puglisi mi ritrovai ad arruolarmi come rider per Wolt, il Deliveroo danese. Monetizzavo in maniera maggiore quella mia uscita pomeridiana, recapitando simultaneamente le mie cresce e, a buon bisogno, hamburger e patatine fritte per altre chiamate delivery. Siamo stati fortunati a essere notati da food blogger e testate giornalistiche locali che ci hanno fatto pubblicità in quel periodo duro. Grazie a loro, fra le mille consegne, ho conosciuto Antonio Dell’Aquilano che è diventato poi il mio socio per Strutto. Raccolto un po’ di fiato insieme, sulle materie prime abbiamo raggiunto una quadra che mi soddisfa tantissimo per il tenore di italianità rispettato, a partire dalle farine marchigiane dell’azienda Molino Paolo Mariani. Per il sale siamo usciti dai confini regionali usando quello della Salina di Cervia, che rispondeva meglio col nostro impasto. L’anima della crescia poi, lo strutto, l’abbiamo consolidato tramite una collaborazione con Hindsholm Grisen, una piccola azienda artigiana gestita da Carla e Poul con circa 300 maialini felici che scorrazzano a prato libero”.
Vittima dei ripieni scadenti delle sue tortillas notturne, Donninelli non ha lesinato neanche sulle farce: affettati del salumificio Tomassoni di Jesi (a mo’ di cordone ombelicale norcino con la sua città natale); formaggi stagionati dell’azienda Tre Valli; mentre formaggi freschi come stracchino e stracciatella li recupera dall’azienda Treccia, un micro-caseificio poco fuori Copenaghen, gestito da due ragazzi italiani di nome Luca e Oscar.
La fine del mercato & il nuovo locale