Testo di Ilaria Mazzarella
Foto cortesia del ristorante Antica Fonderia
Attraverso a passo spedito Via del Pellegrino in direzione Campo de’ Fiori. Il freddo di un anonimo pomeriggio di gennaio mi taglia la faccia. Scorgo dalla porta a vetri il viso dolce di Alba che, assorta nei pensieri, mi aspetta in cucina. Il suo nuovo ristorante sa fondere calore umano e austerità solenne. Sarà l’alternarsi ordinato di legno, marmo, vetro soffiato, intarsi di ottone e oro. Quanto oro sulla tavola. Una tensione compositiva ben calibrata e connotata da un’attenzione maniacale ai dettagli. Gioco-forza anche la suggestione di trovarsi negli ex locali della Fonderia Lefevre. Due motivi per chiamarsi Antica Fonderia, dunque.
Ho conosciuto Alba quando era poco più che una ragazza, trapiantata a Roma quasi per caso. Poi si è innamorata. Prima della città, poi di un uomo – che ha sposato – e poi di nuovo della città. Quando ha dovuto scegliere di nuovo la sua casa, seppur tentata da altro – Spagna, Milano y quién sabe qué más – ha scelto Roma. Di nuovo. Idee chiare, cristalline, che la timidezza non riesce a oscurare. Mi sembra di vederla ancora, la ragazza che ho conosciuto. Sì che c’è ancora. Dietro ai suoi grandi occhiali tondi, incorniciata dalla bandana nera e avvolta nella casacca color terra di Siena bruciata. È sempre lei, la spagnola briosa che a 19 anni ha fatto la borsa e ha lasciato la famiglia per inseguire la sua strada di sudore e sacrifici, coraggiosa per un uomo, assai ardua per una donna. Che è partita dal ristorante sotto casa per approdare a El Celler de Can Roca e farsi conoscere in Italia con Marzapane.
Ma forse c’è anche molto altro. Ci credete ai fugaci segni del destino? Rincontrare un’azienda conosciuta per caso a inizio carriera a Girona (Carpier, ndr) sembra aumentare la consapevolezza che la direzione è quella giusta. Anche perché col fuoco non si scherza. “Uso il collirio tutti i giorni” e versa dell’acqua nei bicchieri di entrambe. “Devo mettere la crema sul viso e il burro di cacao in continuazione”. Il suo sguardo trasuda tutta la stanchezza reduce dalla fase di start up. Oscar Wilde diceva che “il grande vantaggio del giocare col fuoco è che non ci si scotta mai. Sono solo coloro che non sanno giocarci che si bruciano del tutto”.
Ebbene, benvenuti nel regno della cucina ancestrale. Signori mettetevi comodi, scegliete dai menu, riempite i bicchieri. Sta per iniziare lo spettacolo. Fuoco vivo. Solo griglia e forno a legna e carboni. Questa è un’avventura dove occorre competenza in cucina. Che in parte si acquista anche con l’esperienza. “All’inizio è stato un incubo abituarmi a questo nuovo modo di cucinare. Comanda alla mano, andavo a mettere la carne sulla griglia e il fuoco era spento”. Oggi doma le fiamme e alterna tipologie di legno con una disinvoltura invidiabile. I fuochi della griglia vengono accesi alle sei; alle sette meno un quarto il primo ciocco di legno nel forno. “Poi tutti di corsa a cambiarsi negli spogliatoi, così evitiamo il getto forte del fumo”, ride. Alle sette il fuoco è vivo e la cucina operativa. Alla griglia quercia e faggio e poi carbone, mentre subito il carbone e poi legno per il forno, che dovrà raggiungere temperature ben più alte. Per le affumicature a caldo melo e ciliegio, per quelle a freddo il mandorlo. Alcune preparazioni vengono affumicate nel forno con il faggio.
Il mecenate è Cesare Bettozzi, deus ex machina del focus sul fuoco vivo, un imprenditore romano che vanta lunga esperienza nel campo della ristorazione oltreoceano. Ça va sans dire, nel menu anche tanta Spagna. Jamón, alici, baccalà, il maialino di Segovia. La carne invece è italiana della macelleria De Angelis. Non possono mancare alcuni dei suoi piatti storici, come le Crucifere e la Carbonara. La sua spalla nella vita e nel lavoro è Michel Magoni, responsabile di sala e sommelier. “Non potrei pensare di fare tutto da sola nel ristorante, occorre sempre la collaborazione di un professionista fidato”. Meglio se il tuo compagno. Come altre coppie di professionisti, che non hanno alcun problema a condividere la sfera professionale con il proprio consorte. Anzi, ne fanno (giustamente) tesoro, ricordandoci che la ristorazione più significativa si fa quasi sempre nei ristoranti a gestione familiare.
“Basta non portarsi i problemi del lavoro a casa”. È pur vero che (saper) cucinare non serve solo a mangiare (bene). Serve anche e soprattutto a “regalare sorrisi” (Alba dixit). Si prova tutto: le grandi tavole, l’ultima tendenza, la novità del momento. Ma si tende inevitabilmente a tornare a sedersi a quelle tavole dove ci si sente più a proprio agio. Forse perché è come stare a casa solo che si viene serviti e non si lavano i piatti? Forse. I riconoscimenti della critica sono importanti, certo. Ma c’è forse qualcosa che dà più soddisfazione di un ristorante pieno di clienti che continuano a tornare e tornare semplicemente perché stanno bene? Forse no. Il ristorante è vuoto, lo staff è appena andato via. Un ultimo sguardo in cucina, a quel che rimane del fuoco. La sera, la brace si lascia morire e il giorno dopo si ricomincia da capo.
Via del Pellegrino 65
00186 Roma
Tel: + 39 06 6928 2203