Milano è bella solo in periferia. Così dicono quelli che ci sono nati e cresciuti. Per me va pure bene, se solo posso aggiungere due posti in centro che ho imparato ad amare di recente. Due realtà culinarie che per me ricalcano alla perfezione la nozione che William Gibson ha definito come “il mondo allo specchio”. Realtà gemelle che non sanno di esserlo, diversissime ai blocchi di partenza, ma che condividono filosofie, approcci, affetti e finiscono per offrirti due versioni alternative della stessa realtà, molto più vicine di quanto diresti. Queste due realtà per me sono anche i posti in cui mi piace di più mangiare in città: Trippa di Diego Rossi e Il Gusto della Nebbia di Lampo Wu.
Le vecchie mappe con i paralleli e i meridiani che si incrociano ordinati, che cercano di tenere insieme il mappamondo come fosse un culatello appeso a testa in giù, non valgono più. Ora c’è la metro lilla. Il vecchio ordine tramonta, ne sorge uno nuovo, muta-forma. Ti spiego: questo articolo è nato due anni fa da un’idea sciocca, quella di mettere insieme un dining club di milanesi d’adozione (espatriati) che si trovavano a passare molto tempo nella nostra unica metropoli. Perché si sa che a Milano ci si va per lavorare sino all’ora dell’aperitivo e poi si continua a lavorare con il bicchiere in mano, o seduti all’osteria, per così dire. Per un pochino ha funzionato, poi a un tratto eravamo tutti troppo impegnati e ci siamo visti di meno. Io però a quelle cene ci tenevo e allora, mentre gli altri si raccontavano le cose, io prendevo appunti.



Dopo aver provato destinazioni varie e aver battuto palmo a palmo le sperdute e desolate propag- gini di Loreto, finivamo sempre da Diego – da Trippa cioè – perché lì ci sentivamo accolti, ben voluti, un gruppo di musicisti bravi più un fotografo scarso, dei “pazzi sprassolati, un poco scemi” come cantava Dalla. Mangiare da Trippa significa imbarcarsi senza cerimonie in un’esperienza allo stesso tempo ristoratrice e stimolante, che ci sazia e ci arricchisce. Chi ne sapeva poco di vino, tornava a casa con un pezzetto in più, chi non aveva mai mangiato frattaglie si inorgogliva provando e io in segreto non vedevo l’ora di sapere che verdure del giorno ci fossero. Perché secondo me, che le frattaglie le ho mangiate tutte quando ero pischello (ma non c’era Instagram quindi vi dovete fidare di quel che resta della mia parola), il signor Rossi dà il meglio di sé soprattutto quando è alle prese con il Regno delle piante. Durante una delle nostre chiacchierate lui stesso mi ha confessato che la sua dieta è in larga parte contadina. Io pagherei per vederlo chiuso in una stanza con Stefano Mancuso 1per un’ora. Dopo un po’ che ci vedevamo, insomma, quando ha iniziato a chiamare “vecio” pure me, ho capito che potevo spingermi un po’ in là e chiedergli dove valesse la pena di andare a Milano, quando da lui non c’era posto (capita spesso che Trippa sia sold out). È qui che entra in scena William Gibson (leggete il fantascientifico romanzo L’accademia dei sogni) perché il primo posto che Diego mi ha consigliato, è stato Il Gusto della Nebbia. E io gli ho detto: ”Non lo conosco! Andiamoci insieme!” perché se mangio da solo mi sembra comunque di stare in treno, nella carrozza bar del Frecciarossa, o all’aeroporto.
E così l’idea del dining club si è evoluta in una serie di “conversazioni con Diego e Lampo” (sarebbe un nome perfetto per una graphic novel della casa editrice Bao Publishing) sulla cucina, sull’e- sperienza di andare al ristorante e su concetti che ormai sembrano ineludibili quando si parla di comida: autenticità, ispirazione, identità, collaborazione, rispetto e apprezzamento.


Quel giorno chef Lampo doveva arrivare da Parigi, Diego doveva mettere in sicurezza della selvag- gina e io, che all’epoca avevo lo studio in via Messina (a due passi da viale Pasubio), aspettavo nella nebbia. Misty Taste (come lo chiama Lampo) e Trippa sono agli antipodi del décor, ma stra- namente offrono esperienze straordinariamente simili di accoglienza. Molto è non-scripted e, a occhio, diresti per aficionados: chi ti accoglie ti guarda con la stessa curiosità che hai tu entrando, c’è una certa reciprocità, per non dire una simmetria di sguardi. E questo lo trovo molto cool. Solo le grandi città hanno ristoratori in grado di offrirti quel primo impatto, casual ma studiato allo stesso tempo, un po’ skate park del South Bronx, un po’ vecchia osteria. Il signor Rossi è arrivato con un basco oversize, così confezionato dall’azienda più antica di Bilbao (ah la ricerca delle origi- ni) e tempo due minuti, dopo aver piazzato l’ordine, si è lanciato con entusiasmo sullo spiegone: nei Paesi Baschi il berretto tipico si chiama chapela vasca, o txapeldun e nella maniera di portarla viene espresso anche uno stato d’animo. Diego Rossi è un tornado. Quando esprime un concetto che gli sta a cuore si entusiasma, crescono gli intercalari, “sì cazzo, vecio!”, ma poi quando cucina, prima dell’apertura o al pass, è tutto concentrazione. Di lui si vedono solo le spalle larghe, come se venisse inghiottito da sé stesso, dal suo mondo, contenuto da clavicola a clavicola, mentre dedica anima e corpo al suo lavoro.
Anche io ne avevo da dire sui baschi e il mio registratore ha catturato la storia di quando Enaitz Landaburu mi ha invitato al suo txoko e si è presentato con un bonito intero di 20 chili dentro una borsa da Dj (non è questa la sede per spiegarvi cosa sia un txoko, si pregano i lettori di andare a recuperare il fondamentale numero 16 di Cook_inc.). Insomma, per me non è un caso che mentre aspettavamo Lampo, ci siamo messi a condividere ricordi baschi, dato che il nord ovest della Spagna è uno dei posti, in questo vecchio e stanco continente, dove identità non è certo solo un hashtag alla moda.
Da Lampo abbiamo ordinato la trippa, l’uovo centenario (non può mancare), il daikon, il pollo sfi- lacciato, dei noodles e per me il vulcano di tofu, che direi è una versione educata del mapo tofu che siamo abituati a mangiare in qualsiasi catena di ristoranti di ispirazione Sichuan. Il Gusto della Nebbia è una sala piccola e accogliente, dove la prossimità dei tavoli fa convivialità senza turbare la privacy; ci sono dei separé leggeri, una parete con una griglia di ritratti di avventori in bianco e nero (more about that later) e un piccolo bancone dove si prepara il caffè, si paga e ci si accomiata. La cucina è minuscola e a vista, anche dalla strada: hai l’impressione che lo staff dietro le quinte sia stato abituato a un’economia di gesti che non è mai frugale ma è essenziale, con qualche nota di goffaggine umana, un po’ come noi tutti immaginiamo succeda a chi è bravo senza voler fare sfoggio delle sue abilità. Qui è nuvole e pioggia, gusto ed esperienza, divertimento, chiacchiera, risata, il peperoncino che ti obbliga a un altro boccone, un’altra forchettata e il pepe del Sichuan che controintuitivo ti aiuta, togliendo sensibilità a lingua e palato.

Mentre divoriamo gli antipasti Diego mi parla di Trippa, del successo quasi inaspettato che ha avuto, di quel che serve per non perdere la rotta, “per non confondersi e dover tornare indietro”. E poi ancora di come lui ci tenga a preparare ogni singolo piatto di Vitello tonnato, che scompare dal menu le poche volte che lui si trova in viaggio. Di come la clientela, con il successo, si sia da una parte abituata a mangiare tagli diversi, quinto, sesto e settimo quarto per così dire, ma anche cose della tradizione che erano magari un po’ sbiadite. Qui in Italia Diego ha intercettato la Weltan- schauung attuale: l’intuizione di un ritorno al passato, molto prima di tanti grandi sperimentatori che ora riesumano la tradizione; l’idea dell’Oste, che lo ha sempre affascinato; la caccia, che non pratica lui stesso, ma che rispetta se condotta eticamente. L’etica della caccia. In una delle lettere di Hemingway dal Kilimangiaro, l’autore spiega che il leone va cacciato a piedi e che se non lo si uccide al primo colpo, è fatto obbligo morale al cacciatore di seguirlo nella boscaglia, fin su nell’er- ba alta se necessario, per sparare il colpo fatale. Non si può lasciare la preda menomata, bisogna finire l’opera. Affrontare un leone ferito su un terreno a lui congeniale però può significare la morte quasi certa del cacciatore e più ci si avvicina alla belva ferita, più cresce il suo vantaggio. Questa verità – quella del cacciatore armato che a un tratto, al tiro del dado, si trova a dover vestire i panni della preda – mi ha sempre affascinato. Ecco, Diego per me è più personaggio alla Hemingway che steamboat punk, un cuoco che gestisce la cucina come se fosse una brigata di commilitoni esperti, la mano che “sa esse fero e sa esse piuma”, che esce a consigliare il cliente, a rassicurarlo, a fare a chi ha la risposta più veloce, a smentirlo se necessario con cortesia e fermezza, a spingerlo, ad accompagnarlo nel viaggio tra le trippe e le verdure. Una cena da Trippa alla fine vale la pena per questo: per il dialogo. La qualità della sceneggiatura. È buono perché è vero, è onesto perché ha un’identità. E quando ci siamo risentiti, poco tempo fa, per la redazione finale di questo pezzo Diego ha insistito sul concetto di identità: sono io. Io sono le mie scelte: lasciare sul menu solo frattaglie e cacciagione come proteine e spingere sotto i riflettori le verdure. Zio Diego, fai mangiare le verdure ai bambini!
Cosa che, per dire, anche Lampo fa a modo suo, anche se il suo cuore batte tra una trippa e un uovo centenario. Appena arriva, Diego esulta: “ecco Lampone!” (risate dei commensali). La loro è una bella storia, di rispetto e di apprezzamento reciproco. Entri alla “Nebbia” e campeggiano il libro di Diego e il suo ritratto sul lato opposto dell’ingresso. Diego mi dice che sono amici, si stimano e che gli ha consigliato un paio di fornitori perché sa che la materia prima, se vuoi fare qualità in Italia, è imprescindibile. L’altro ascolta e rielabora come un jazzista. Lampo Wu è un ragazzo straor- dinario. Il suo è il ristorante di ispirazione culinaria cinese migliore che io abbia mai frequentato in Italia. Quando mi racconta la sua storia, mi sembra un privilegio ascoltare dei suoi primi passi qui, a Milano. È il 2015 e Lampo è appena arrivato da Chongqing (grande città della Cina centro-meri- dionale, ndr). Non ha niente, trova una stanza in affitto e a casa c’è un bel tavolo da 4. E così per far quadrare i conti a fine mese, e dimostrare di poter vivere in Italia per conto suo, fa quello che sa fare meglio. Dei suoi anni in Cina mi dice che faticava a scuola, faticava con le relazioni sociali, riusciva solo nei videogames; insomma, un inizio blu scuro, di solitudine metropolitana. A Milano inizia a cucinare a casa e a ospitare 4 clienti alla volta: 20 euro a testa e passa la paura. Mi manda le foto sul telefono, vedo un tavolo di IKEA con una mise en place semplice e invitante e lui con il grembiule trompe-l’oeil con la stampa del busto del David di Michelangelo. Home restaurant in un paese straniero. Eppure, un po’ di quella vibrazione familiare la ritrovi pure oggi in un’operazione di tutt’altro livello. Lampo ha fatto grandi passi avanti, ma l’anima è rimasta invariata: in questi sette anni, un po’ come è successo a Diego, anche lui milanese di adozione, qualcosa deve essere scattato con Milano. Tanto che adesso quando Lampo torna da un viaggio mi dice che è quasi come tornare a casa. E questi forse siamo anche un po’ noi, che quando accogliamo non facciamo distin- zioni, discriminazioni, perché da qualche parte nel nostro DNA ci deve essere scritto che l’Italia è da sempre un crocevia, una porta per chi vuole venire e chi vuole andare via per sempre.




Misty Taste, prende il suo nome dal fatto che Chongqing è sempre nebbiosa, ma quando l’ho sentito per la prima volta non ho potuto fare a meno di pensare si riferisse a Milano. Aperto dal 2017 in zona Garibaldi, (due anni dopo Trippa) insieme a un socio, Jerry Tian, con la missione di introdurre in Italia l’approccio di Chongqing. IGDN (Il Gusto della Nebbia, ormai lo chiamo così) mi è immediatamente piaciuto proprio per questo: l’idea non è di edulcorare un’intera tradizione culinaria, vastissima e semplificarla a scapito della qualità per palati abituati a tutt’altro (che è il mantra di 9 ristoranti finto-cantonesi su 10). Ma di cercare di rappresentare una nicchia ben spe- cifica, facendo uno sforzo di traduzione e adattamento dello spartito, costante ma mai al ribasso, senza accettare troppi compromessi, senza tagliare le curve, insomma. Gli ingredienti e le materie prime sono eccellenti, non per sudditanza con i nostri usi e la nostra tradizione culinaria, ma per cercare di mettere in scena la versione migliore possibile di sé stessi. Definire IGDN come un risto- rante Sichuan è riduttivo. Quando lo chiedo a Lampo lui mi spiega: “La cucina del Sichuan è divisa in tre aree: Rong Pai (Shanghe Gang), Yu Pai (Xiahe Gang) e Yan Gang (Xiaohe Gang). La prima è nota come la cucina Shanghebang Sichuan e comprende le zone di Chengdu e Leshan nel Sichuan occidentale. La seconda, la Xiaohebang Sichuan, è la cucina Yanbang incentrata sullo Zigong nel Sichuan meridionale (e include anche le cucine Yibin, Luzhou e Neijiang). La terza, chiamata Xiae- bang Sichuan, è la cucina Jianghu rappresentata dalle tradizioni di Dazhou, Chongqing e Wanzhou nella vecchia regione orientale del Sichuan. Le tre insieme caratterizzano i sapori locali di quella che viene chiamata cucina del Sichuan”.
Ecco perché quando parla della sua missione, Lampo specifica che la sua intuizione era la cosa più semplice, più onesta, più reale: quella di far “fiorire la cucina di Chongqing”, la sua cucina, in Italia. Nel 2015 il mercato a Milano era pieno di catene Sichuan che si erano adattate alla nebbia Milanese senza comprenderne il gusto e la cui offerta è rimasta molto generica. Posti che da hipster sono diventati mainstream e adesso sono solo unti e spesso noiosi. “Ogni mattina, continua Lampo, ci alziamo e prepariamo il nostro piatto forte, i Noodles di manzo brasati – la carne di manzo richie- de molto tempo per essere cucinata per avere una texture morbida e delicata – e i Noodles con piselli e salsa mista, che sono l’orgoglio di Chongqing (ogni regione della Cina ha la sua versione dei Noodles con salsa mista). Oserei dire che in passato e anche adesso, nessuno può resistere alla meravigliosa sensazione di questo triplo gusto che entra in bocca nello stesso momento. Se riusciamo a fare arrivare il messaggio, significa che abbiamo successo e che il duro lavoro ne vale la pena”. Ho il sospetto che questo sforzo evocativo sia fatto anche per sentire meno i chilometri che lo separano da Chongqing e per sentirsi un po’ più a casa.
Lampo definisce il suo stile di cuisine Jiang Hu che significa (chiedo aiuto agli dèi della traduzione sino-italiana) “non limitato alla forma, non confinato in un modello, concentrato sul gusto”. Mi confida che in questi cinque anni di apprendimento della cultura alimentare italiana ha re-imparato a pensare un menu che si è evoluto (evoluto non riadattato o ridotto). Per esempio, nell’ordine in cui gli ospiti scelgono e assaggiano i piatti e in quello che lui definisce il livello di eccitazione dei piatti: la grammatura del peperoncino e del pepe Sichuan alla ricerca del perfetto málà2 per evitare “che gli ospiti italiani non piangano per i peperoncini piccanti e non perdano il senso del gusto per i grani di pepe, come accade a Chongqing”.


Il senso di identità qui è chiaro; eppure, al Gusto della Nebbia, accanto a piatti che sono più o meno rigorosamente della tradizione Chongqing ce ne sono altri che sono il frutto di quel processo di adattamento mimetico di cui parlavamo prima. Lampo definisce Diego – che è stato un ospite frequente di IGDN anche prima di conoscersi – uno chef dal gusto iconico. I due si sono piaciuti e l’anno scorso da Trippa hanno dato vita a un quattro mani che deve essere stato leggendario (e che io ho saltato causa Covid-19). Questa amicizia ha portato i suoi frutti: Lampo usa lo stesso fornitore di carni di Trippa (grazie Diego) e la carta dei vini è curata da Pietro Caroli (socio di Diego). Insomma, i mondi allo specchio si avvicinano e interagiscono.
Da fotografo non ho potuto fare a meno di notare la presenza di un’intera parete di ritratti, tutti in bianco e nero, dall’inconfondibile look Leica e una volta mi è saltato in mente di chiederne la provenienza. Allora Lampo mi ha fatto vedere la sua street photography, i suoi ritratti, e ho capito che come me anche lui è un introverso che trova rifugio dietro la lente. Quando gli ho chiesto il perché di quella galleria di ritratti, tutti pregevoli, lui mi ha risposto che “l’importante è esprimere quel che in mandarino si chiama gusto umano cioè che venire nel nostro ristorante non è solo as- saggiare i sapori di Chongqing e i sapori cucinati da me, ma anche sentirsi a casa. Personalmente mi piace la sensazione di casualità e irripetibilità della fotografia di strada – piuttosto che prepa- rare prima un set e poi catturare lo scatto – in cui è l’incertezza che conta, proprio come nella vita che è piena di insicurezze, ogni giorno, il che soddisfa la curiosità umana di inseguire l’ignoto”. Ai grafici e agli art director che lavorano in questo ambito tra il documentario e il gastronomico, e che ci leggono, voglio dire di tenere d’occhio questo chef che ha tutte le carte in regola per fare il fotografo ad alti livelli.


Quando avevo lo studio a Milano passavo molto tempo sul treno che da Termini mi portava in Centrale in poco più di tre ore. Un libro è fondamentale, se non ti vuoi far fondere il cervello dal telefono. Durante uno di questi viaggi su e giù per la penisola mi è venuto in mente che siamo andati ben oltre Proust e le sue madeleines. Leggevo un libro di Murakami, l’ultimo, quello in cui racconta con la solita magica leggerezza della sua fantastica collezione di magliette. Un capitolo è introdotto dall’autore che evoca la sensazione unica di sedersi al bar di un bistrò americano e ordinare un buon burger grass fed con le patate appena fritte e una birra ghiacciata. L’autore scrive che gli basta evocare questo ricordo per sentirsi negli Stati Uniti. Ormai non dobbiamo più neanche assaggiare il cheeseburger per viaggiare nello spazio-tempo, siamo così abituati al potere evocativo delle immagini che basta pensarla una cosa per raggiungere l’altrove. Adesso che mi sono trasferito del tutto a Roma, lo faccio pure io, di chiudere gli occhi e di immaginare un piatto freddo di trippa alla maniera di Lampo, o il mitico piattino di latta pieno di trippa fritta di Diego, e di colpo la nebbia di Milano riempie il mio studio a Trastevere come in un film di Michel Gondry. Siamo su un granello di polvere che gira su sé stesso ai margini di un grande universo in continua espansione e il nostro mondo è in perenne mutamento. Ci sono chance che un Dio, se esiste, non si sia nemmeno accorto di noi. Cosa rimane?


Un anno, per il mio tredicesimo compleanno, in aprile, non ricevetti regali. I miei genitori risparmia- rono sino all’ultimo centesimo per farmi fare una vacanza studio a Dublino i primi dieci giorni di luglio. Di lingua inglese, nella scuola pubblica che frequentavo se ne faceva pochissimo e definire quel poco maccheronico sarebbe comunque fargli un grande complimento. The cat is on the table era tutto quello che sapevo dire. Mia madre, terrorizzata dal mio anglo-analfabetismo mi fece imparare le canzoni dei Beatles a memoria, come se questo potesse aiutare, nella periferia di una Dublino post-industriale disoccupata, grigia e deprimente di fine anni 80. Il mondo che conoscevo, fatto del tragitto casa-scuola-oratorio, e che faticosamente avevo imparato a navigare da solo, esplose. Ero ospite di una famiglia molto working-class che arrotondava ospitando dieci ragazzi a volta (ma nel dépliant c’era scritto che sarei stato l’unico ospite straniero) e in dieci giorni divenni adulto. Il primo giorno mi rubarono i soldi, il secondo diedi il mio primo bacio a una ragazza e insomma nei successivi otto feci tutte le cose che si fanno per la prima volta, in modo maldestro, goffo, magnifico e alla fine indimenticabile, perché quella vacanza è durata poco, ma io ho conti- nuato a pensarci per tutta la vita.
Ecco quello che mi è mancato per tanto tempo, e che da Diego e da Lampo invece si rinnova sempre, è quella sensazione di prima volta, quelle scintille di novità, che sono tante e ti arrivano addosso tutte insieme, e poi il giorno dopo, che ne so, ti lavi i denti, i piedi nudi sul pavimento freddo del bagno e ti ricordi della sera prima e proprio non puoi smettere di sorridere. Sei su un granello di polvere, è vero, ma ci sei anche tu, chiunque tu decida di essere.