“Le ricette? Sono delle timbriche che ci nasci”.
Nel suo slang lucchese Aurelio Barattini vuole semplicemente dire, mentre rimesta una zuppa di fagioli nella pentola, che i suoi gesti, gli odori, i profumi appartengono a un lessico familiare di cui si è nutrito da sempre. Tre generazioni di cuochi lo hanno preceduto costruendo la fortuna di uno dei luoghi iconici della Lucchesia, l’Antica Locanda di Sesto sulla statale Ludovica, la strada che fino agli anni Sessanta costituiva l’asse di scorrimento tra la Toscana e l’Emilia, salendo da Lucca verso la Garfagnana e poi verso Modena.


Il casone dei Barattini nel passato doveva forse essere stato una locanda di posta e lo si evince da quegli archi chiusi che ancora si notano nella grande sala da pranzo. Un ex porticato, ricovero – probabilmente, in epoche passate – per cavalli e stallieri. Ma forse il casone custodisce anche memorie più piccanti, come tenderebbe a suggerire un’antica lapide in marmo proprio sul muro all’ingresso: “Di qui va verso un riposato svago… io custode esorto le fanciulle ritrose ad amarti”. In ogni caso gli svaghi oggi sono solo gastronomici, apprezzati da una clientela locale ma soprattutto da un’intera colonia di turisti americani e nordeuropei che si è insediata in questo spicchio di Toscana comprando e ristrutturando ville tra panorami di ulivi boschi vigne. Paesaggi apprezzatissimi nei secoli, prima dalle facoltose famiglie lucchesi che misero insieme patrimoni con il commercio dei tessuti e le cui magioni sono oggi passate di mano al jet set internazionale che ha eletto la provincia di Lucca come buen retiro, scozzesi in testa.
La Locanda di Sesto è un super classico per tutto il circondario con le tipiche proposte di comfort food, di solida cucina toscana.


Non ha ceduto a smanie di modernizzazione e resta fissa come una boa per l’ancoraggio di chi voglia atmosfera garantita, anche se un po’ fané, ricordi scolpiti negli arredi e nei dettagli, inamovibili come la storia dei luoghi, ma soprattutto di chi brami a un repertorio di piatti altrettanto impastato di memorie.
Aurelio è cresciuto in questa inamovibilità e proprio in sua ragione ha cercato una via di fuga, una via alternativa, ma compatibile che lo allineasse ai tempi, anzi, che li sopravanzasse, ma senza mai operare strappi e tradimenti. Una vita in bilico, da funambolo. Pur essendo infatti tenacemente legato a Sesto di Moriano dove da sempre, tutta la settimana, dà manforte alla mamma Raffaella in cucina e al fratello Lamberto che presidia la sala, Aurelio il venerdì scappa e raggiunge moglie e figli a Roma. E di questa sua doppia vita c’è traccia anche nel menu che contempla i romanissimi Spaghettoni con pecoringrana e guanciale di Cinta, con tanto di mantecatura al tavolo dentro la forma di pecorino, show graditissimo ai molti ospiti stranieri e non. Ma l’uomo con la valigia non si accontenta di una doppia vita. Ne ha in serbo una terza, vale a dire ogni volta che risponde alle chiamate dall’estero e prende un volo per New York o Los Angeles o Seattle, per Singapore o Hong Kong, ovunque i clienti lo chiamino a cucinare ricette lucchesi. Si tratta spesso di situazioni di estremo lusso alle quali Aurelio si accosta portando in dote la “povertà” dei piatti della sua cucina.

Faremo un solo nome tra i tanti clienti che ne hanno reclamato e ne reclamano il servizio, essendo lo chef tenuto alla riservatezza, ma basterà per capire di che si parla: Jeff Besoz, il patron di Amazon. E come il signor Besoz tanti altri paperoni americani o cinesi hanno goduto della Rosticciana in umido con la polenta o delle Tagliatelle con l’anatra cucinate direttamente sul posto con tanto di delivery di prodotti lucchesi (recapitati grazie anche alla complicità di qualche valigia diplomatica accondiscendente) e che hanno fatto tutta la differenza. A cominciare dall’olio extravergine DOP Lucca, una sorta di elisir prodotto nell’azienda agricola di proprietà, La Maolina. L’elenco delle specialità della casa – sia che le si gustino alla Locanda, sia at home della variegata clientela – è vasto e attinge ovviamente alla palette stagionale. Come la Garmugia, una zuppa che è l’apoteosi della primavera coniugando piselli fave, carciofi asparagi cipollotti con un bel rinforzo di macinato di manzo e pancetta di maiale. Una zuppa che purtroppo si può gustare solo in un breve periodo quando tutti questi ingredienti sono chiamati a raccolta. Ciò che vale anche per la Zuppa di cavolo nero che si allunga però da ottobre ad aprile. Tutti classici da apprezzare in loco, ma per l’appunto anche oltre oceano.
E che Toscana sarebbe senza una Zuppa di farro o la Pasta e fagioli, piatti che hanno sempre scaldato cuore e membra di tanti lavoratori che sostavano alla Locanda per il pranzo. I Crostini di fegatini di pollo, la Polenta fritta con i funghi o con il ragù di Cinta senese, il Crostino dolce di polenta di castagne fritta, il Gran fritto toscano con verdure, agnello pollo coniglio, i Fagioli scoppiati (grazie a uno shock termico dal frigo al forno che li fa aprire), cosparsi di lardo sbriciolato e il Tortino di carciofi sono altrettanti capisaldi di questa cucina che trae linfa anche dalla tradizione della Garfagnana, in primis con castagne e funghi. “La farina di castagne la compriamo da contadini locali che fanno una selezione attenta, castagna per castagna. Ogni sacco ci costa una damigiana di vino, ma non badiamo al prezzo. Quando la farina finisce, basta. Ci facciamo anche la pasta, ma ora ci basta a malapena per la polenta, per il Castagnaccio e il Gelato di castagne che accompagniamo alla Macedonia di frutta al forno. Il nostro, racconta ancora Aurelio, era un locale frequentato per lo più da operai, dell’Enel o di quella che allora era la Sip, la compagnia telefonica. Il sabato il ristorante lo tenevamo chiuso proprio perché in quel giorno gli operai non lavoravano e questo abbiamo continuato a fare”. Le tradizioni si rispettano, giusto!


A questo punto corre però l’obbligo di capire come ci si possa inserire con tanta naturalezza in un giro internazionale del livello appena nominato e Aurelio ce ne fornisce indizi a partire dal suo bel sorriso illuminato da due occhi azzurri e stampato su un volto abbronzato. Già, perché lui ha anche una quarta vita, con il lavoro nei campi nella sua azienda La Maolina, tre ettari con esposizione a sud, in una conca caldissima senza un punto d’ombra dove d’estate è veramente dura lavorare. Qui produce olio e vino: “un vino normale, da mescita, di diversi vitigni: sangiovese, merlot colorino canaiolo che imbottigliamo nei fiaschi del Chianti”. Of course!
Le tradizioni si rispettano, giusto!
Ci chiedevamo dunque quale sia il segreto di tanta intraprendenza soprattutto nel sapersi vendere così bene in un contesto internazionale. Simpatia ed empatia sono senz’altro un prerequisito. Ma in seconda battuta c’è anche una buona dose di coraggio e di faccia tosta come racconta lui stesso. “Uscito dalla scuola media, l’alternativa era la scuola alberghiera. A Montecatini purtroppo c’era il numero chiuso. Solo mio fratello riuscì a entrare. Così in famiglia si decise per me l’iscrizione a ragioneria dato che un contabile in azienda avrebbe potuto far comodo. I miei erano persone umili, mio padre faceva il commerciante di bestiame e io spesso lo accompagnavo nei suoi giri per allevamenti anche all’estero. Preso il diploma delle superiori andai a Firenze per frequentare un’accademia per grafici e al terzo anno vinsi un premio per il logo della mostra artigianale di Firenze. Il professore di illustrazione voleva a tutti i costi che andassi a Milano a lavorare per Saatchi & Saatchi, ma a quel punto mi sembrava che avrei spezzato definitivamente la catena familiare che ci teneva tutti avvinti al ristorante e non me la sono sentita. Avevo una responsabilità morale nei confronti di questo posto. E così decisi di mettermi in cucina con nonna Ida. Papà aveva una visione più ampia, forse per il fatto che il lavoro lo portava a contatto con tanti paesi e realtà diverse. Andavo spesso in giro con lui e ricordo le soste nelle cascine, soprattutto in quelle emiliane dove cucinavano le razdore. Per quanto riguarda la carne continuiamo a rifornirci da persone che conosceva papà, in allevamenti di sua fiducia. Abbiamo sempre escluso quelli di chianina che papà non reputava una carne all’altezza della sua fama. Ha sempre sostenuto che fosse assolutamente sopravvalutata. Non abbiamo carne toscana. Preferiamo carni di vacche con maggiori infiltrazioni di grasso”. E per misurare la qualità di queste carni non basta l’incanto della fiorentina che rosola sulle braci.


Ci sono il Peposo, l’Ossobuco, il Millefoglie di Angus con carciofi, il Manzo di Pozza (una carne stagionata nelle spezie e poi affettata in carpaccio). “Fu papà – racconta ancora Aurelio mentre governa la graticola con gesti che ipnotizzano lasciando immaginare tutta la succulenza di un boccone di bistecca – a incoraggiarmi a fare qualche esperienza all’estero. Decisi così di approfittare dell’opportunità offerta dal Consorzio Apt di Lucca, un’associazione per la promozione turistica. Iniziai a lavorare con loro, non pagato, ma in compenso potevo cucinare in giro per il mondo. L’ho fatto per una decina d’anni, ogni mese un’iniziativa diversa in un luogo diverso e questa roba mi ha aperto la testa. Avevo finalmente la possibilità di trovare uno spazio mio, di fare anche altro. Fu in uno di quei viaggi che iniziai a offrirmi come cuoco nelle case private o per feste private. Una volta, grazie a un contatto, mi candidai tra i soci di un club sportivo di San Francisco, The Olympic Club, con una concentrazione incredibile di miliardari e funzionò. A un certo punto partì il tam-tam, favorito (lo ammetto) anche dalla mia faccia tosta nel propormi. Besoz l’avevo conosciuto a Los Angeles a una cena privata e mi chiamò a casa sua proprio il giorno prima del lockdown per la pandemia. Fu gentilissimo nel trovarmi poi il volo di ritorno”.
In compenso Aurelio ha scartato l’idea di fare lezioni di cucina. “In verità, in base alla mia esperienza, ho notato che questa gente non è molto interessata a mettere le mani in pasta, troppo viziata e bizzosa per farlo, le donne soprattutto. I ricchi si annoiano a fare lezioni di cucina. Preferiscono un altro tipo di esperienza gastronomica”. Aurelio è diventato anche Cavaliere al merito della Repubblica per via di eventi di divulgazione all’estero. Ha ottenuto il visto americano Visa O-1 dato a persone con speciali abilità e ha ora tutta la libertà di poter lavorare portando con sé qualsiasi persona che reputi importante per lo svolgimento del suo lavoro. È molto ricercato ultimamente anche da clienti orientali. “A Singapore vado quasi regolarmente una volta l’anno da un cliente inglese che si occupa di hotel e che prende contatti con grupponi asiatici, personaggi cinesi importanti, ma molto riservati e cucino per loro. Il Natale scorso sono stato tre settimane in un lussuoso resort alle Maldive dove proponevo un menu lucchese, avevo molte perplessità su questo tipo di proposta. Siamo sicuri, riflettevo tra me e me, che i Tordelli possano davvero interessarli? I Tordelli sono un nostro piatto tipico, si tratta di tortelli il cui ripieno in origine era costituito dagli avanzi degli arrosti della domenica – arricchito da mortadella, formaggio e bietola – conditi poi con un brasato di carne (non amo il ragù di carne macinata, preferisco le cotture per sfinimento). Un piatto di recupero ma di fatto l’unico piatto ricco della nostra tradizione essendoci carne dentro e fuori. All’inizio mi creavo molti problemi nel proporre all’estero questo tipo di cucina ma, come mi fece notare un diplomatico italiano con cui ero in contatto, questi ricchi signori sono in cerca di un’esperienza di autenticità per la quale non c’è caviale che tenga. Così posso dire di portare in giro la nostra storia. Sicuri dunque, mi chiedevo, che il tordello possa interessare questi ospiti? Anche il direttore del resort mi rassicurò. Aurelio, mi disse, pensa che queste persone possono spendere due o tremila euro al giorno, possono avere aragoste o caviale, ma non è questo quello che vogliono. E in effetti il mio menu degustazione a 250 dollari ebbe un successo enorme”. Lucca Experience.

