Reportage
L’ecosistema Noma a CPH
Noma is Noma: 16 anni dopo
La scalata mondiale di Renè Redzepi
Testo di
Andrea Petrini
Foto di
Borderless Co.
Da Cook_inc N. 23
Noma is Noma: 16 anni dopo
18 minuti

La dispensa già colma, la famiglia Redzepi s’ingrandisce. Ci mancava solo il cane. Mo’ è arrivato pure quello. Un cucciolone che ancora a dicembre faceva la pipì per casa. Scalpita, mordicchia, vuole correre e giocherellare. Ed è una domenica mattina proprio lui a trascinare al guinzaglio René, lo zip del giubbottino mezzo giù, mentre con l’altra mano – poverello! – lo chef danese si destreggia a malinpeggio per attivare sul telefonino la chiamata automatica di uno dei suoi numeri favoriti. Quello di David Zilber, ignaro responsabile del laboratorio delle fermentazioni del Noma, invero più assonnato che sorpreso dal mattinale trillo del capo cordata. “David, se ti dicessi: vorrei sviluppare dei batteri presenti sulle impronte digitali dello staff in cucina e fissarle su un supporto, se non proprio di stabilizzarle, attraverso un normale processo di fermentazione, tu che mi dici? Che teoricamente ma anche concretamente è possibile, no?”. “Yes, chef” annuisce il dottor Zilber, prima di ricacciarsi sotto le coperte. Non consapevole lo sciagurato di essere a sua volta l’oggetto di uno sperimento. La parola al canadese ex-cuoco oramai scienziato: “Vennero, sfilando uno a uno, tutti i membri della cucina, poi via via gli altri pilastri del ristorante, Devin McGonigle con Arve Krognes e infine anche René, per farsi sviluppare la propria microbiotica impronta. Ma disgraziati tutti quanti, ce ne fosse uno che mi avesse detto per che cosa era esattamente. Lo sapeva solo René. Dovetti scoprirlo a mozzichi e bocconi”. Continua Renè: “Le impronte potremmo metterle in micro-contenitori rotondi tutte insieme sotto vetro come in un quadro?” o anche “a che punto siamo, ci sono tutti?, non manca nessuno. Ci restano solo due settimane, il museo deve ricevere l’opera entro il 3 di febbraio al massimo”. “Museo? Opera? Fu lì che feci: o mi spiegate per filo e per segno o mollo tutto” glossa Dr. David Zilber un venerdì 15 febbraio alla vigilia di partecipare, nell’auditorium del Museo d’arte contemporanea La Panacée a Montpellier, a una conferenza sugli arcani della fermentazione. Presente in sala e sul podio, un pubblico di art-attivisti giapponesi, di antropologi, di giornalisti, di studenti e di curiosi. Compreso Marco Bolasco in platea, felice futuro editore della versione italiana del Noma Guide to Fermentation del quale Dr. Zilber è, insieme a Redzepi, il celeberrimo co-autore (uscirà per i tipi della Giunti, alla fine del secondo semestre del 2019). Di sala in sala, passata l’installazione dell’Antonia Klugmann My Rabbit Hole, oltre la meteorite di mozzarella di Riccardo Camanini, subito dopo lo spazio immersivo di Jordan Kahn di Vespertine per videoproiettore, musica (by Sigur Rós, mica scherza il ragazzo!), fumo e fragranze di sequoia, arriviamo nella prima saletta in fondo al corridoio davanti all’opera di René Redzepi: L’Invisible.

Un in-vitro appeso al muro contenente le 64 batteriche identità del nucleo ravvicinato del Noma. C’è qualcosa di clinico, delle presenze di vita racchiuse ognuna nel suo bicchierino sigillato e sottovetro. L’idea del DNA di ciascuno. “L’identità batterica racchiusa è in stato vegetativo, stabilizzato, vitalmente quasi nullo. Eppure basterebbe riprendere il processo, innestarlo su della materia reattiva, reinnescare la fermentazione per risoffiare il barlume della vita” fa il Dr. Zilber sui passi dello spilungone Jeff Goldblum quando incarnava il dottor Ian Malcolm nel blockbuster spielberghiano Jurassic Park. Per cercare Redzepi, inforcatevi gli occhiali sul naso. L’autore è là e non là – quasi invisibile, tale il titolo dell’opera. Dissimulato nella pluralità, uno tra i tanti, unità tra le tante plurime unità, (per gli ossessi dell’identità, RR è il sesto da sinistra nella quinta fila a scendere) di quell’organismo collettivo, poliforme, multilingue e multiculturale che fa blocco, che fa posse, che fa banda (à part) che fa che  Noma è quel che è. Un’arca di Noè di sensibilità, età, percorsi, voglie e di futuri possibili, di tanti invisibili che fermenteranno in percorsi di vita.

Tutto si è detto di Noma. I natali quindici anni fa, i travagliati debutti, poi agli albori del nuovo decennio, la breccia aperta nelle immunitarie mura del sistema così costituito. Ne ha più fatto Noma che I dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed. Ed è tutto il crollo del Vecchio Sistema, le nepotistiche gerarchie e le oligarchie del pensiero che Noma ha dinamitato. Battono le campane, crollano le culinarie cattedrali francesi, si sgretolano le roccaforti dell’Opus Dei catalano, vengono meno le fondamenta stesse del fine dining. Tabula rasa o quasi. Sarà l’effetto del riscaldamento climatico ma – mentre gli italiani che non son né uomini né caporali, già traditori dei francesi, ma da ora ufficiali disertori pure per i catalani, restano in panchina a guardare, ed è quel che di meglio da sempre sanno fare –  il mondo si sposta al nord. L’ondata vichinga paventata dalle varie “Famiglia Cristiana e TV Sorrisi & Canzoni” del food si rivela infine meno barbara di quanto proclamato per tetti bislacchi da anacoreti e millenariste Cassandre: “Con loro è la fine del nostro mondo che scende dal cielo”. Aperta la vichinga scatola di Pandora, l’avvento della fine di un certo mondo in qualche modo lo è. Ma attenzione: se CPH passa al momento per la principale capitale della nuova cucina europea, la geopolitica è tanto più mobile della donna dell’operetta del tempo che fu. René Redzepi che rischiò tre quinquenni fa di mettere la chiave sotto le zerbino un giorno sì e l’altro pure (come Bottura, come Chang, come Andoni e come tanti altri di quei ristoranti di creazione a fior di pelle che il cuoco del Mugaritz onorifica giustamente di “sistemico errore”), vede Copenaghen diventare, nel corso degli anni e degli eventi, delle amicizie degli amori, non più solo la città della Sirenetta. Bensì terra d’approdo dell’esule gioventù senza frontiere in cerca di nuovi lidi dove piantare tenda e metter su famiglia. “Vengono da tutto il mondo, dal Sud America, dagli States e dal Giappone. Ma per gli europei del sud, per gli italiani, per gli spagnoli, e da poco pure per i francesi  che mo’ bussano alla porta pure loro – una rivoluzione! – venire a vivere a CPH ha anche una connotazione politica. È il brain drain dei talenti, dei cervelli, che postulano tutti da Noma… well… perché è Noma. Ma anche perché siamo in Danimarca dove, nonostante tutte le sue tante politiche contraddizioni, si trovano ancora gli ultimi barlumi del welfare state. La mutua funziona, i congedi di pa/maternità ci sono, le strutture funzionano e tutti pagano volentieri le tasse perché i salari son più elevati che dappertutto altrove in Europa”.

Vedi Napoli e poi muori. Fai Noma… e poi che fai del resto della tua vita? Per gestire un patrimonio e vivere di prestigiosa rendita, René Redzepi fatto non è. Per questo, all’apice del successo, nell’orgasmico climax della confusione generale, col cielo infranto sul capo dei farisei osteggiati dai Mercanti del Tempio, René Redzepi decise di abbonarsi, lui appena appena neoquarantenne, alla rivista “Ciao Giovani!”. Prendendo in prestito il titolo di una sua celebre rubrica: “Fermate il mondo, voglio scendere”. L’avete notato? Lui non lo vedete più a far in giro lo scemo. Col cazzo che viene a perdere tempo dai soliti moribondi congressi. Resta a casa, sta in famiglia. Con quella vera (con la Nadine, le tre figlie Arwen, Genta e Ro, più Benta la suocera psicologa tutti i giorni attiva sul terreno da Noma e mo’ dall’inverno scorso pure il cucciolino) più quella creatasi nel corso degli anni. A 42 candeline il prossimo dicembre, pare abbia già fatto la sua bucket list. Mira al sodo, non perde più tempo. E se non socializza più di tanto – non l’avete mica visto la sera della prima dei World Restaurant Awards a Parigi, né a Montpellier al vernissage di Cook Book ’19 né tantomeno al lancio dell’European Food Summit di Ljubljana – è che, se assentarsi dal lavoro a casa ogni tanto si deve, meglio allora far quarantotto. E scomparire per quasi cinquanta giorni in una remota hacienda messicana tagliata davvero fuori dal mondo “senza internet né ricezione cellulare”. Per ritrovarsi, calmare i bollenti spiriti. Fare sport e meditare.

Perché ogni volta che facciamo un giretto con lui visitando il cantiere sempre in progress ma non più a cielo aperto del nuovo Noma battezzato Noma 2.0 – ah si?… non ve l’avevamo detto che Noma ha traslocato? E che dal 15 febbraio 2018 non è più al vecchio indirizzo di Strandgade? – lui, René, facendo strada termina la visita guidata lasciandoci ammirare l’ultimo tocco apposto alla sua nuova creazione (ma è lì che, inconscio docet, avrebbe voluto condurci a inizio passeggiata). Una cabina tutta di scandinavo legno e dal rotondo tetto tanto tondo quanto la finestra a far da quarta parete aperta sulla verde danese campagna circostante. Un’abitazione da Hobbit del Signore degli Anelli che è la sauna dove René e Nadine terminano ogni mattinata. E dove sfilano uno a uno tutti i membri del personale. “È una sauna messa a disposizione di tutti. Perché fa bene al corpo, ti elimini le tossine, ti aiuta a meglio pensare. A concentrarti prima dello sprint del doppio servizio serale”.

Perché per dirla con le stesse parole che il danese impiegò davanti alla rapita congregazione femminile di Parabere della nostra cara amica Maria Canabal “non mi interessa affatto fare di Noma il miglior ristorante del mondo. Ma voglio che Noma diventi davvero il miglior ristorante al mondo per lavorare. Facciamo 18 ore al giorno, la concentrazione allo zenit, l’errore non è concesso ma l’improvvisazione è benedetto pane quotidiano: per parare a tutti gli imprevisti creativi della vita d’un ristorante. Se non ti senti bene con te stesso e con tutti gli altri, se lo stress ti sega le gambe nonostante le buone vibrazioni che alimentano l’energia comune, se lo spirito di famiglia non è forza collettiva e sentimento di protezione, allora per me lavorare in un ristorante non ha senso. Noma è una famiglia, una comunità” fa Redzepi che ironia del caso ha proprio trasportato la sua comune alle limitrofe porte di Cristiania, il villaggio all’interno della città, la società nella società, che fu l’apogeo della cultura hippy. Chissà che effetto fa agli attempati figli dei fiori d’essere a due passi dal più celebre ristorante del mondo dove miliardari e potenti, gastromaniaci compulsivi e bulimici d’esperienze, studenti e nullafacenti in cerca d’epifanie fanno tutto l’anno i Re Magi in pellegrinaggio a Betlemme.

Le pietre per cortesia gettatele nel laghetto dirimpetto, non buttatecele appresso. Tanto non saremo noi a farvi graziosamente la visita guidata. Mirate semmai le bellissime foto di Michael Jepsen. Ha calzato gli stivali delle sette leghe sudando davvero altrettante  camicie  per correre tutta una giornata intera ­– esagitato! – Facendosi il Noma 2.0 dall’alba a notte fonda d’un lunedì 7 gennaio. No, non saremo noi a spiegarvi che in questo angoletto del laghetto di Christiania che forse volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di terre piatte piatte a dieci minuti appena di pedalate in bicicletta e neanche venti a piedi dall’antica location (fuggite dai taxi o voi che ci pensate: da quando il governo ladro ha dichiarato Uber illegale, spostarsi con un quattro ruote vi costa più di un occhio della testa) il nuovo Noma testa tutti i limiti della nozione del ristorante. Chissà perché tra legni preziosi e nobili materiali ci son oggetti e cianfrusaglie dell’immaginario collettivo (ricordini dai pop up in Messico e in Giappone, i gusci degli abalone riportati dall’Australia per intarsiare tavoli e mattonelle) e i quattro cubitali blocchi di cemento scompaiono dietro le enormi vetrate rifrangenti l’acqua del laghetto. Fatichiamo a ricordarci di quel pomeriggio tra due servizi quando, cinque anni fa, coricati ginocchia su mento nel redzepiano cargo bike normalmente destinato ai pargoletti, René frenò la bicicletta davanti a un bunker imbrattato di graffiti, siringhe e resti di falò al suolo, facendo tale quale il capitano d’industria colla prole “Figlio mio tutto questo un giorno sarà tuo: ti presento il posto dove creeremo il Noma next level”.

Cinque inverni più tardi, in questo 7 gennaio di prove generali per presentare a fine giornata a un convocato seppur ristretto gruppo di amici, colleghi e cugini lontani e vicini il nuovo menu Seafood, Noma pare sempre più un’entità sfuggente. C’è chi farebbe piani cinquantennali e chi invece ti sorprende sorridendoti disarmante “tra dieci anni Noma cosa sarà? Non ne ho la più pallida idea. Davvero. Quel che so è che il Noma 2.0 è stato costruito per poter essere modificato in 24 ore in qualsiasi altra cosa. Magari tra dieci anni ne avrò abbastanza di dirigere un solo ristorante. Magari mia figlia Arwen che ne ha undici adesso, ma già tutti i week-end viene a lavorare al ristorante, vorrà prenderlo per farne una cosa sua. Tutto può essere ribaltato, il luogo unico frammentato in varie, diverse unità. Potrebbe esserci un fiorista, là un forno e là dove c’è l’altra test kitchen, un bistrò di zuppe asiatiche. Siamo, come dicono i media, una fattoria urbana, abbiamo la serra, abbiamo piantato erbe e fragranze, ma davvero… chissà cosa faremo, cosa ci sembrerà giusto fare tra qualche anno. Noma 2.0 è nato così anche per rispondere a questo amletico dubbio: chi e cosa vorremo essere tra un decennio. Di sicuro non lo stesso ristorante”.

Niente è vero, tutto è possibile, ammoniva il vecchio saggio Burroughs. Vero però è che il Noma burrasca e tangheggia divertendosi al massimo, mantenendosi in equilibrio tra mirifica perfezione e obbligo di parare al ben visto imprevisto. Visto che non spetta a noi blaterare sui piatti, per quello leggetevi i libri di Redzepi, mirate Instagram o studiatevi le ricette qui accanto, lasciateci almeno ponderare a voce aperta su un paio di filosofici punti col Great Dane a portata d’orecchia. Exit da tempo la carta, exit pure il degustazione a rotazione. Oramai Noma presenterà solo tre menu all’anno. Per concentrarsi sui prodotti al meglio dell’espressività. Il pesce, i crostacei e i più giurassici mostruosi frutti di mare quando le nordiche acque, da gennaio a maggio, son più gelide e loro al top del top. Da fine maggio a fine settembre Noma poi affina solo l’ottica vegetale, erbe, verdure, fiori, radici e tutto quel che cresce e che si può ruminare escludendo radicalmente le proteine animali. Per poi ritrovarsi per il menu Ritorno dalla Foresta, da settembre a fine anno, le bisacce piene di ben di Dio, di funghi e di cacciagione, di renne, alci e anatre selvatiche. Mentre voi leggerete queste righe e i pochi fortunati (40 a servizio) assaggiano l’ittico selvaggio menu invernale, l’equipe starà già preparando la prossima collezione fine primavera/estate 2019 interamente vegetariana.

Tre collezioni all’anno, di che prendere l’abbonamento e chiedere la carta fedeltà. “Se vuoi sapere cosa bolle in pentola da Noma, devi venire tre volte all’anno. Le tre esperienze sono complementari ma completamente differenti”.

Noi nel frattempo torniamo sui banchi di scuola. Beati i fuori corso purché tuttora iscritti: basta presentare la carta dello studente per poter postulare alla tavola da quattro riservata loro ogni sera. E alla formula tutto compreso, stesso menu e stesso wine pairing, per l’equivalente di soli 150 euro. “Ci copriamo appena i costi dei prodotti, ma i giovani oggi nullatenenti saranno i nostri veri clienti domani. E poi chi ha voglia di fare da mangiare sempre per i soliti ricconi che girano per i ristoranti blasonati?” socialeggia Redzepi come il John Steinbeck di The Grapes of Wrath (in italiano Furore).

E a ogni doppio servizio serale (“ma stiamo pensando di aprire il sabato a mezzogiorno e poi chiudere dalla sera sino al mercoledì successivo. Ripeto niente è fisso qui da Noma, né i ruoli di ciascuno né le giornata d’apertura”) son flussi di pensieri, ondate d’intensità, tensioni muscolari e corse contro il tempo. E ogni volta che aprite la porta dell’entrata e vi ritrovate tutta, dicesi tutta la brigata, ad accogliervi gridandovi addosso “Irasshaimase” neanche metteste piede da un sushi kan giapponese, vi viene il magone in gola. Il tempo di asciugarvi la lacrimina che vi inumidisce l’occhio, e son già partiti, tornati ai fornelli, pronti a coreografare di nuovo il saluto del benvenuto per i prossimi ben arrivati.

Sorriso beato e pugno di ferro, è la norvegese Mette che dirige la cucina con James ufficialmente candidato, con le sue giacchette strette alla vita, al titolo di più elegante maître (dell’universo) da quando Juli Soler di elBulli non è più. E mentre Mads Kleppe il sommelier orchestra i suoi flights di vinelli e di vinoni, ma più daltonico dei Dalton, piglia su solo i bianchi (glielo ricordate voi quel che diceva Mao, che l’Est come il futuro è rosso?) René si appresta a scomparire, a tre quarti del servizio, per pedalare nella rigida notte di Copenaghen sino a casa (ma  per la  nostra direttrice Anna Morelli, anche a costo di dover fare un mutuo, è meglio tornare in albergo in taxi). Home sweet home: due pillole di magnesium, un bicchierone d’acqua naturale e poi a letto che c’è Nadine che l’aspetta. Tanto fra poco è già domani. Le bimbe partono a scuola con nonna Benta alle 7.40. E dalle 8 il cortile col giardinetto del conglomerato popolare si trasforma in palestra a cielo aperto. C’è René, c’è la Nadine col coach che li allena sette giorni su sette. C’è Anika e Cat del Noma che iniziano (insieme ad altri amici produttori e tenori all’Opera House specializzati in Benjamin Britten) la loro giornata lavorativa con la seduta di ginnastica collettiva prima di spedalare (dopo la doccia, i Redzepi sono adepti dei doppi servizi) sino al ristorante. Dopo soprattutto la piccola grande colazione presa tutti insieme col Rice Cooker a tutto vapore, tuorli d’uova marinati, shiitake o bacon spadellati col benedetto vizietto del chilly oil in tutte le salse contratto in Messico.

È questa la famiglia dietro il ristorante più importante – er mejo – del mondo? A dire il vero, se lo chiedete a René, non gliene può fottere di meno. Ben più ambito, da quando fa colare per tutti gli amici, che sono una famiglia, espressi, lunghi e caffè macchiati, il titolo di Best Barista in Town.

E anche se oramai è un segreto di Pulcinella e se Redzepi lo giuriamo non ci ha detto niente, come non pensare a quella spada di Damocle che gli pende sulla testa? Da quando la Rivolta delle Vittime Innocenti ha messo William Drew e tutta la clique dei 50 Best[1] con le spalle al muro, la palla dolente è tornata – ahilui!!! – nel campo del danese. Gli storici parleranno di quella movimentata riunione newyorkese in cui il politburo fu, volente o dolente, costretto ad accettare la mozione collettiva, a nome di tutti i presenti ma anche degli assenti, capitanata da Massimo Bottura. Uscire dalla corsa del numero 1, entrare nella Hall of Fame, senza sporcarsi più le mani (ve le ricordate Le mani sporche di Elio Petri) anno dopo anno, per guadagnare di nuovo la vittoria. Han spazzato via più vite, infranto più matrimoni e polverizzato patrimoni i 50 Best che Attila stesso quando scendeva con i suoi barbari a far la spesa in città. Lifetime achievement o Furono Famosi che dir si voglia per gli Adrià, i Blumenthal, i Roca e i Bottura, gli ex dei d’un dì escono dalla autopromozionale corsa. E lasciano, col beneplacito di Mauro Colagreco, pure lui presente alla sediziosa riunione di NY, il resto della orda sbranarsi per l’agognato trono. E Redzepi in tutto ciò? Ufficialmente sarebbe fuori concorso pure lui. Ma una postilla inviata a fine anno a tutti i giurati dei prossimi 50 Best stipula che se Adrià, Blumenthal, Roca, Humm e Bottura non si possono neanche più nominare (in senso lato e in senso figurato, e ti credo col ricatto che ci hanno fatto!!!), il Noma di Redzepi, considerato come un nuovo ristorante dopo l’annata di chiusura per i lavori di costruzione, entra ufficialmente tra i papabili. Nuovo ristorante o semplice relocation? Cecità filosofica o becero opportunismo per ripiccare allo chef danese che dal giugno 2015 ha preso le distanze (al pari di Alex Atala e tanti altri come lui) dalla controversa competitiva organizzazione inglese? “Che si sbranino tra di loro” concede sorridendo il danese. Lui ha ben altro da fare. Inforcare la bicicletta con la bella Nadine al suo fianco per ritrovare, come ogni mattina prima delle dieci, la propria famiglia collettiva. Da quando oltre alla ginnastica e alla sauna mattutina, prima del vespro e del servizio serale, Redzepi si è dato pure alla meditazione, non si è mai visto più gagliardo padre di famiglia in pace con se stesso e col resto del mondo. Allora, la sanguinolenta competizione… la lascia a quelli che pensano che Zen sia la marca d’una nuova salviettina igienica. Usa e getta.

Posto
Europa/Danimarca/Copenaghen
Noma

[1] ) è la Torre di Babele, il Food Circus dei lobbysti e dei presenzialisti, tale la Great Rock’n Roll Swindle del film di Julian Temple sui Sex Pistols che descrive la giornalista americana Lisa Abend, laureata del World Restaurant Awards per il suo articolo di lungo corso pubblicato sul numero speciale ‘Politica’ di Fool Magazine.


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