“Sono fedele a un’idea di cucina, non a un piatto”.
Le parole di Antonia Klugmann si depositano lievi tutte intorno L’Argine a Vencò, il suo ristorante e bed and breakfast in Friuli-Venezia Giulia. Sono spore che cadono sul prato intorno al ristorante, sull’orto, sul limite del fiume Judrio, sul cantiere della nuova struttura ricettiva che arricchirà l’ospitalità. “Non voglio essere inquadrata in un cliché o essere riconosciuta per una singola prestazione; vorrei che i miei clienti percepissero la mia cucina come un percorso coerente nel tempo; la mia ricerca è una sorta di tensione creativa, un movimento”. Le parole scendono e infiltrano le superfici degli oggetti e del suolo. Si intrecciano in ife non percettibili che collegano le stanze del ristorante, la cucina, gli arredi, gli esseri vegetali e le persone. Attraverso i filamenti, invisibili agli occhi, gli spazi del lavoro di Antonia diventano organici e coerenti, un prolungamento del suo paesaggio interiore.
Ogni cosa qui è in connessione con l’altra e compone uno scenario costruito attraverso plurimi interessi che hanno formato la cuoca triestina, dalla fotografia al design, dall’antiquariato alla botanica. Il piatto è la rappresentazione visibile di un mondo interno, la sua esecuzione estetica non è al di fuori del gesto di cucinare.
“Mi interessa la progettualità del piatto – racconta – nel senso più ampio del termine ‘progetto’. Intendo dire che ogni elemento che contribuisce all’esecuzione di una ricetta, è una sintesi personale soggetta alla casualità. Non indago l’estetica piuttosto studio ogni minimo meccanismo che ne scandisce la sua messa in scena”.


Slegarsi dalla meccanicità estetica fine a sé stessa e quindi dalla serialità della preparazione è alla base del menu Territorio: Vita in Movimento. Si tratta di piatti in cui l’essenza del pensiero di Antonia è messa a fuoco nitidamente. “Non voglio una cucina esibizionista o forzatamente strana. Parto dal concetto che nella cucina si ripetono schemi ereditati. La mia ambizione a essere unica non può prescindere dall’eredità che ho ricevuto dal passato. Sono felice quando una persona si stupisce di un piatto in apparenza già indirizzato verso una sensorialità acquisita dall’esperienza. Allora le domande che mi pongo sono: ‘Qualcuno lo ha già fatto? Sei stata originale?’.
Prendete le Tagliatelle ai funghi, il quinto piatto del vostro percorso. Come fai in Italia a dire qualcosa di nuovo su una preparazione radicata nella cultura di ogni regione? Mi concentro sul mio rapporto con gli ingredienti, le intuizioni passate e le prove svolte in equipe”.

La descrizione del piatto che fa Antonia è simile a un lungo ed affascinante trattato, che aiuta ad approfondire il suo approccio alla cucina. “La tagliatella – racconta – è essiccata a temperatura ambiente per un’ora, è una pasta all’uovo con una certa percentuale di semola. Per impastarla devo avere un determinato numero di giri in macchina perché la consistenza della pasta non è soltanto data dalla percentuale di liquido e dal tipo di farina, ma è anche influenzata dagli incroci che la pasta prende in macchina; ed è fondamentale che sia sempre la stessa persona a far girare l’impasto, perché anche la pasta più banale cambierà se cambia la mano. Su una pasta così sottile gli incroci sono un’arma perché danno ‘dente’ e ‘morso’ però, dall’altra parte, creano opacità perché fanno penetrare l’aria; quindi, ogni giro che fai inglobi aria e al contempo dai ‘dente’. La texture della pasta dipende da questi due fattori ed è fondamentale per legare il sugo dei funghi o meglio della glassa.
All’interno di questa preparazione ci sono mediamente cinque funghi diversi, a seconda del momento stagionale, che non dichiariamo al cliente. Usiamo tutto il ciclo del fungo per non avere sprechi. Questa variabilità, insieme alla tecnica, reca complessità al piatto. I ritagli dei funghi puliti durante la settimana vengono messi in infusione per circa quattro ore con i porcini, gli shiitake e i cantarelli essiccati la settimana precedente. Dopo aver filtrato il brodo, i funghi secchi sono arrostiti in una padella di ferro insieme ai ritagli dei funghi freschi della giornata e ad alcuni pezzi di patata. A questo punto deglassiamo con il brodo di funghi e aggiungiamo i ritagli avanzati della pasta delle tagliatelle. Filtriamo e riduciamo fino all’ottenimento di una consistenza spessa da glassa. Questo è possibile grazie agli amidi della pasta e delle patate ma anche grazie agli zuccheri presenti nei funghi.
La creazione di glasse per i primi con i ritagli della pasta è una tecnica che ho iniziato ad usare l’anno scorso e mi permette di realizzare delle mantecature senza quasi aggiungere grassi”.


Le tagliatelle hanno un impatto aromatico avvolgente e deciso; si percepisce nettamente la terrosità balsamica del sottobosco. L’intreccio tra viscosità del sugo e tattilità della pasta regala una splendida consistenza, armonizzata infine dall’acidità.
Nel racconto della ricetta si percepiscono anche i paradigmi della cucina di Antonia. L’etica del non spreco che porta a usare i frammenti di tutto ciò che è possibile non buttare, il rispetto della iconicità dei piatti della tradizione ma innervati del proprio estro creativo e la necessità immanente del selvatico. Il rapporto con la spontaneità della natura è un tratto ineludibile. All’inizio del suo percorso da autodidatta, all’età di 25 anni, si è immersa nelle Valli del Natisone, lembo orientale della regione, che sono state la scuola dove ha imparato a riconoscere la biodiversità. Appassionata di fotografia, Antonia ha ritratto le erbe a cui era interessata. Da lì lo studio sui manuali che l’ha portata alla conoscenza del mondo vegetale spontaneo. “Negli anni ho sviluppato un peculiare atteggiamento rispetto al selvatico – racconta – non raccolgo niente di raro e credo moltissimo in un concetto di giardino che, per fortuna, ho potuto mettere in pratica qui a L’Argine a Vencò e che si chiama giardino selvatico. Tutto parte dall’osservazione di cosa ti sta intorno e dal concetto di usare meno risorse possibili per farlo crescere; non può essere ordinato e devi fare in modo che quello che ti serve sia quello che ti è utile. Si auto-semina più vicino possibile a dove si può raccogliere. Tutti i fossati lungo il perimetro del ristorante sono alti e sono la parte più stabile del mio prato. Lì, nel tempo, si è creata una biodiversità enorme che è fonte principale della raccolta del selvatico.


Tutte le piante che mi interessano nell’orto stanno andando in semenza, faccio allargare le fasce e quindi ci sono dei momenti dell’anno in cui è tutto disordinato, ma vivo”.
L’espressione giardino in movimento è stata coniata dal botanico e scrittore francese Gilles Clément1; un giardino in cui la pianta non è un oggetto finito ma un elemento che vive spontaneamente la mutazione del paesaggio e in grado di donare felicità. Anche se è un caso che il menu di Antonia si chiami Territorio: Vita in Movimento, vi è un tratto comune col botanico francese nel lasciare che la creatività abbia il carattere della naturalezza. Per qualche anno in cucina non si sono lavorate le zucchine o le melanzane perché non vi era originalità nella loro trasformazione in piatto. Da ciò deriva un altro elemento portante nel pensiero della Klugmann che concerne l’osservazione di sé in relazione alla creatività. Se gli ingredienti non mutano, cambia invece la prospettiva di chi li lavora. Tale cambiamento è dovuto all’esperienza personale, agli incontri e, in generale, alla vita. Con uno sguardo rinnovato, l’approccio all’ingrediente è ogni volta diverso e di conseguenza il piatto avrà quel carattere di originalità ricercato dalla cuoca.
Il Cervo, piatto finale del menu, è un altro esempio del dinamismo creativo che muove la cucina proposta. L’animale è bollito espresso nel vino rosso, servito con bieta e foglie di ravanello. Il palato è afferrato dalla concentrazione della carne e dal connubio con queste erbe che donano amarezza, sensazioni terrose e freschezza.
Racconta Antonia: “Queste foglie e queste erbe che sono nel piatto risultano fondamentali. La bieta è una pianta interessantissima perché diventa perenne. Si auto-semina; è una pianta ricchissima della quale uso tutto.
Nel piatto ci sono anche i semi e le foglie di senape che vengono centrifugati per fare la base. In questo momento sto usando lo shiso (pianta di origine cinese detta infatti basilico cinese; molto aromatica e complessa, ndr) che è sotto quel ciliegio, si è allargato e mi ha invaso una vasca; e poi c’è la foglia della carota che ho nell’orto. Infine, c’è anche la foglia di ravanello agrodolce colto poco prima del servizio.
La difficoltà principale di questo piatto è la cottura espressa dell’animale, sono impegnata nella partita dei secondi in questo periodo e ve lo assicuro: non uso demi-glace, non che sia contraria, in passato l’ho usata, ma ogni piatto ha una sua storia.
Mi sono chiesta: ma perché se faccio un cervo bollito poi devo fare una salsa che lo accompagni? La concentrazione del gusto che ricerco è già dentro il cervo.

Allora ho pensato a una sorta di caramelizzazione, che ricorda l’intensità del cervo al vino rosso nella cucina regionale tradizionale. Mi sono ispirata alle salse giapponesi e cinesi che durano cinquanta anni. Il processo consiste nell’usare i ritagli di cervo arrostito con una tecnica che mi consente di concentrare i succhi del cervo: porto a ebollizione il vino rosso così l’alcol evapora e, una volta pronto, aggiungo all’interno la carcassa del cervo e i ritagli precedentemente caramellati in forno, senza grassi, senza farina, né niente. Lascio bollire per due ore così il vino si addensa e in seguito filtro. La salsa è la stessa da sei mesi e la uso come una madre.
Quindi, l’animale è cucinato espresso dentro questo liquido portato a ebollizione. Tastando il cervo decido quando è il momento di spegnere; il tempo di riposo nel liquido è fondamentale.
Tolgo il cervo e lo faccio riposare e il liquido di riposo che esce lo aggiungo al liquido di cottura che è pieno di succhi della carne; a quel punto lo riduco e ottengo questa glassa di vino senza niente dentro tranne il liquido e i resti di cottura del cervo.
Solo così sono riuscita a ottenere questa densità. È come se fosse un brodo iper-ridotto che al palato dà la percezione di una glassa di brasato: la concentrazione tiene insieme il piatto. Voi avete visto le fettine; erano tutte uguali di colore, ciò è dovuto al riposo dentro il liquido quando ha una temperatura corretta. Poco prima di servire si aumenta, di nuovo, la temperatura del vino; si rimette dentro il cervo, si toglie di nuovo e si fa riposare sotto la lampada incandescente per poi servire. Sono sei passaggi, tutti espressi. Non lo raccontiamo al cliente che deve stupirsi della bontà del piatto. Il bello è che non è una ricetta: in fondo è solo vino e cervo arrostito; non ci sono spezie, non c’è aglio, non c’è cipolla, non c’è sedano, non c’è carota; solo cervo arrostito e vino e poi, appunto, le foglioline. Un’ultima cosa su questo dettaglio vegetale. La senape è nata da un pensiero agricolo. La seminiamo, come sovescio, nella parte che vogliamo destinare a orto l’anno successivo per le sue proprietà di fertilizzante naturale e per l’azione radicale positiva.
Tutta la parte finale dell’orto l’avevamo a senape: era bellissimo così tutto giallo. Ho osservato il paesaggio e ho pensato di usare le foglie come emulsione in acqua e vino per donare un ulteriore stratificazione di complessità al piatto. Tutto qua”.
Dobbiamo tornare a parlare di Clément e del suo Manifesto del terzo paesaggio1. Gli spazi abbandonati dall’attività umana, siano essi selvatici o anche soltanto marginali come i limiti delle aree industriali, sono i luoghi dove abbonda la biodiversità e quindi il principio di vita. Si tratta di un terzo paesaggio perché si frappone tra il civilizzato e il non civilizzato. Terzo paesaggio che evoca anche la cucina di Antonia su un piano pratico e metaforico. In senso pratico perché la cuoca friulana anima la sua cucina di elementi minimi che la natura offre spontanea, si muove lungo i fossati e i boschi dove è necessario saper guardare per raccogliere, dove la stagionalità porge una possibilità di un gusto nuovo da offrire. Sul piano metaforico perché nelle sue esecuzioni vi è un incontro metafisico di scenari complessi. Vi è il paesaggio della cucina italiana, radicato nelle tradizioni più intime e veraci del Paese e fissato nei piatti storici che hanno punteggiato la storia della ristorazione e vi è il paesaggio interiore frutto di esperienze, sentimenti, convinzioni e inclinazioni sempre in mutamento. Da queste prospettive diverse, nasce il terzo paesaggio di Antonia che è una cucina non prevedibile nella quale il rigore esecutivo lascia spazio all’imprevisto o meglio a qualche nuova parte di sé acquisita chissà dove e che si rivela soltanto una volta trasformata in un sapore.
- Manifesto del terzo paesaggio di Gilles Clément, Quodlibet 2005 ↩︎