Infestante agg. [part. pres. di infestare]. – In botanica, erba i. (o malerba o erbaccia), pianta di nessun valore agricolo che si diffonde nei coltivati danneggiando le piante utili, alle quali sottrae i sali nutritizî del terreno, acqua, spazio e luce; in certi casi, prende il sopravvento soffocando le specie coltivate.
Così recita la Treccani. E così, in fondo, abbiamo imparato a intendere quella parola: qualcosa che non dovrebbe esserci, qualcosa di scomodo, di indesiderato, di inopportuno, che cresce dove non è previsto. Qualcosa di fuori luogo. Ma chi decide cosa è fuori e cosa invece sta esattamente dove deve stare? Chi stabilisce il valore – o l’assenza di valore – di una pianta, di un’idea, di una persona? E se il “posto sbagliato” fosse invece il posto giusto?
Questo è il punto di partenza della riflessione di Feral, una startup delle dolomiti trentine che produce bevande fermentate botaniche e analcoliche a partire da ingredienti modesti come le barbabietole, e cha ha già lanciato quattro bevande sul mercato nazionale ed internazionale. Ed è proprio in questa disobbedienza botanica delle infestanti, in questo scarto agricolo, che hanno trovato (o dato?) un valore nuovo alle erbacce, rendendole il punto focale della loro quinta bottiglia: una bevanda fresca e viva, a base di linfa di betulla, ortica, achillea, rafano e verbena. Dal colore rosa chiaro e con una strepitosa bollicina, riuscita grazie a un approccio tecnico raffinato e a un controllo molto preciso della fermentazione (attenzione a non far partire la fermentazione alcolica!), questa bevanda è decisamente al posto giusto.
Ma da Feral, non ci si ferma mai al prodotto, alla mera bottiglia. Perché oltre che essere una startup innovativa, “i Feral” sono prima di tutto un bellissimo gruppo di persone, capitanati dall’inarrestabile Maddalena Zanoni e uniti da una visione e da una forte passione condivisa che ogni giorno prende forma nel loro HQ a Mezzolombardo. E quindi da questa bottiglia, o addirittura prima di questa bottiglia, in parallelo a un lungo processo di ricerca e sviluppo intorno alle infestanti, nasce l’idea di una giornata di incontri e riflessioni con persone molto diverse tra loro, chiamate a raccontare cosa significhi, per loro, il fuori luogo.


È successo il 30 giugno, in un luogo simbolicamente perfetto: il Giardino dei Ciucioi, a Lavis (TN) che del “fuori posto” ha fatto il proprio DNA. È difficile raccontarlo a parole, non è un giardino come gli altri. È un delirio visionario: tra illusione e sogno, quasi un set cinematografico. Costruito in verticale, su una rampa elicoidale, popolato da terrazze e una serra, e con la facciata (e solo quella) di una chiesa neogotica – dietro c’è solo il monte. Il giardino fu creato nell’Ottocento dall’imprenditore, intellettuale e idealista Tommaso Bortolotti. Lo immaginò come un giardino pensile ispirato ai modelli romantici europei, un luogo di bellezza e pensiero, in cui la vegetazione poteva arrampicarsi liberamente tra queste terrazze panoramiche. Oggi, dopo decenni di oblio e restauro, è tornato a vivere. Ed è ancora un luogo che sorprende, che sfida la logica, che accoglie le contraddizioni. In una parola: perfetto per ospitare un evento dedicato al fuori luogo. Tra amici, collaboratori e voci fuori dal coro, ci siamo radunati – con tuoni e lampi minacciosi ma anche magici nel background – per parlare, ascoltare e connettere, ciascuno con il proprio linguaggio.
Ha aperto la conversazione lo chef pluristellato Alfio Ghezzi. Si è presentato in tenuta da trekking, con in mano una sorta di pergamena con appunti stilizzati che ha srotolato mentre parlava, ma senza mai realmente consultarla, e ci ha raccontato di un viaggio a piedi attraverso le Alpi, fuori da ciò che è abitato, nato dal desiderio di isolamento, e dove alla fine ha trovato uno spazio speciale: quello delle foreste e dei boschi. Un luogo dal significato ambivalente: da un lato respingente, bandito, carico di timore e da evitare; dall’altro, profondamente evocativo, quasi magico, con un’aura di sogno illusorio. Attraversando questi luoghi, Ghezzi mostra come l’azione del camminare possa trasformare il nostro sguardo. Permette di rileggere la foresta non più come “altro da noi”, ma come parte di un insieme. In quel movimento, smettiamo di essere individui isolati e diventiamo parte di un collettivo, un assemblaggio in cui la nostra presenza si fonde con quella della foresta e dove il fuori luogo cessa di esistere.



Ha continuato Mario Trimarchi, designer e architetto, constatando che il luogo è una condizione oggettiva: è un indirizzo, un incrocio di meridiani e paralleli. Il fuori luogo, invece, è un sentimento, una condizione dello spirito. Ma in questa conversazione, Mario non si focalizza su uno né sull’altro e porta piuttosto l’attenzione sulla soglia: quel punto che sta tra l’interno e l’esterno, nel territorio della penombra. Non è propriamente un confine, ma un luogo di passaggio. Ci invita a coltivare consapevolezza proprio in questi momenti di transizione, che abitano la quotidianità: “Provate a passare una giornata muovendovi da una soglia all’altra”. (E noi ci stiamo ancora provando…)
Sempre di spazio “al limite” ha parlato Gloria Riggio, ma in versi. Poetessa e campionessa italiana di Poetry Slam 2023, ha raccontato del suo passaggio da Agrigento a Trento – un viaggio dal profondo Sud al profondo Nord – e ha condiviso riflessioni sul margine come luogo fertile, dove possono nascere le cose più urgenti e vitali. È lì infatti, ai bordi, nel fuori luogo, che spesso fioriscono le cose più preziose. Come la poesia che condivide con noi, Rifugio, scritta durante una residenza in un rifugio in Trentino, in cui utilizza il linguaggio poetico come mezzo per rivelare ciò che ci accomuna e per farci tornare a sentire anche il dolore dell’altro – e della nostra terra – come nostro.
Francesco Haardt, astrofisico e cosmologo, ha riportato inevitabilmente il pubblico nel reame dello scientifico, del matematico, che però, a modo suo, è rimasto altrettanto poetico e allusivo. Con delle bacchette cinesi ci ha spiegato la quarta dimensione, quella del tempo, e ha illustrato il concetto del cono di luce: esiste un cono all’interno del quale si trovano tutti i punti “spazio-tempo” che rappresentano eventi che possono aver influito sul presente – il “passato assoluto” – e tutti gli eventi possibili a partire dal presente – ovvero il “futuro assoluto”. Tutto quello che rimane fuori (o fuori luogo?) da questo cono, non ha avuto o non potrà mai avere un effetto sul presente; questo è “l’altrove assoluto”.
Tornando alla materialità, Carla van den Berg, giovane scultrice di origini italo-peruviane-olandesi, ha condiviso le sue idee e riflessioni sul fuori luogo attraverso le sue opere. Per l’evento, ha creato una serie di sculture site-specific – ovvero pensate e create apposta per lo spazio – e le ha posizionate qua e là, quasi da indurre i partecipanti in una caccia al tesoro. Ha replicato quindi il comportamento delle erbacce, che sbucano dove vogliono, che sono libere di essere e di fare, e soprattutto di esprimersi nella loro pienezza. E così facendo, le ha monumentalizzate, spogliandole dalla connotazione negativa e celebrandole per quello che sono. Per le opere ha utilizzato materiali considerati “poveri” – come il gesso, il cemento, o l’acciaio riciclato – creando un altro parallelismo con le infestanti, spesso considerate inutili, inutilizzabili, o di scarto.



Giulia Caffiero, restaurant manager al tristellato Geranium di Copenaghen, ha raccontato invece dei suoi inizi, e del disorientamento nel sentirsi fuori luogo in un posto nuovo, senza sapere la lingua e con il sentimento di non essere presa sul serio. Con determinazione e grinta, è riuscita a ritagliarsi un luogo, e di crearne uno nuovo per lei e per il settore. Così è nato il suo percorso con i juice pairing nel mondo del fine dining, per cui è conosciuta oggi, una traiettoria decisamente improbabile, ma col senno di poi “perfettamente sua”.
E infine, c’è stata Nicolle Boroni, alpinista, che ha commosso il pubblico raccontando la sua storia personale, quando da piccola ha perso la mano destra in un incidente con un tritacarne. Per molto tempo si è sentita fuori luogo, finché ha trovato la sua passione scalando, senza una mano. Oggi si può definire alpinista, anzi deve, avendo scalato le vette che conferiscono questo titolo a chi arriva alla cima. Ha raccontato, con una forza spiazzante, che se potesse tornare indietro, vorrebbe che le succedesse tutto di nuovo: “Mi ha reso quella che sono. E ora so che fuori luogo non significa sbagliato”.
Il fuori luogo è faticoso, ma anche fertile. È uno spazio di possibilità e forse è proprio lì, nel margine, che nasce davvero l’innovazione.
Con la sua quinta bottiglia, Feral invita a cambiare sguardo, a riflettere, a sfatare il fuori luogo. Quel 30 giugno nel giardino dei Ciucioi, con il temporale ruggente ormai sopra le nostre teste, abbiamo chiacchierato, riso e riflettuto insieme, godendoci un calice dopo l’altro di quella combinazione armoniosa e fresca di piante infestanti, con la certezza che non avremo mai il mal di testa la mattina dopo. Soprattutto visto che stiamo ancora cercando di capire le implicazioni dell’altrove assoluto.


