Ai giochetti di società, c’è chi si inventa la professione dell’Influencer, chi si fa chiamare Tastemaker quando altri invocano il titolo di Trendsetter. La mania delle tendenze: il cancro delle ossa che rode il midollo. La Peste dei Millennials, l’epidemia virale dei tempi che si sfracellano contro il muro dell’obbligatorio cambiamento. Chiamatela la Dittatura dei tempi che corrono, repertoriare per stigmatizzare. Controllare per punire. Con la Marine, il Salvini e l’Erdogan che ci portiamo appresso, ogni tendenza è uno strappo allo status quo. Ma non una minaccia, men che mai una critica, semmai un lieve appunto che durerà quel che durerà, dando l’impressione della rottura nella continuità. Perché gattoppardianamente si dia il nulla osta al cambiamento per non modificare proprio niente.
Se chiedete a Jeremy Chan, a scelta:
1) tu fai tendenza?
2) sei tendenza?
3) aho’ di che tendenza ti senti di far parte?
lui di sicuro rabbrividisce un pochino, vedendosi già col codice a barre tatuato sul polso. Pronto per l’uso e la tracciabilità del più pratico sfruttamento.
Ne sa già qualcosa. Fra un po’, non ve ne siete accorti?, gli daranno pure del precursore dell’ultima mania captata dai nostri radar: quella del “negro revival” per fine-diners. Intendiamoci, dietro i qualche peletti erettili sparsi intorno al mento, ha la pelle latte pallido e velo burroso in superficie, che più bianca e soffice non la fai neanche con la Nivea. Sarà la grisaglia londinese ma appurare la parte dell’eredità canadese e di quella cinese, chi dei due genitori ha fatto cosa, chi era un asso della finanza e chi passava invece le giornata nel suo atelier d’artista? Era il papà cinese o fu forse la mamma canadese? Poco importa, Jeremy non scende in dettagli, lui che a trentuno anni di vita ne ha collezionate più dei gatti che poveretti ne annoverano solo sette. Oramai è più inglese di John Ackerley, lo humour sempre in saccoccia, un tempo si portava nel doppiopetto. Tongue-in-cheek, lascia correre. E se gli domandate come mai si è ritrovato alla testa del miglior ristorante nigeriano, lui magari strozzica un pochino quando sente “nigeriano”, poi sorride, annuisce, schiva birichino la risposta, ti fa l’occhiolino mentre si gira prendendo commiato. E sicuramente ci ripensa e allora ti da l’appuntamento, il giorno dopo, due metro e un treno più tardi, a tanti chilometri dal suo lindo ristorante di St. James’ Market, tra Piccadilly Circus e la City. Ovverosia nel posto più improbabile per aprire una tavola d’autore, africana o no. Eccoci quindi il giorno successivo, una bella giornata fresca ma assolata d’inizio settembre, nel quartiere di Peckham.
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Perché qui? Per andare al mercato? Per trovare dei prodotti irreperibili altrove? “Sì sì… certo. Ma anche perché, per dirti tutta la verità, qui a Peckham ci vivo. Mi piaceva farvi vedere il quartiere dove abito. E mostrarvi che se faccio la cucina che pratico e che si basa in modo ragionato sui prodotti originari d’Africa dell’Ovest, è semplicemente anche per l’aria che respiro” racconta Jeremy alle dieci del mattino seduto al tavolino d’un baretto alternativo col suo latte – per noi, un più prosaico cappuccino dalla flaccida schiumetta, in un localino adiacente un muretto tappezzato di flyers annuncianti dei corsi di Boxe Antifa(scista).
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