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Reportage
ristorazione eroica
La Dame en blanc di Rocchette di Fazio
Il processo del disimparare
Da Cook_inc N. 37
La Dame en blanc di Rocchette di Fazio
19 minuti

Un eremo, o quasi. Un borgo in miniatura arroccato su una rupe calcarea, un gioiellino medioevale ormai quasi spopolato. Giornata autunnale, tramontana, contorni limpidi disegnano tutto intorno i profili delle Colline dell’Albegna e del Fiora, alle pendici del Monte Amiata. D’inverno, senza i proprietari delle seconde case, sono 24 gli abitanti di Rocchette di Fazio, di cui 2 bimbi che, se non altro, avranno la fortuna di crescere tra panorami mozzafiato e immersi in una storia che affonda nell’Alto Medioevo. E poi c’è lei, Agata Felluga, la Dame en blanc di Rocchette di Fazio, la castellana del feudo Cacciaconti con la sua trattoria che abita la piazza da cui prende giustamente il nome: “Potevo forse trovare un nome più appropriato? Nome, quello di Fazio Cacciaconti della famiglia degli Aldobrandeschi, che evoca contese secolari”.

Ora la contesa è una sola: non far morire il borgo. 

La giornata ispira una passeggiata tra i boschi e la macchia, inevitabile compendio alla cucina di Agata: “Vedi quel campo? Era il posto preferito di papà per le nostre merende, è stato quel ricordo a riportarmi a Rocchette”. Ristorazione eroica, da coltivare in mezzo al nulla, nell’isolamento totale. Ma la sua trattoria, ne siamo certi, è un buon carburante per rianimare le contrade. Perché Agata, per carattere e formazione, è di quelle persone che sono tendenzialmente portate a fare rete, ad accendere curiosità, a condividere, a cercarsi tra simili. E i simili nel raggio disabitato di parecchi chilometri per fortuna non mancano e lo vedremo. 

Prima cerchiamo di capire chi sia questa splendida quarantenne che sembra uscita da un film francese, la lunga treccia a incorniciarle un volto antico e insieme modernissimo in un mix insondabile di rigore e leggerezza, di quello charme che vorresti tanto rubare alle ragazze francesi. Se ti siedi in un caffè parigino, a decine ne vedi sfilare con quello stile inconfondibile. Già, ma Agata non è francese. È italiana, italianissima e qui non siamo a Parigi anche se in cucina si parla francese con la sous chef, ma soprattutto amica Léa, con la musica perennemente sintonizzata sul canale radiofonico France Musique e il canonico intercalare, francese, francesissimo, oh là là

Léa, acconciatura che sembra uscita dalla penna dell’illustratore Charles Dana Gibson con il volume della chioma sulla parte davanti del volto, è la spalla irrinunciabile di Agata: “senza di lei non potrei mai farcela”. Le Gibson girls: donne ironiche, tipe giuste, in candide divise da chef con i grembiuli blu navy (introvabili in Italia), blu come il mare che filtra sullo sfondo (“I miei genitori sono approdati a Rocchette perché oltre le colline potevano intravvedere l’Isola del Giglio”), maglie a righe marinare, bretoni, of course, nei momenti di dismissione delle divise. Il grembiule Agata lo indossa solo quando sta in cucina, quando esce in sala, nell’eroico su e giù, la divisa è rigorosamente bianca illuminata da un rossetto rosso vermiglio a indicare sicurezza e audacia. Non ama però quei clienti che al primo impatto si prendono la licenza del tu, bisogna sapersela guadagnare la confidenza.   

Dunque, chi è Agata e cosa ci fa nello splendido isolamento di Rocchette di Fazio?

Con il borgo ha un lungo e inossidabile legame. Merito di due genitori illuminati, biologi ricercatori al Consiglio Nazionale delle Ricerche di Roma, che non saltavano un weekend per fuggire dalla Capitale e portare le due figlie nella quiete di questo spicchio di Maremma, poco lontano dalle Terme di Saturnia. Un retroterra cultural-familiare di stampo internazionale: mamma Sandra è nata a Shangai dove viveva con i suoi genitori, la nonna di Agata triestina e il nonno tedesco. “Un’amica di mamma, russa, anche lei di Shangai, cuoca strepitosa, mi ha avvicinato a questo mondo”. Il padre, Babbo Bruno, istriano, invece, è un appassionato di macrobiotica e un instancabile sperimentatore in materia. Tutto questo lascia una traccia di consuetudini mitteleuropee e non solo e spiega in parte la scelta di Agata. Come scriveva Freud, “Il passato agisce nell’ombra”. 

I genitori, che da tempo si sono stabiliti definitivamente a Rocchette, sono stati gli ispiratori del ritorno della figlia, due anni fa, da mondi lontanissimi. “Guarda che la trattoria è in vendita, se ti interessa manda subito un segnale”. Il segnale è arrivato repentino, senza indugi.  Al punto che la mamma ancora non se ne capacita: “Ho sempre desiderato che le mie figlie fossero libere e si allontanassero da casa. Ora, incredibilmente sono tornate”. Raccogliendo a ritroso le briciole del percorso se ne colgono in pieno le ragioni. Racconta Agata che il suo gusto si è formato innanzitutto da cliente assaggiando i piatti dei ristoranti dove nei fine settimana si fermava con la famiglia. “Percorrendo la Cassia ogni volta facevamo sosta in una delle tante locande disseminate lungo la strada, alcune strepitose”. Lo racconta mentre sorseggia una tazza di tè che tiene sempre a farle compagnia: “non potrei vivere senza. Lo uso anche come brodo o per deglassare. Non l’ho imparato da nessuna parte, semplicemente, mi piace”. 

Ma il ricordo speciale è per i tortelli di Corinto all’omonima locanda a San Martino sul Fiora, il suo piatto dell’infanzia. Sono in molti ora a temere che lui e la moglie, superati gli Ottanta, possano abbandonare e “sarebbe una tragedia. I suoi tortelli sono per me ancora un paradigma. Come l’acquacotta di Franca (la vicina di casa, ndr): sono piatti perfetti. Ho deciso di tornare proprio perché avevo in mente la loro cucina”. L’idea di Agata è anzi quella di costruire una rete di ristoratori che ci tengano a preservare un patrimonio di ricette del territorio perché, una volta scomparsi gli attori a custodirne i piccoli dettagli, si affievolirà la memoria di quei sapori. Un’altra esperienza, sempre da cliente, l’ha segnata, ma questa volta di stampo opposto: “Al Plaza Athénée di Ducasse mi sono detta: wow, oh là là! Così si fa”.  

Il tour nelle cucine degli stellati marcherà in seguito il cammino portandola via via da lavapiatti (sì sì, c’è anche questo come in ogni curriculum di ogni giovane emigrato) a chef de partie (“ma smentisco una volta per tutte di essere stata sous chef”) nelle inderogabili maisons di un’educazione gastronomica comme il faut. Dopo la maturità classica in uno dei migliori licei della Capitale, aveva seguito la sua passione per l’arte con studi eclettici al Dams di arte, sceneggiatura, regia. Ma la trama della sua sceneggiatura verrà presto scritta appunto nel suo zigzagare tra diversi templi della ristorazione francese: una tappa nel 2005 da Alain Senderens a Parigi, poi all’Astrance di Pascal Barbot e quindi a Le Chateaubriand di Iñaki Aizpitarte. È lo stesso Barbot a suggerirle un passaggio da Iñaki:

“Tu sei un’artista, mi ripeteva, intendendo con questo che ero un po’ inaffidabile. Un’arma a doppio taglio in quanto da un’artista puoi aspettarti di tutto. Mi chiedeva spesso che cosa volessi fare da grande perché, diceva, uno chef ha bisogno di saperlo: che cosa ci farai ora con la mia eredità? Se guardo a quel periodo mi sembra tutto lontanissimo”. 

Seguono quattro anni a Le Chateaubriand, “Il posto dove mi sono più divertita in assoluto. Ho passato i primi sei mesi a sbellicarmi dalle risate come non ridevo da anni. Tutto era all’impronta, le ricette non esistevano, né erano riproducibili, nemmeno Iñaki saprebbe rifarle. Il passaggio cruciale è stato infatti scoprire che mi potevo divertire in cucina. Eravamo così contenti di cucinare con Iñaki; questo chef pazzo che mi ha fatto intravvedere la possibilità che in cucina ci potesse essere una libertà totale. Basta avere l’ingrediente e olé! La lezione fondamentale di quegli anni è che, oltre alla qualità di ciò che hai nel piatto, è importante anche l’atmosfera che hai intorno. E l’atmosfera de Le Chateaubriand era davvero inimitabile. Ma è un passato che mi sono lasciata alle spalle, ho fatto tante altre cose e non voglio rimanere incatenata a quelle esperienze”.

Succede poi nel copione della vita che ci si infili dove non ci si dovrebbe infilare.

E così l’inquietudine e una storia sentimentale “andata in aceto” la portano a Strasburgo in tutt’altro contesto, quello punk rock, in un mondo sotterraneo fatto di codici criptati. “Mi sono sempre sentita una straniera in Francia e per l’ennesima volta ho fatto tabula rasa”. La nuova scena in cui si cala è quella culturale underground franco-tedesca dove stringe rapporti strettissimi con artisti che danno vita a condizioni di arte diffusa, di collettività creativa, con una carica ribelle che si traduce in musica sperimentale, in volantini, fanzine, manifesti e tanto tanto altro. “Una pausa molto particolare, un modo per prendere le distanze da quello che c’era stato prima”. Lì Agata impara ad allestire scenografie, a fare serigrafie, poster per i gruppi musicali, comincia a organizzare concerti, eventi, e soprattutto a cucinare per questa larga comunità. Grazie alla squadra del Collectif Sin, in Dordogna, conosce Léa che la seguirà poi a Rocchette. “Senza l’aiuto degli amici non avrei mai aperto la trattoria”. Fabbri, artisti, artigiani. “Li ho ospitati e loro mi hanno dato una mano per tutto. Un amico fabbro mi ha fatto l’insegna del locale a mano”. 

A Strasburgo coltiva definitivamente anche il suo pallino musicale. Con la Grande Triple Alliance Internationale de l’Est – il cui simbolo è la Croce di Lorena modificata – entra in contatto con un collettivo artistico e di musica contemporanea i cui membri si riconoscono in maniera esoterica proprio dal simbolo: “Un collettivo spontaneo che segna un’appartenenza, con gente che suonava sotto i ponti, ovunque ci fosse uno spazio libero. Vedevi la croce disegnata sulla porta di un bagno e allora lì sapevi che qualcosa di musicale si stava svolgendo. C’è un documentario su YouTube, con password rigorosamente privata, che ben racconta questo mondo underground”. La visita alla attuale cantina della trattoria, muri che hanno secoli di storia, riaccende le sensazioni del documentario che mostra gli spazi sotterranei utilizzati dai gruppi musicali, ma qui le batterie sono fatte di vasetti di ogni ordine e grado: oignons pickles, citron confit, coing (mele cotogne), marmellate, gelée… e poi fasci di legna per il forno, salami appesi (prodotti da Agata) e vino, tanto tanto vino. “Abbiamo la necessità di conservare perché a Rocchette di Fazio non c’è quella disponibilità di ingredienti delle grandi città”. 

Il flusso di vecchi e nuovi amici che arrivano da Oltralpe intanto non si interrompe, anche se la ragazza vestita perennemente di nero come ogni punk che si rispetti ha lasciato il posto alla Dame en blanc. “Ora è un piacere vestirmi finalmente tutta di bianco”. Resta però intimorita e sconcertata dai tanti arrivi e soprattutto dal tram-tram inaspettato tra gli addetti ai lavori: “Ma in questo momento vorrei solo poter fare la mia cucina senza generare troppe aspettative. Ho il timore che le persone, dopo aver affrontato questo viaggio al di fuori del mondo, restino deluse”. Dice di aver chiuso con lo star system gastronomico, di esserselo lasciato alle spalle e di desiderare solo di poter fare il suo lavoro in totale semplicità e libertà. 

“Non seguo leggi scritte col sangue, semplicemente evito di ri-catapultarmi in un sistema che non mi appartiene più. Purtroppo, ho la sensazione che molti clienti si aspettino un ristorante gastronomico, lo vedo, lo sento, ma non è questo che ho in testa. La mia vuole essere una cucina liberata dal dover essere e dalle attese. Ma ugualmente passo il tempo a chiedermi, a chiedere ai clienti se va tutto bene, se stanno bene, anche ai frigoriferi lo chiedo e Léa mi risponde: “Sì, i frigoriferi ti salutano”. Pur cucinando in Italia, Agata non si avverte come una cuoca italiana. “Mi piace giocare con i codici della cucina stellata, è il mio dado, ma senza costrizioni”. Ama infatti quei clienti escursionisti (e i sentieri di Semproniano e delle riserve naturali dell’Oasi WWF sono un vero paradiso del trekking) che percorrono chilometri arrivando affamatissimi alla Trattoria pronti poi a riprendere il cammino una volta sfamati. “Sono i miei clienti ideali”. 

Il dado della cucina stellata è in effetti ovunque, un sacco di pepite interiorizzate.

E chi non sa cogliere queste pepite forse non si merita Agata. “Due delle cose che ho imparato da Pascal (Barbot) sono l’interpretazione e la psicologia dell’ingrediente, vengono davanti a tutto, bisogna procedere al contrario, à rebours, la gestualità, il rispetto, come tocchi le foglie di un’insalata e questo va al di là della tecnica e nessuno te lo insegna mai. Tra due foglie di insalata ce ne sarà sempre una che avrai più voglia di servire”. 

Lo dice mentre accarezza le coeur de la salade che poi bagnerà nel succo d’arancia. 

Agata vorrebbe solo continuare quella tradizione di buone cose che una volta costellava questo territorio, cose fatte con arte e cuore e che i tempi stanno spazzando via, un recupero della semplicità appena condito con quello che la modernità ha insegnato ma come puro sottofondo, trama sottesa che non si deve vedere, dissimulata, nascosta.  “Il mio è il processo del disimparare, abbandonando ciò che mi teneva ingabbiata. Aver traslocato in questo posto ha significato per me una introspezione a gogo. Non ho mai imparato così tante cose in così poco tempo e in un voltaggio così intenso. Senza terapia ho cominciato a comprendere ciò che non potevo capire prima. Da tutti i feedback positivi che ho ricevuto ne dovrei a questo punto ricavare di smetterla con il mettermi in causa. Sono come mi vedete e come quello che assaggiate”.

Non a caso la tecnica a cui è più affezionata è quella della pasta fresca: “È di un sexy oltrefrontiera, è un date, un incontro romantico”. Tutte le sue ricette sono all’apparenza semplici, ma a renderle speciali è la mano, il tocco, l’esperienza. “Anche per fare la pasta serve un tocco, è proprio lì dove hai la sensazione che tutto possa cambiare”, i Pici, per esempio: farina di grani antichi, sale, un filo d’ olio e acqua bollente “ma bisogna lavorarli poco per quella tendenza dell’impasto a seccarsi, a screpolarsi, devi sentirli, soggiogarli”. Tutta questione di sensibilità, che avverti nei Maltagliati verdi, ravaggiolo e nocciole; nei Tagliolini ceci rosmarino; nelle Tagliatelle al ragoût; nei Tagliolini neri alla bottarga. O nelle Pappardelle condite con la salsa verde preparata con farina di mandorle e prezzemolo. A completare il copione dei primi maremmani, gli Gnudi biete e pastorino, gli Gnocchi burro e salvia, l’impareggiabile Acquacotta che ha tutta l’intensità del sedano e di una ricetta che viene dal passato. 

“All’inizio volevo fare cucina vegana poi mi sono ricreduta. Pare che in questo mondo non si possa fare a meno della carne”. La tecnica per la cottura delle carni, e in particolare dei volatili, è tutta farina del sacco di Barbot, rigorosamente fatta sull’osso. 

Già, la carne, e che carne!

Quella di Agata viene dagli allevamenti della Tenuta Aia della Colonna, 240 ettari a Roccalbegna tra il Monte Amiata e la Costa dell’Argentario. Alla famiglia Tistarelli Agata è legata sin dall’infanzia. Il loro è un agriturismo vero (quale miglior definizione?) che combina un’agricoltura eroica a una ristorazione altrettanto eroica. Anche in questo caso tutto si basa infatti sul tam-tam, non certo sul passaggio e chi per arrivare sfida le curve, le strade strette e impervie, la quasi mancanza di segnalazione può chiedersi infine se ne valesse davvero la pena. Eh, sì che ne vale la pena. Già vedere le mandrie di mucche maremmane al pascolo come in un quadro dei Macchiaioli è un’esperienza. Poi ci sono gli incredibili salumi, dal salame al finocchio, ai salami di cinta, alle pancette, al prosciutto, alla salsiccia stagionata, al lardo… I maiali di Cinta senese vivono liberi negli enormi spazi della tenuta. La Spalla di maiale con la pancetta cucinata da Agata trae da questa materia prima il suo splendore che si accende di tante invisibili microtecniche: avvolta in foglie di fico ha una lunga e lenta cottura, ma non sottovuoto. La pancetta che la accompagna è cotta per mezza giornata in una miscela di latte e tè con ginepro e alloro poi raffreddata nel suo liquido. Le due parti, spalla e pancetta, sono poi unite da un tocco di jus de viande, polvere di olive nere e choucroute

“Sì, un sacco di occhiolini, non per nulla sono stata a lungo in Alsazia e le mie patate sono per forza cotte nello strutto”. Sul pass sono schierate tutte le polveri, le sue pepite di sapore: verbena, agrumi, zaatar, sommacco, dukka… “Oggi le polveri sono spesso una scorciatoia con accostamenti senza costrutto, c’è una libertà senza rigore, ma bisogna saperle interpretare”. L’insegnamento di Barbot per quanto riguarda le spezie è comunque indelebile. La polvere di mirto sparsa sulle fettine di Salame è per esempio un tocco inaspettato che accende la curiosità e l’appetito. Idem la polvere di elicriso sul pecorino e le pere. La Cecina e hummus alle cicerchie cosparsa di cumino, zaatar e sommacco è un affondo mediorientale. Tutto alla trattoria fila via in semplicità: la tagliata, che da queste parti è una sorta di credo, lo è ancora di più con la carne dell’Aia della Colonna. Idem l’antico Peposo. Vera trasgressione la Cotoletta di pollo con le frites che va (ma va?!) alla grande. Il suo Baccalà con la polenta è invece consacrato dai profumi intensi di alloro. Le erbe della macchia sono una sorta di corollario a tanti piatti, come le polveri e giustamente dei dessert. Come nel Gelato al miele di marruca con i tozzetti e la polvere di foglie di fico

Il Sorbetto di uva fragola con gelée di fragola e uva essiccata e tritata attinge alle provviste della cantina. I gelati di Agata sono preparati senza stabilizzatori né additivi. Il suo liquore alle erbe è un compendio di tutte le essenze disponibili: elicriso lavanda timo alloro erba Luisa basilico menta rosmarino… Del resto guardi il paesaggio e il paesaggio ti entra nel piatto.

“La cosa che bisogna davvero apprendere è arrivare in cucina sereni. Se io sono serena, la squadra è serena”.

La squadra per la verità è all’osso. 

Al momento della nostra visita, in cucina sono appunto in due, lei e Léa. “Qui tutte facciamo tutto, laviamo i piatti, puliamo i pavimenti e tessiamo la trama stagionale dei mesi, scritta poi sulle lavagne”. L’indicazione ai clienti è di fotografarsi il menu alla lavagna, senza QR code, “ma già questo scombina. I dolci? Vi alzate e leggete la lavagna”. 

In cucina la musica classica accompagna ogni momento della giornata e per capire l’amore per la musica di Agata, ereditato dai genitori e coltivato ovunque compreso le band strasburghesi, basta affacciarsi nel suo appartamento privato sopra al ristorante (privilegio che abbiamo avuto) con le pareti tappezzate dalle collezioni di vinili raccolti in ogni tempo e in ogni dove e con una predilezione per Miles Davis. Dalla cucina la musica si irradia alla sala. “Mi sono accorta del potere dei suoni che escono dalla cucina, Schubert funziona sempre quando vuoi che i clienti se ne vadano. E del resto tutte le ricette hanno una liaison con la musica, sono ritornelli, racconti d’infanzia, “questa è l’armonia che cerco”. Con Léa si sono conosciute in ambito musicale ed è la musica probabilmente il forte collante della loro amicizia.

Léa, che ha studiato canto al Conservatorio e Creazione industriale all’École Nationale Supérieure di Parigi, ha compiuto anche una traversata atlantica in barca a vela: “Cucinare a bordo c’est geniale, la cucina è come una cambusa”. E in effetti tra pentole e vasetti l’ordine è maniacale, né potrebbe essere diversamente, essendo gli spazi quelli appunto di una cambusa. 

L’avventura di Agata e Léa riguarda anche i vini. 

È all’Astrance che Agata mette a fuoco la sua passione per i vini naturali grazie al mitico sommelier Alexandre Jean (incontrato per la prima volta da Senderens). “Non sapevo molto dei vini naturali, ma soffrivo di terribili emicranie e mi sono accorta che potevo berli in tutta tranquillità. Fu l’equivalente di un Eureka, un’epifania: il gusto del vino, vero, senza filtri. I solfiti sono come degli scogli insormontabili per me quando assaggio dei vini convenzionali, ho l’impressione di dover andare a cercare il profumo e l’aroma del vitigno con la torcia e spesso non lo trovo”. Alexandre Jean con Barbot creava alchimie sorprendenti. Pascal aggiustava i piatti in base alla scelta dei vini fatta dal cliente su suggerimento di Alexandre e gli abbinamenti erano talmente perfetti da risultare persino prevedibili. Il vero sisma, dopo Alexandre Jean, è arrivato quando ho conosciuto Sébastien Chatillon, brillante sommelier de Le Chateaubriand, indiscutibilmente un genio, che elimina il paradigma degli abbinamenti tradizionali cibo-vino e serve lo champagne con un filet de boeuf. Al posto dell’abbinamento, un contrasto e uno stimolo potente finalmente, per le papille gustative (e per la materia grigia). Una scossa salutare, una ginnastica. E sì, un gioco! Finalmente”.

Con i produttori di vini naturali e biodinamici sta creando una magnifica rete. Nella sua carta tutta al naturale non mancano ovviamente gli alsaziani come quelli di André Kleinknecht, i vini del Jura, ma anche gli ungheresi (“Robin, un vino bianco frizzante è la bollicina del momento”) o i rumeni. Ma la parte del leone è svolta dai maremmani del grossetano con il terroir del Monte Amiata e con un feeling del tutto particolare con i Gradoli boys, i produttori del Lago di Bolsena, il terroir del catino vulcanico a soli 45 minuti da Rocchette. “Ho deciso quindi di esplorare il territorio, di qua e di là del confine tra Toscana e Lazio, grazie all’aiuto fondamentale del mio distributore di vino Bibo Potabile, basato ad Arezzo, il quale mi ha presentato Massimo di Cantina Ortaccio di Latera, con vini come il Confuso – frutto della collaborazione con l’azienda umbra Il Pulaio di Daniele Fuso – un vino frizzante da metodo ancestrale. Ma anche i bravissimi ragazzi di Il Vinco di Montefiascone e la straordinaria Joe Kull, svizzera, cresciuta nel Connecticut, innamorata dell’Italia dove ha realizzato il suo sogno di vignaiola sposando un pastore di Gradoli”. Le etichette dei suoi vini sono realizzate dall’autore illustratore Jamison Odone e rappresentano una pecora coinvolta in una fase di vinificazione. Una metafora di mondi che si uniscono. 

Con loro Agata organizza spesso piccoli eventi e degustazioni e ha anzi in mente un microfestival del vino. “Mi piacerebbe organizzare tavole rotonde su temi scottanti come quello, per esempio, della appropriazione culturale (trattato anche da Cook_inc. 34)”. Sono tutti personaggi che meriterebbero ognuno racconti su racconti. E che hanno stabilito una straordinaria liaison con Agata. Forse un altro Collectif!

Posto
Europa/Italia/Toscana/Grosseto
Trattoria Cacciaconti

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