Reportage
protein obsessed
IAR! IAR! laiv from Anne_Sciiar!
Un’esperienza esperienziale a Ynyshir, il ristorante di Gareth Ward in Galles
Da Cook_inc N. 33
IAR! IAR! laiv from Anne_Sciiar!
18 minuti

Dedicato a Mariella e Moreno Cedroni la coppia gourmet più avventurosa dell’italiano Reame (così lui, invece della Svezia e della Danimarca, per le ferie di novembre magari porta la sua first lady proprio da Ynyshir).

Dei tipi che mettono sul loro portale una sorta di reclame pixellata – meglio d’un bigliettino da visita – che dice grosso modo così: “Fate attenzione, Ynyshir non è la scelta più oculata per una riunione d’affari e neanche per una prima scappatella romantica”, non avreste voglia di abbracciarli pure voi? Con i mercantili tempi che corrono, in cui si vende e si baratta tutto, la mamma, la nonna e pure la buona coscienza, gente che come preambolo fa “se volete venire per non fare attenzione a quel che vi serviamo, giusto per discutere di soldoni, o per darvi al petting preliminare sotto la tovaglia prima delle lenzuola, vade retro che è meglio se restate a casa vostra” è derrata tanto ma tanto rara. Che vale oro. 

Chiarifichiamo: Ynyshir, dal gallese all’inglese si direbbe “big island”, un’isola tagliata fuori dal circostante mondo. Per arrivarci tocca sudar sette camicie. E calzare gli stivali delle altrettante leghe. Tra mare e montagna, persa nella verde campagna, celata dai più e da tutto, sarebbe rimasta un segreto ben conservato non fosse stato per la spifferata della Michelin all’inizio di quest’anno. Due stelle per un ristorante dall’impronunciabile nome (ripetete con noi: “anne-sciiar”), nel Galles non s’erano mai viste dai tempi d’Adamo. Che poi alla fine, parliamoci chiaro, mero ristorante non è. Di sicuro, hotel con ristorazione neppure.

Chiamiamolo semmai restaurant with rooms.

Sono neanche una decina, una mezza dozzina nella centenaria casetta tutta di nero pittata – un po’ Stranger Things stagione 4 – le moderne suites nello stabile adiacente, più i tre teepee indiani che campeggiano totemici nel giardino con docce e sanitari in comune, ma con jacuzzi e stufe a legna privati, per coloro che agognano un’esperienza nature a quasi metà prezzo. 

Sappiate però che anche se optate per il comfort tra le quattro storiche mura, le porte di Ynyshir si dischiuderanno per voi per una notte soltanto. È un one shot, una botta da one night in a lifetime. Come dire: un’esperienza esperienziale, per utilizzare un termine che fa ultimamente tendenza. Ma la posta vale la spedizione. Il Graal non vi aspetta appena fuori porta. Vi ci vorrà, come minimo, un aereo o per Londra o per Birmingham. Se non siete motorizzati, contate cinque ore da ambo i due punti di partenza, armatevi ordunque di pazienza e d’un buon libro e issate i bagagli sulla prima littorina in partenza per Shrewsbury. Poi da lì traslocate sul benedetto interregionale, quello che ferma ovviamente a tutte le stazioncine. Contate un altro paio d’orette e qualcosa di più prima di arrivare a Machynlleth (per la pronuncia questa volta non possiamo aiutarvi). Di che dare tempo al tempo prima di sbarcare. E di notare cammin facendo che i pannelli e le segnalazioni ferroviarie ritmanti le fermate oramai si son fatti double face, nella doppia lingua inglese-gallese. Certo, ci sarebbe pure un’altra stazioncina più vicina a Ynyshir, incredibile ma vero; è tuttora in uso, ma il circondario – più protetto d’un parco naturale dal logorio della modernità – nega l’accesso in ferrovia ai veicoli motorizzati. Quindi, se avete la flemma di trascinarvi per quindici minuti a piedi i vostri bagagli, Rimowa o Eastpack in tela impermeabile, chiamate in gallese il primo taxi disponibile che vi porterà, in sette minuti cronometrati, da Ynyshir. 

Gareth Ward è lì che vi aspetta, ma senza tanto farsi vedere. Non che sia uno ritroso, semmai un Gigante Buono per niente stizzoso, solo tanto timido, non una di quelle primedonne che amano mostrarsi; fare lo smargiasso – lo smartass – non è l’indole sua. Alla sovra-esposizione mediatica preferisce la modestia, un passo indietro dai lazzi e dagli intrallazzi. Tutto casa e bottega, abita con la sua danese congiunta Amelia, proprio accanto. Si cela ai più dietro il bancone della sua cucina aperta, postazione che spetta – per dirla col Pierangelini – a ogni cuoco che si rispetti. Se si mostra già poco, parla pure meno. È la sua cucina a dire tutto per lui. 

Un perfezionista, un maniaco che non lascia nulla al caso. Neanche alla bomba, quando apre infine la bocca, che scoppia come un manifesto d’intenti.

“Io cucino per me, mica per i clienti”.

Lasciate ordunque ogni political correctness o voi che entrate. Adeguarsi all’oste qui si deve. Che padrone di casa, con le sue fissette e i rituali sedimentati dalla decennale vocazione, è. Allora, tanto per non partire col piede sbagliato, per non inficiare le tacite regole dell’ospitalità, non sbarcate da Ynyshir quando cavolo pare a voi. Le regole son fatte per essere alla lettera rispettate. Il pellegrino qui è bene accetto solo alle 3pm in punto e non prima. Tre come i trois coups di bastone che battuti sul palcoscenico davano, in altri tempi, inizio allo spettacolo. Ci fosse ancora il rimpianto Luca Ronconi, avrebbe approvato la teatralità della regia. A quell’ora, la prova generale fa officio di prima, sfilano allora a uno a uno tutti gli attanti, ovvero noi e voi che arriviamo sul proscenio per il rituale della Comunione, la moltiplicazione non del pane e del pesce, ma della zuppetta di cipolle, di certo non quella che i turisti si sbafano a Parigi tra due crêpes a Saint-Germain. 

La nipponica ciotoletta del benvenuto No French onion soup è condivisa dalla congregazione appena riunita, 22/24 persone, soli convivi eletti e accolti a ogni serale rappresentazione. E mentre si fa un boccone della zuppetta non zuppetta – più precisamente un chawanmushi giapponese, variazione sul tema della custard con panna e rossi d’uovo, fegato d’anatra cured per l’effetto foie gras, cipollotti freschi, erba cipollina e olio (ovviamente di cipolla) – comincia a farsi strada la rivelazione che il no choice menu qui da Ynyshir è portato ai massimi livelli. Qualche indizio ci aveva messo la pulce sotto l’inquisitivo naso: l’iscrizione murale, appena dopo l’entrata, dichiarante nero su bianco:

Ingredient Led, Flavour Driven, Fat Fuelled, Protein Obsessed”.

Talmente chiaro che può fare a meno di qualsiasi traduzione. Gaudete, gaudete e ritenetevi fortunati, questo è il solo storytelling che sarà imposto come chiave di volta e di lettura della vostra venuta nell’eremo gallese. Meditate, gente, meditate per le due ore concesse a vostra disposizione. Dalle 3:30pm alle 5:30pm, lo spettacolo si trasporta nel vostro più profondo io interiore. Due ore di ritiro in camera o in giardino. In ogni caso, fuori tutti dai piedi a badare agli affari vostri, per l’esercizio spirituale e/o di meditazione trascendentale di preparazione alla Grande Messa che tra due ore in punto avverrà. 

Attenzione, non si scherza, roba seria e tanto Heavy Duty ‘sto Ynyshir è. Fra 120 minuti esatti non meno di 27 piatti, magari anche più, vi aspettano al varco, ripartiti per prodotti, tecniche e ispirazioni. Neanche provateci a dire che a voi la fettina di vitella piace ben cotta. Mica si transige con le eccezioni.

Gareth Ward lo fa sapere come anteprima: Ynyshir ama il burro, il grasso. Se siete a dieta, lasciate stare. Qui si celebrano unicamente le proteine animali: che i vegetariani non varchino la porta di casa.

Se avete allergie, se peggio che andar di notte – oh poveretti voi! – siete addirittura gluten free, passate via che Ynyshir non fa per voi. Se pensate addirittura di venire qui per iniziarvi ai corsi d’aggiornamento culinario del gallese patrimonio, la doccia fredda vi coglie di sorpresa, più ancora d’un ice bucket challenge, prima ancora di passare a tavola. Quando alle 5:30pm – mi raccomando siate puntuali nel salotto degli aperitivi – a uno a uno tutti gli ospiti son invitati a contemplare, nel refrigerato scrigno segreto celato all’interno del desk all’entrata, i prodotti dalla a alla z che saranno, da lì a poco, celebrati. Che del Sangue Blu, son tutti Siori, c’è mica gentaccia! L’Astice, gli Scampi, i Carabineros e i Gamberoni. Il Granchio e le Capesante e pure il Caviale. Compreso il Tonno Bluefin, l’Anatra, il Maiale, l’Agnello, il Wagyu e le Animelle. 

Eccoci tutti aperitivanti riuniti nel salottino come nel penultimo capitolo d’un suspense alla Agatha Christie. A un tiro di schioppo dallo scoprire che, per una volta, il maggiordomo è innocente. Il principale sospettato è latitante: non c’è neanche un capelluto hipster, uno di quei tanti che si fan crescere l’incolta barba mentre gonfia il lievito madre. Zero sourdough, neanche un tocco di pane vi accompagnerà sino al termine delle quattro ore programmate prima del post-prandiale arrivo. Solo un mascalzoncello di Granchio ben piccantoso si presterà all’esercizio del companatico cinto da un bun cotto al vapore e poi fritto; un vezzo che, alla faccia della neofornaiola voga, rimanda semmai alla vecchia Maria Antonietta, interdetta dalla richiesta della rivoluzionaria plebe, che al grido di “Abbiamo fame! Dateci del pane”, rispondeva: “Se non hanno più pane, che mangino delle brioche!”. 

Tutto si dirà, ma Gareth Ward le idee ben chiare le ha. Sembra il titolo d’una canzone, NO APOLOGIES, lui non si scusa, anzi.

Rivendica il diritto di fare solo quel che garba a lui. Cucinando solo il meglio del meglio.

Poca roba trova grazia agli occhi suoi. Lui ha la fissa delle proteine. Gli interessano le carni, i pesci, il grasso che suggella e amplifica i sapori. I carboidrati, quelli, non se li fila neppure. Come pure il Nuovo Moralismo del localismo, del locavorismo. Del km zero caro all’altro Petrini, proprio non gliene frega un accidente. Di Greta Thunberg anche meno. Il quality check, l’ossessione del prodotto d’eccezione ha un prezzo. Che importa allora l’impronta di carbonio se l’astice arriva dalla Scozia, i crostacei pure, i tartufi bianchi vengono dall’Australia, il maiale dagli iberici stati bradi, il tonno Bluefin come pure il wagyu dal Giappone e il caviale dalla Cina. “Spendo in media più di diecimila sterline al mese solo per il caviale”. Sono bene investite. Come pure la sessantina di euro al kilo che ci vogliono (più tasse e trasporto) per ottenere le migliori animelle in diretta settimanale da una minuscola fattoria in Normandia. 

Gareth spende poche parole per parlar del suo percorso passato. Sottintende, senza troppo appesantirsi, che nell’attuale Regno Unito, invaghito dell’effimero, con tutte le dita nella presa di corrente della comunicazione caciarona, col rischio di dire poco o niente, lui resta ancorato al concreto. A un’etica dell’eccellenza, alle basi delle più solide tecniche, consolidate da quando prese la votiva decisione di diventare un cuoco. E per anni e anni interrogate al soldo di Sat Bains, lo sceriffo della Law & Order del Gusto Buono in quel di Nottingham, del quale fu per un doppio quinquennio la creativa anima gemella. “Quando anni fa capitai da Ynyshir quasi per caso capii subito dove mi sarei dovuto proiettare per il mio futuro. Creando un posto tutto mio, lontano dal furore esterno, un destination restaurant, diverso da quello allora esistente. Dove interpretare un certo spirito del Galles, seppur in modo non letterale”. E qui Gareth si scusa quasi se, tra tutti i prodotti convergenti a Machynlleth dall’insieme dei cinque continenti, l’agnello è certificato di provenienza 100% gallese. Perché? “Perché è il migliore. Non si trova da nessuna altra parte una carne così profumata, così erbacea, grassa come si deve, d’una delicatezza per niente selvaggia. Se tutti gli altri ingredienti locali fossero tutti dello stesso livello potrei allora cucinare solo con prodotti gallesi. Sfortunatamente non è il caso”. 

Allora Ward resta in guardia. Fa terra bruciata intorno a sé. Creando a piene mani un mondo tutto suo, un’Isola che non c’è. Poco importa pure se l’ultima attività di Robert Plant non entra nelle cucine di Ynyshir (“anche se nato dalle parti di Birmingham, da anni e anni il cantante dei Led Zeppelin ha una grande dimora a una ventina di chilometri da qui. Gli agnelli che pascolano sui suoi terreni sono tutti marchiati con le iniziali RP. Era un amico personale del cuoco precedente di Ynyshir, ma da quando è subentrato Gareth a quanto pare lui non è ancora venuto. Pare che nella sua residenza gallese fu scritta Stairway To Heaven e furono pure registrate tante canzoni degli Zep che nascondono riferimenti poco palesi alla cultura e alle poesie gallesi. Qualcosa come il Secret River, lo squarcio dove le due verdi vallate s’incrociano, un posto mistico che ora ti porto a vedere” ci dice Richie Smith, la nostra guida spirituale attraversando, a bordo della sua Land Rover, le Cambrian Mountains adiacenti). 

Nel frattempo, Gareth Ward non si smuove. Talvolta assente dall’agorà – lo trovate di sicuro in famiglia lì accanto, con la moglie Amelia e il piccolo Charlie – è però sempre in linea sui fornelli ogni non festivo dì che Dio comanda. Quasi quasi, ci facciamo assumere anche noi da lui. Aperto solo di sera, dal martedì al venerdì, Ynyshir va in letargo ogni settimana per ben tre giornate di fila. Invece i quattro giorni del Signore (consacrati a Gareth, e chi sennò?) cominciano dalle prime ore del mattino, tanto ante la colazione servita in camera. 

Fu lì che lo vedemmo la prima volta, lo chef dietro il bancone della sua cucina a vista sulla sala. Una montagna solida, un punto di riferimento visivo durante il serale servizio del quale sarà il coreografo e il tacito interprete principale. Non a caso, alle 5:30 del pomeriggio quando si passa tutti a tavola, l’audience sarà condotta verso dei tavoli tutti rettangolari, ricordanti tanto quelli dei banchi di scuola, ciascuno disposto verso la professorale cattedra, dove più d’una mezza decina di docenti eseguono con calma la partizione.

È un effetto spiazzante, per niente spiacevole, ritrovarsi in prima media, tutti di schiena uno dietro l’altro, mentre il corpo professorale si dà alle attività pratiche di fronte a noi. Dal preside all’allievo, l’attenzione varia durante l’esecuzione: in classe si chiacchiera, si mira la “roscia” in terza fila che ci piace tanto. Poi ci son le cameriere che portano ogni dieci minuti la merendina. C’è pure Rory Eaton (al college d’Eton, avrebbe fatto furore), il sommelier che ci prodiga i suoi dissetanti succhi; Rory è lui quello che preferiamo in assoluto. Davvero, se la nostra distinta direttrice, la dottoressa Anna Morelli fosse d’accordo, noi gli consacreremmo un dossier speciale. Pensate un po’: jeans neri, maglietta e Dr. Martens, riccioluto come la Carole King di Tapestry, vagamente preraffaellita tale il David Jones prima che diventasse il Bowie di Ziggy Stardust, ha lo chic di conservare sempre in tasca le chiavi della cantina. Dove presceglie, con la complicità vostra, dei vini naturali, ma solo quelli buoni, quelli che non hanno/che non ti danno la puzza (sotto) al naso. Ovvero, non quelli acetosi, tanto kombucha style, ma solo quelli di vignaioli pensatori, l’aristocrazia della nuova filosofia poco intervenzionista. Ovviamente, da buon ventottenne, fa ogni tanto il mascalzoncello, si arroga la libertà d’inserire, tra un Riesling 2015 del Niederösterreich e il meraviglioso Champs Longs 2020 di Chanterêves a Chorey-lès-Beaune – un Bourgogne da sogno – anche un Sakè Premium Junmai Ginjo, il mineralissimo Katsuyama Lei in diretta da Miyagi. Insomma, mentre in cattedra docet il corpus professorale in piena culinaria coreografia, in sala la temperatura… sale. Tale e quale il volume. Pumped up

Oramai in classe, la scolaresca s’indisciplina, sbraita a voce alta, ride. La “roscia” della terza fila si è accorta pure che la filiamo. Qualcuno nel retro-scala si presta all’esercizio del dance floor. È lui, il DJ ufficiale di Ynyshir (“è stipendiato come tutti gli altri del personale del quale è un membro a parte intera” commenta non poco fiero Gareth) che, nel corridoio che unisce la sala da pranzo al salottino dell’aperitivo, ci da giù di brutto con i vinili. Non è chiaro sin dall’inizio dove voglia andare a parare – un po’ di lounge, un tocco di house, svisa jazzy ogni tanto, poi si dà pure al dub. Ma se, quando arrivate, corrompete la maestranza con una bella mancia chiedendo in cambio per la cena il banco degli asini, la ben nota tana dell’ultima fila (quella non addossata al radiatore ma alla finestra sul giardino) da lì potrete seguire in diretta – tanto brechtiani perché straniati e lontani – la cattedra in cucina carburante a pieno regime col suo sonoro commento in diretta alle vostre spalle. Dopo qualche piatto, si capisce che il DJ è fatto per durare. Sfidando di fatto Laurent Garnier, mostro sacro della scena elettro, alla battle di chi ce l’ha più lungo (il set). Tiene duro per quattro ore, bella perseveranza, di che scandire imperterrito con i suoi non 120 BPM tutti i piatti che Gareth, e la sua professorale banda, inviano in sala con una cronometrica precisione. Rotondi o spigolosi, soavi o ruvidi, hanno tutti l’apodittica e affilata esigenza dei coltelli e utensili che Lee Jones, mastro ferraio di Upcycled Blacksmithing, crea utilizzando nel suo laboratorio a 3000° Fahrenheit, solo pregiati metalli di recupero.

Non è roba per pusillanimi pranzetti con la zietta, testimoniano a modo loro – un po’ oggetti d’arte, un po’ raffinati strumenti di culinaria tortura – la proteinica brutalità della raffinatezza secondo Gareth Ward. 

Confessiamolo: fummo noialtri a far cilecca, a non tenere il ritmo delle implacabili scodellate a ripetizione. Ogni otto o nove minuti, raramente di più, ecco l’ennesimo nuovo piatto, un micromondo a sé, dialogo tra Machynlleth e il resto del mondo, tra Galles e tanto Oriente (il Giappone, la Cina, la Thailandia, il Vietnam, il Laos e chi più ne ha più ne metta), acidità e piccantezze, iodate burrosità e lievi astringenze. Ci provammo, Dio sa che noi ci provammo a tenere il conto, dapprima nel salottino dell’aperitivo poi dal banco degli asini nell’ultima fila (bastò guardarci e ovviamente, lo beccammo noi). Svegli, attenti, i sensi e il palato affilati e taglienti peggio delle lame di Lee, sorseggiando dopo lo Champagne – un André Clouet!!! – il primo Sakè del pomeriggio (un Masuizumi Junmai Daiginjo Special di Yamada Nishiki da Toyama) incominciammo ad annotare tutto quel che (ci) passava il convento. 

Poi se ci ricordiamo bene, saranno state le 9:30pm, forse anche un pochino dopo, incominciò la farandola dei dessert. Tipo: una Mousse di cioccolato bianco. Poi un Banana ice cream al caviale, di quello vagamente ci rammentiamo. E anche delle Mele effetto sciroppate al fegato d’anatra. Se non erriamo ci fu pure una Torta di datteri alla vaniglia di Tahiti e al miso. E persino un Tiramisù, sicuramente buono, ma inutile che tanto più su di giri non potevamo andare. 

A questo punto qualcuno (chi?) ci trasportò nell’adiacente salottino per un digestivo, un caffettino, poi un Porto per scacciar l’amaro prima della botta finale, il Whisky dell’esazione, probabilmente Sour. Gareth era di nuovo scomparso, il DJ in pilota automatico. I tratti di Rory erano sempre più confusi nella penombra. Fuori avevano acceso dei falò con le fiamme rompenti a tratti la pece nera dell’oscurità notturna. La “roscia” era sgattaiolata in giardino, mano nella mano, col suo maledetto compagno di banco. La Boscarelli, la fotografa, ormai era uno straccio, noi quasi quanto lei. Riuscimmo però tutti a inserire al terzo giro la chiave della stanza nell’apposita serratura. E a svenire di traverso sul letto. La notte fu corta, intermittente. Svegliandoci poco dopo l’alba (ci eravamo ovviamente dimenticati di tirar le tende delle finestre) ci ricordammo d‘aver sognato di Robert Plant. Eravamo lì in campagna a casa sua. Ci parlava degli Zep, dei suoi rapporti tumultuosi con Jimmy Page. Se la tirava tanto, metteva su degli inediti assai pallosi. Allora noi, senza chiedergli l’autorizzazione, buttammo sul giradischi una bellissima, piovigginosa e melancolica canzone: Corner of my sky di due illustri, e a noi tanto cari, oriundi gallesi, Kelly Lee Owens e John Cale (dall’album Inner Song, 2020). Plant, stizzito, ferito nell’amor proprio, s’incazzò talmente tanto che ci sbatté fuori di casa. Sotto la pioggia. 

La prossima volta che torniamo da Gareth, chiediamo al DJ di Ynyshir di suonarcela a inizio pasto. Così di sicuro ce lo ricordiamo. Scusate ma bussano alla porta con la piccola colazione. Fra un po’ abbiamo appuntamento con lo chef, dobbiamo far la valigia, lasciar la stanza. Che dopo le pulizie, alle 3pm in punto, bussano i nuovi fortunati clienti. Tutto deve essere pronto per il loro arrivo. Si alza il sipario.

The Ynyshir show must go on

Posto
Europa/Regno Unito/Galles
Ynyshir

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