Reportage
Contemporary South American
Se’ mono!
Il MONO di Riccardo Chaneton a Hong Kong raccontato dall’inizio
Testo di
Andrea Petrini
Foto di
Dennis Soap
Da Cook_inc N. 28
Se’ mono!
16 minuti


Hong Kong: seconda settimana di gennaio del 2020 – ovvero il mondo di prima. Ricardo Chaneton aveva aperto da neanche un mese e mezzo il suo MONO e aveva la vita davanti a sé. Un fine dining per dinamizzare ex novo la metropoli asiatica. Dalla Cina vicina arrivavano nel frattempo delle inquietanti dicerie, avvisaglie di una pandemia che avrebbe, nel giro di qualche giorno, travolto la sua vita e quella di tutti noi. Pubblicato con un anno di ritardo nella sua forma originale il long read che state percorrendo non è stato volontariamente attualizzato. Perché avevamo già previsto e detto tutto, o quasi: magari non la crisi mondiale o che la Chaneton family s’ingrandisse con repentina prole a fine estate. Ma l’inevitabile successo pneumatico con la Michelin e il clamore mondiale suscitato da questo inedito ristorante d’autore, quelli almeno sì. Noi già dagli albori di MONO, ci eravamo aggiudicati un posticino in prima fila. Please rewind…

Le Chungking Mansions, noi le avevamo viste solo in fotografia. O di sguiscio sul grande schermo. Ne avevamo sentito parlare come uno dei luoghi mitici, quasi una leggenda urbana. Un mondo a parte nella e della Hong Kong altra, lato occul(ta)to della capitale economica all’ombra della Grande Muraglia cinese. Sul cortile interno – lo sguardo e il capo schiacciati da decine e decine di piani di casermoni a ferro di cavallo quadrato, centinaia di appartamenti ammucchiati uno sull’altro, spazi vitali di dieci, quindici o poco più metri quadrati – ti senti, come dire? In luogo alieno. Quando per inciso guardiamo Ricardo Chaneton, grande e grosso con bietole e foglie di cavoli cinesi a far capolino dalla sua borsetta della spesa, mentre tutto intorno non bazzica quasi anima viva. Nonostante i negozietti, i parrucchieri, gli alberghi a ore, gli spazi di pronto soccorso internet e di elettrodomestici immolati sulla logica dell’obsolescenza. In mezzo a folate d’odori, di sentori acri, affumicati, di aceto, di pesce fermentato, di gamberetti essiccati, di salse di soia che si restringono ai piani di sopra. Sui fornelli di casa.

Welcome to the Chungking Mansions” fa Ricardo Chaneton, aggiungendo: “Hai tutto interesse a non bighellonare di notte qui da solo. È una realtà sommersa, come si direbbe di un’economia sommersa. Se ne raccontano di cotte e di crude, storie di mafia, di spicciola criminalità cinese, di valigie ritrovate appena dopo il varco dell’entrata con all’interno corpi umani sezionati alla sega elettrica. Se sei introdotto, puoi anche venire a mangiare qui in appartamenti privati. Devi conoscere però, devi essere accettato per sederti a tavola con chissà chi, al settimo o al dodicesimo piano in un appartamento insieme a famiglie stipate una sull’altra dove, per sbarcare il lunario, massaie e pensionati si reinventano in cuochi improvvisati. Notte e giorno, c’è sempre qualcosa che bolle sul fuoco. Celati dagli sguardi del mondo esterno, si fanno affari, si fanno incontri. Ci si nasconde”.

La prossima volta che siamo a Hong Kong, con Ricardo e una faina d’amico suo che fungerà da garante, bussiamo davvero per venire a mangiare qui a Chungking. Non ci incontreremo magari il Wong Kar-Wai del film Chungking Express. Ma lo mancheremo di poco. Hong Kong corre parallela, appena ti metti le Chungking Mansions alle spalle, a duecento metri incappi su Armani, Louis Vuitton e il Four Seasons Hotel – dove lavora Arianne, la nuova fidanzata frenchy di Ricardo Chaneton. Dal Venezuela natale, quello di Chávez, al Mirazur di Colagreco insieme a Chiho Kanzaki e Marcelo di Giacomo (i supereroi parigini di Virtus)

chi se lo sarebbe aspettato di vederlo fare, fra un po’ scommettiamo pure ammogliato, il nuovo King di Hong Kong? 

A dire il vero son già anni che preparava la sua incoronazione. Da quando, lasciata la famiglia del Mirazur nel 2016, volò nella perla dell’Asia per prendere le redini del Petrus (che nome, tutto un programma), tavola da palace e uncut gem dello Shangri-La, del quale assunse a pieno titolo gli obiettivi: strappare per cominciare una monarchica corona della Magna Carta Michelin (buono da sapere se siete interessati, in cinese si pronuncia: Mi-tchce-liin).  Paradosso della vita che non la butta mai come la si prevede, l’ultima edizione del mattoncino rosso, quella del 2020, porta in calce, sotto l’egida del ristorante, i tre piatti signature del giovane cuoco venezuelano, oramai in contumacia per tutt’altri lidi. A 32 anni, non si fa di sputare nella zuppa. “Non capisco quelli che, amici e conoscenti, per tre anni e passa, mi han ripetuto: chissà che rottura di palle lavorare per un grande hotel come lo Shangri-La, quanti bastoni tra le ruote ti avranno messo dal Petrus. È vero, non è sempre stato rose e fiori, ma lì ho studiato, ho capito tante cose. Come affinare la mia cucina, come strutturarla meglio. E non solo: comprendere innanzitutto, dalla A alla Z il funzionamento d’un ristorante. Senza la prova del fuoco e la capacità di resistenza da Petrus, difficilmente sarei oggi dove sono.” Attenzione allo spoiler: dietro il bancone di MONO, il locale che tutta la foodosfera di Hong Kong aspettava a braccia conserte.

Perché Ricardo Chaneton non ha partecipato all’ultimo GELINAZ? Sfica pura! Gli starting blocks di MONO erano da tempo fissati per il 2 dicembre, la vigilia dello Stay in Tour 2019. “In realtà abbiamo aperto alla chetichella quasi una settimanata prima, a fine novembre, per dei friends & family dinners. Il tempo di rodarci, di affinare il nostro concetto di cucina francese contemporanea” ammette lui. E gli ribattiamo subito noi: però il Contemporary French dacci retta, lascialo a quelli che se lo portano già appresso come il Cristo la sua croce. Di sicuro potevi trovare concetto più al passo con i tempi. D’altronde non lo ammette lo stesso diretto interessato, per niente refrattario ai nostri spassionati suggerimenti, uomo avvisato e bello salvato, che alla sua poco venerabile età sarebbe meglio prestare orecchio ai consigli del Grande Vecchio? Che altro non è che il gigante buono, l’ottimo Umberto Bombana, emblema della più elegante cucina italiana triplamente stellata sgargiante per tutto l’estremo Oriente, omaccione buono come il pane che di certo, business-wise, non blatera mai a vanvera. Tant’è che una sera a freddo, prima del varo del ristorante, condivise spassionatamente il suo sconcerto. Citiamo per sentito dire: “Ma no, Ricardo che fai? Contemporary French? Davvero? Prendi tra le mani una guida Michelin di Hong Kong. Quanti ne trovi di ristoranti che propongono, sin dalla dicitura, della cucina francese contemporanea? Trenta? Trentacinque? Forse anche quaranta. Dai retta a me, guarda bene, cerca e vedrai che invece non ne trovi neanche uno che si rivendica Contemporary South American. A Hong Kong saresti tu il primo. L’unico.” Also spracht Bombana. Rispetto.

Colpito al cuore, Ricardo ammette che l’antenato non ha le sue ragioni – sul campo di battaglia ci è passato ben prima di lui – ma ha semplicemente ragione. Sarebbe un controsenso mettere l’accento sul gallico prestigio che, con i tempi che corrono, senza una sovra-dose di Viagra non eccita più nessuno. Nel marmittone del Chaneton prendono invece tutti i ricordi, i sapori della sua internazionalista estrazione d’enfant du pays latino-americano. Ancor più che all’immagine del suo passaporto dalla doppia nazionalità venezuelo-italiana, le radici e le arborescenze del giovinuomo si estendono al di là dei delimitati perimetrici confini. “Ho della famiglia dappertutto, mio padre in Venezuela, dei parenti a Miami, in Colombia, la nonna che è da qualche tempo rientrata al paesello…”. Si ritrovano tutti, i prossimi e i lontani, ognuno à tour de rôle, nei piatti – e nelle intenzioni palesi – d’un locale che fa sintesi delle tre annate passate nella perla dell’Asia per ritrovare una forma totale di libertà. Attaccati come si suole all’inevitabile bancone, o nei tavolini in fondo alla sala, ci si installa da MONO in territorio conosciuto, in attesa che le cose accadano da sé. Innanzitutto l’immanenza del nome: MONO non è per niente a monosenso. Vuol dire tante cose, a linguaggio che sfogli, significazione che trovi. In venezuelano MONO designa un uomo dalla giovane età (esiste anche col diminutivo famigliare, “MONito” per dar del giovincello). In Bolivia, MONO è usato per fischiare appresso una ragazza per strada, o un ragazzo secondo i gusti, bruna/o o bionda/o che sia, purché di ben pimpante aspetto. Se fai “sei MONO?” in spagnolo non prendi mica nuove della sua annale mononucleosi ma valuti semmai quanto il tuo interlocutore sia sulla scia d’onda dell’espressione “soy mono”, ovvero:

1) d’aver l’argento vivo 

2) voglia di scuotersi dal torpore

3) di fumarsi una canna

4) di rimorchiare al volo un/una pischello/a e concludere senza tardare. 

E devi tanto essere #SOYMONO quando entri da MONO.

Devi avere voglia di divertirti, di lasciarti andare – oltre il front stage un tantinello fine dining – alla polisemia del luogo. C’è uno snello Maître d’H (taglia europea 42) con l’impeccabile barbetta del distinto console onorario britannico. C’è un sommelier autistico in fase terminale. C’è un va e vieni di gente elegante e d’indaffarati altri in punta di piedi dall’altro lato del bancone – un po’ NY, un po’ Carrara in Giappone – mentre la sfumatura dei contrasti s’insinua pure nella sfaccettatura degli elementi naturali e industriali. Il dialogo tra l’organico e il non, tra tecnica e intuizione, rimanda proprio – ed è questo il vero senso del nome del ristorante MONO – al manifesto del MONO, il movimento artistico dell’avanguardia giapponese degli anni 70, sorta d’estensione nipponica dell’Arte Povera nostrana. 

MONO è ancora un bebè, ancora in fasce, deve svezzarsi, farsi ancora i denti, offrirsi il ruttino dopo le tettate delle prime mesate. Eppure le intuizioni mirano già dritto al cuore: al gusto. Non solo nel piatto ma pure a lato, intrinsicamente in senso lato: nel sound design che avvolge, guanto di velluto, i gesti e l’udito, gli sguardi e le attese, mentre senza gridarlo né rivendicarlo le calde sonorità (“Macché Spotify! Macché playlist! Volevo un suono vero, avvolgente, carezzante e tagliente. Quello d’un vero giradischi hi-fi, con un pick up e un’amplificazione di altissimo livello” rivendica audiofilo lo Chaneton) sulle tracce del suono primigenio. E di una nuova forma di autofiction. Reinventandosi e riscrivendo passo a passo il passato, dando voce al rimosso, al lontano. Ai reconditi anni d’infanzia al paesello, cullati dalla melomaniaca ossessione d’un padre collezionista di vinili che suonava tutto quel chi gli passava per il capo e di certo non alla radio. Gospel, bossa nova, reggae, rythm’n blues, funky e jazz rock à gogo. Dove se non qui da MONO trovare fianco a fianco, tra l’incudine e il martello, tra una terza entrata e la corsa al primo main course, UB40 insieme a Eumir Deodato? “La gente può utilizzare il giradischi come vuole. Non ci son patacche, è tutta roba di prima scelta, da collezione, ogni vinile trattato con i guanti, tutti scelti tra le migliaia di vinili della paterna biblioteca”.

“Li abbiamo selezionati insieme, per portare un frammento del mio repertorio affettivo a Hong Kong. E condividere col pubblico non solo il pane col coperto ma le sedimentazioni della mia frastagliata cultura un po’ vintage un po’ di giramondo”.

Cosa ti va di ascoltare? Cosa ti va di mangiare? La domanda può sembrare retorica visto che qui – come se fossimo non a Hong Kong ma nella soft dittatura di Singapore – vige per il momento l’infausto nodo scorsoio del menu degustazione. E non date retta a Giuseppe Iannotti, quello del Krèsios, che su Facebook tuoneggia contro lo sperpero e l’insostenibilità della carta. Sostenendo invece al contrario la praticabilità del tasting menu come sola possibilità dell’artistica espressione. Quando invece è esattamente il contrario. L’autoristica verticalità del menu fa tanto yesterday’s news, saldi di fine stagione. Roba da preistoria, da senile patologia della ristorazione. In un’epoca in cui si fa dello zapping come tanti del cross fit, all’ora e all’era dello streaming senza cesure né suture, di scelte infinite nell’ordine dei possibili (seppur dettate dalla logica del mercato) è ancora concepibile accettare il dittatoriale dirigismo del tasting menu? Vincesse a Hong Kong, come altrove, la non scelta del menu unico per tutti (o mangi sta minestra o salti per la finestra) sarebbe davvero la fine della democrazia. E mesate di civiche proteste per la libertà gettate invano nella pattumiera dell’ordine vigente. Incominci col Menu Unico e finisci col Partito Unico.

“Qui da noi, ma anche nella Cina centrale, in Giappone, e un po’ dappertutto in Oriente, il cliente quando viene propende per il degustazione. Non perché costi meno, a lui, a noi, ma perché c’è la cultura del lasciar fare lo chef, l’appeal dell’omakase come si dice in Giappone. E perché prima di comprare, di fare la prenotazione, non vogliono sorprese semmai sapere esattamente quel che gli si darà. Si studiano il menu su Internet, sanno già quali sono i nuovi piatti, hanno un’idea assai precisa del vino che si ordinerà” spiega Chaneton concedendo allo stesso tempo che i migliori clienti “quelli che son già venuti due o tre volte nello stesso mese, loro si che vogliono ogni volta delle novità. Poi c’è anche la nozione del family style che gioca un certo ruolo, dei piatti da condividere, che non adottano ovviamente le porzioni del degustazione. Abbiamo aperto solo quattro mesi fa. Ma appena troviamo i nostri punti di riferimento, non dispiacerebbe neanche a me di trovare delle soluzioni alternative – anche per cucinare in modo differente – offrendo delle proposte del giorno, degli specials, dei fuori carta.” Ovvero, traducendo il suo pensiero, dei fuori menu.

Ma lo si sa, la democrazia è una battaglia quotidiana, da brandire come il diritto di voto. E allora noi votiamo niet al piccione. Ricardo, tiettelo tu, rifilalo semmai al tavolo tre, che tanto non se lo pappa neanche Geeta Bansal, l’editrice americana che questa sera pasteggia con noi. Semmai, al posto del piccione che ci dai? Del Vitellone d’Aquitaine, frollato per quattro settimane e anche più, cotto alla perfezione, effetto tataki o appena un filino in più, profondo rosso fondente e succoso di sangue, a fianco di cime di cardinalizie bietoline e di crosne appena saltati. Il tutto in contrappunto d’un condimento nero di pece, unguento next level, che è un’enciclopedica rilettura del mole, celeberrima salsa messicana in modo 2.0 più fluido, più elegante, più balsamico – talmente eccitante, talmente erogeno, fresco e speziato quanto basta (brava gente siamo e vi offriamo la ricetta qui accanto) che lo scarpetteremmo sino a totale estinzione. Anche da solo, anche senza il piccione e pure senza il vitellone. E visto che ci siamo con le legittime rivendicazioni, Ricardo la pagnotta che è strabuona servita calda calda, da condividere a piacere, fai come da Ducasse, fai come dal tuo mentore Mauro Colagreco, come dall’Ana Roš, da Niko Romito, da Thomas Keller o dall’Isa Mazzocchi a Borgonovo Val Tidone, mettila sul tavolo sin dall’inizio. Te ne scampi iddio, fuggi a tutte gambe dal vizietto dei tanti stolti, quelli che fanno del pane un Joker, l’effimero mattatore del prevedibile Bread Dish. Ci avessi dato sta pagnotta, avremmo ripulito meglio che con lo Spic & Span la Coda d’astice al tartufo nero in salsa di vin jaune. E, visto che ci diciamo tutto, stai al gioco e che diamine pure tu! la prossima volta la Coda di Rospo non farcela solo vedere intera prima di servirla. Non tagliarla in porzioncine degustazione, che è roba da schizzinosi, da inappetenti, lasciacene una chilata tutta intera, che ci pensiamo noi a condividerla come ci aggrada.

Altro che menu degustazione, è il family style il futuro prossimo venturo dell’altissima ristorazione. 

Ripartendo dalla Coda di rospo è invero tanto buona che – più ancora della razione dei doppi cipollotti – ecché cacchio dacci un bonus col padellino pieno e stracolmo del tuo curry verde – meno asiatico che latino – che ci lecchiamo le dita e ci imbrattiamo prima una poi l’altra mano. Niente resterà impulito: cameriere, dell’altro pane! Lo vogliamo, e al volo, per spiluccare sino all’ultimo tendine di manzo – fondente, gelatinoso – che leccalecca gli esterni contorni del lacustre Omble chevalier (salmerino, ndr) d’una preziosa semplicità. E visto che il menu lo stiamo ripercorrendo a ritroso, col senno del poi, ci rifaremmo volentieri un altro paio di bis… Dai, che mentre aspettiamo la tiepidina Insalata di broccoletti e romanesco con la mayo di finger lime e la colatura di alici di mastro Agostino Recca da Sciacca, lasciaci pure l’ambito flaconcino per l’estro del condire a piacimento, ci rispareremmo, tanto per pazientare, non per altro, anche la Vichyssoise color verde matcha di ricci di mare e abbondante caviale. È Made in China (“ma maturato in Germania, la globalizzazione ha talvolta del buono”) e così buono che quando chiudi gli occhi per raccoglierne sino all’ultimo granello, col cucchiaino di porcellana nella mediterranea ciotola simil terracotta e finto giapponese d’una bravissima artista catalana, raspi il fondo e la resistenza sull’altra materia produce un’interferenza nella consistenza, ben contrastante con la iodata sapidità a tutto tondo della serafica emulsione.

Da MONO non cercate la Rivelazione, ma laudate il Signore, il miracolo è già qua. Nel perfettibile palinsesto, nelle ingenuità, nella leggerezza corollario dell’intensità. E se si avverte con insicurezza la voglia di dirla tutta e talvolta persino troppo, il pubblico, come il cliente sempre re, è in anticipo sui tempi. Gongolando di piacere, se ne fotte delle spiegazioni. Spulcia già nel livre de cave in divenire ben altre opzioni di quelle dell’appuntato sommelier. Chiediamo venia, facciamo estrazione dall’oliato meccanismo, occhieggiamo dolci dolci al(la) consorte, brindando alla buona sorte di Hong Kong che di MONO ne aveva bisogno e tanto. Di un po’ di infedeltà – alle rigide regole del mercato – d’una brezza d’incestuosa novità. Del fine dining sì ma col debole per le incanagliose scappatelle. Aspettando che l’Arianne gli dica di sì, Ricardo porta (la) fede, vincolato notte e dì alla sua cucina. Diteglielo in coro pure voi: “Sé MONO, Ricardo!”. Sii MONO! Ancora un barlume di fantasia per sfuggire alla frigida MONOgamia della pura gastronomia. La vita vive. E non attende.

Posto
Mondo/Hong Kong
MONO

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