La cucina romana in movimento di Adriano Baldassarre
Testo di Lorenzo Sandano
Foto di Andrea Di Lorenzo
“Se qualcuno usa ancora il termine matto per descrivere me o la mia cucina, giuro che disconosco l’articolo” ammonisce sogghignando lo chef a fine cena “che poi, un po’ matto potrei pure esserlo, ma di certo non sono tra i peggiori”. Favella frenetica, freddura in canna e iride vispo. Può stordirti a parole, Adriano Baldassarre, ma ha le sue ragioni per scaldarsi nel disappunto identitario. Eppure, gli suggeriamo ironicamente che forse ha sbagliato nome del suo ristorante: Tordomatto, manco a dirlo, si presta al più scontato dei giochi di parole.
Togliendo la parola “matto” dall’insegna però (divertendoci un po’) rimarrebbe un “tordo” solitario. Mentre io – non cesserò mai di pensarlo – accosto la figura di Adriano a quella di un pennuto ben più nobile. La fenice. In grado di risorgere più e più volte dalle ceneri di una vita ardente e movimentata. Scherzi a parte, proprio quel nome apparentemente scomodo è anch’esso simbolo di riscossa: preso in prestito da una ricetta umile delle campagne laziali (involtino di carne equina), che battezza l’insegna sin dagli albori stellati di Zagarolo. In cui venne eretto nei primi 2000, quando il nostro cuoco – già wonderboy dei fornelli – ebbe l’esordiente fiammata di successi ed episodi scottanti, appena 24enne.
Capitolo professionale (cessato troppo presto e troppo violentemente) che ha spronato Baldassarre a una serie di micro-risorgimenti personali, lungo un itinere da personaggio antologico. Eneide lavorativa intorno al mappamondo, intrapresa con spirito infiammabile e caparbietà incessante. Svolazzando tra Londra (Zafferano Restaurant); Antonello Colonna a Labico; graduali avvicinamenti capitolini e poi la spedizione in Oriente (Vetro, Mumbai). Non in veste di fuga, ma come ritiro spirituale. Per dar corpo definitivo al suo focoso rientro in scena. Risorto, nel quartiere Trionfale della sua amata Roma. Per riaccendere non solo la propria identità, ma anche quella di una ristorazione fin troppo sconnessa dalle tradizioni della città eterna. Soprattutto nelle sfere più alte.
Perché, a discapito delle sue radici abruzzesi, Baldassarre è figlio di una romanità sentita e verace. Complice forse il nome di un imperatore (Adriano, appunto) e un’infanzia sudata tra le borgate della Capitale (potrà apparirvi quasi in trans, mentre enuncia a menadito i trascorsi da pischelletto del Quadraro). Sorvolando le motivazioni romantiche, l’intento di ripristinare e traslare con metrica moderna la cucina romana, ha condotto la brigata del Tordomatto a risultati a dir poco imperiali. Scavando in profondità tra sampietrini gastronomici, reperti storici e ricettari desueti. Con lodevole fame di crescita e conoscenza. Mica come il comune per gli scavi della fantomatica Metro C! Un moto di ricerca e trasmissione cultural/gastronomica che ha mobilitato attivamente ogni membro della squadra.
Partendo dal prode sommelier Simone Romano: fuoriclasse nel ricamare un percorso narrativo filologico tra sala e cucina. Capace di intaccare, smuovere e circoscrivere il tessuto storico di rioni, urbe e antichi costumi capitolini. Trasposti in forma simbiotica rispetto quel che viene servito nei piatti e nei calici del menu. Lavoro che sfiora l’antropologia, ampio e mutevole nella sua portata concettuale. Ma che ha contribuito a sancire una radiosa maturità stilistica per Adriano. Interprete, da “romano de Roma”, dell’unico esempio di tradizione romana fine dining. In progressione, come ama definirla lui. Perché attinge con manico e sensibilità sia allo spettro dei ricordi autoctoni, sia a quello del suo vissuto da pellegrino cosmopolita.
Condensando eloqui tecnici, sapori classici e placide contaminazioni in scorrevole e fervida continuità espressiva. Coniando un salto nel passato che sconfina nel futuro. Dal luculliano e altisonante aperitivo che ripercorre bocconi dell’antica Roma come il Panisperna (suadente pan brioche condito con foie gras, prosciutto e fichi); accostandoli a snack restaurati delle Fraschette e dei Castelli Romani (Svojature), in compagnia di un delizioso vermouth alle visciole.
Poi l’elogio alla cucina domestica, pregna di stufe accese e pasti conviviali. Talmente concentrata nell’essenza originale del gusto, da imporsi con vigore oltre la nuova estetica che gli viene conferita: impalpabile e denso Minestrone di verdure; Fiore di zucca e alici riproposto come un’eterea frittella indiana; Zucchine ripiene di carne “crude ma cotte” che propagano un tepore palatale prorompente. E infine una Ricciola alla pizzaiola da campionato, che aizza umori carnivori e tracce mnemoniche sopite, solcando trame raffinate di freschezza contemporanea.
Un manifesto luminoso del livello raggiunto nelle retrovie. Medesimo brio –vegetale questa volta – nella Torretta di funghi, timo, mandorle e sedano. Intermezzo tonificante che spiana il ponte levatoio a due piatti iconici di Baldassarre: Cappuccino di baccalà & cornetto sfogliato 21 g; Polpetta di coda alla vaccinara. Pluri-plagiati e pluri-apprezzati assaggi signature, semplicemente imbattibili dai tempi di Zagarolo. Prosegue il tripudio di romanità nei Fagottelli ripieni di baccalà (marmorizzati da una vellutata salsa multicolore di condimenti che richiamano il guazzetto) e nei Tortellini di trippa, menta e pecorino. Esercizio in cui la cucina si destreggia a ingentilire il quinto quarto, preservandone fibra, appartenenza e sapore.
Ma il percorso riserva sorprese ruggenti anche in pattuglia oltre i confini della Città Eterna: interpellando un classicismo italiano che nelle mani dello Chef assimila tinture contaminate/internazionali, ma sempre coerenti al suo stile. Il Pollo alla romana con salvia e laccatura ai peperoni dalle fattezze orientali (che farebbe palpitare di gioia anche la Sora Lella); Piccione in 3 servizi, indivia e fondo di cottura pregno di austerità e tenacia vecchia scuola; infine una stratosferica Linguina al sugo di 3 carni, porro e foie gras, capace di condensare una robusta muscolatura francese con il comfort degli intingoli nostrani a cui tutti siamo affezionati.
Pilastri atavici e impronte infantili/evocative in foggia moderna, trasmesse dolcemente sino al capitolo dessert: biglie da gioco, pastarelle e maritozzetti come petit four; una clamorosa Torta di mele eretta a mo’ di tarte tatin (di memoria Passardiana); il pane dolce ebraico Challah (omaggio al Ghetto) servito con burro alla vaniglia, zabaione e marmellata di arance amare.
A destra: Torta di mele
Seducente lievitato, da assaporare rigorosamente con le mani in un poetico rito di condivisione. A sintetizzare gesti, filosofia e intenti di questa grande tavola. “Non potete andarvene senza due spaghi aglio e olio” azzarda Adriano consegnandoci la piattata fumante di carboidrato, quasi a ridosso del caffè. “È un po’ cambiato da quello che facevo a Zagarolo, ma in fondo sono cambiato anche io. In meglio spero”.
Decisamente, pensiamo senza esitare. E non solo per la piacevolezza sfrontata di quello spaghetto, ma perché la solidità agguantata dal cuoco si ritrova sia nell’attuale Tordomatto, sia nelle aperture parallele che ha messo a segno negli ultimi anni: almeno tre consulenze vincenti all’estero (Nuova Delhi, Mumbai e Lussemburgo), insieme al suo prototipo di Trattoria Popolare L’Avvolgibile nel quartiere Appio Latino di Roma.
Nota della Redazione:
Adriano Baldassarre è uno dei sei giovani cuochi della banda della polpetta romana di Cook_inc. 25 – Milano spara, Roma risponde. Scrive di lui Lorenzo Sandano: “Ma come ora non riesce a resistere dinnanzi a un piatto di polpette al sugo, così non ha saputo mai sottrarsi alle costanti culinarie del suo percorso: che, guarda caso, trovano forma ancestrale proprio nella polpetta. Quella emblematica di coda alla vaccinara, nata nel lontano 2004 per assecondare il gesto spontaneo e legittimo di assaporare questo piatto classico con le mani. Ma riscrivendolo in dialetto gourmet, per evitare che le dita impiastricciate da grasso e salsa, debbano esser “buttate via” (cit Baldassarre). Così la polpa di coda, sfilacciata in boccone archetipico, si appallottola in cubi croccanti, poggiati sulla salsa al sugo di coda ristretta e sormontati da una funzionale julienne di sedano a donare freschezza. Assaggio vittima di molteplici plagi, che conserva una bontà immortale nella versione autentica del Tordo. A seguire l’evoluzione storica e cronologica del suo itinere da cuoco, c’è anche la polpetta del riscatto dopo la perdita del primo locale di Zagarolo. Pensata per il ritorno vittorioso a Festa a Vico dopo un primo riavvicinamento alla Capitale. Sempre legata ad aneddoti eruttanti romanità e folclore: la Polpetta di coda di scampo e testa di maiale, in omaggio alla poesia di Trilussa La Carriera del Porco. Un fritto impeccabile, dal sapore guascone e colto, che trasmette piacevolezza immediata accostando grassezze di mondi animali e ittici agli antipodi. In un festoso binomio di nobiltà e miseria che definisce un po’ il carattere combattuto di Roma. Ma anche la sua lettura in progressione e senza confini, perpetuata con carisma da Adriano e dal suo rinnovato team imperiale”.
Tordomatto
Via Pietro Giannone 24
00195 Roma (RM)
Tel.: + 39 06 6935 2895