Testo e foto di Gloria Feurra
Diners e luncheonettes nella città dove tutto cambia
Il bisogno di reinventarsi. Regola d’oro universalmente applicabile a qualsiasi longitudine, contesto o entità. La città di New York è la città di New York perché cede con condiscendenza al cambiamento. Lo abbraccia, vestendosene, lo incarna; diventa magnifica e mitologica, cangiante e indomabile. Noi del vecchio mondo, italiani eredi della via Gluck in particolare, il cambiamento lo accettiamo, ma è a preservare che siamo campioni. Posizioni agli antipodi e rispettabilissime, specie se declinate negli specifici contesti: prendi i singhiozzi nel prolungamento della linea C a Roma. Cantiere che scavi, reperto che trovi; lavoro che ritardi, servizio che non offri. Roma è Roma per il suo patrimonio. A New York eredità fa rima con opportunità.
La competizione per lo spazio nel fitto di NYC è lo scoppio che ingrana il suo motore. Thrive or die, prospera o soccombi. Legge della giungla di cemento ciecamente perseguita. Non sono immuni chiese, ex fabbriche, parchi giochi, attività commerciali e neppure i suoi 8 milioni di attori. New York era il posto dove farcela, oggi è sopratutto casa di chi già ce l’ha fatta. Per provarci devi spostarti un po’ più in là, sull’altra sponda dell’Hudson in New Jersey o nel Queens più profondo, dove i tentativi di jazzisti, di folli, di registi, di geni, di poeti riescono (quasi) a sostenere gli affitti. Fa strano patire la nostalgia per qualcosa che non si è mai conosciuto. Kaukokaipuu, la chiamano in Finlandia.
Mi hanno chiesto di raccontare la scena dining della città a grande respiro. Ho accettato, rendendomi immediatamente conto dell’improbabilità del mio successo. Non credo riescano nell’impresa i 38 Essential Restaurants aggiornati ogni mese, né le liste di ristoranti, bar, e café da visitare per compleanni, primi appuntamenti, per quando i genitori vengono in visita. Tutto così rilevante ed effimero. Il posto dove d’inverno mangiare gumbo e jambalaya, andato. Il posto dove il prosciutto lo sapevano davvero affettare, trasferito. Il garage con improbabili gig ogni sera, demolito.
Non è un posto per nostalgici, reazionari e conservazionisti. Si fanno spallucce per ciò che si è perso, si fanno le code per vedere cosa c’è di nuovo. Ho imparato persino a monitorare con la curiosità ottimista degli umarèl i cantieri nel mio quartiere, nonostante generino picchi di attività nell’iconica popolazione di roditori della città. New York è lurida, è paradossale, è tosta. New York è viva, è rapida, è fluida. Take it or leave it. New York è la mia città, la detesto e mi manca, e per amarla mi sono arresa al fascino tedioso della sua mutevolezza. C’è però una categoria per la quale sarei disposta a incatenarmi alle serracinesche: quella dei diners e luncheonette, preziosa specie a rischio.
L’affetto per i toni pastello di quegli spazi retro, le cameriere in perpetua ronda a versare caffè masticando chewing-gum, l’affogare nello sciroppo d’acero pancakes e giornatacce, il bacon scricchiolante, darsi appuntamenti tra amici e incontrare sconosciuti. È un’inspiegabile vicinanza che ha preceduto l’incontro reale, una familiarità priva di esperienza diretta. Scopro che la mia fascinazione per i diners non è una singolarità ma un sentimento condiviso cristallizzato nel nostro immaginario collettivo. Sia stato Grease, il Nighthawks di Hopper, Happy Days, Friends, la hit di Suzanne Vega, Pulp Fiction, o Seinfeld, quei banconi d’alluminio e poltroncine su cui slittare sono intrinsecamente esotici e noti, sono un’approssimazione romantica di qualunque cosa significhi America.
Il primo diner in cui ho messo piede si chiamava Good Stuff Diner. Era a Chelsea, stava aperto 24/7, offriva colazione tutto il giorno, e il menu plastificato contava qualcosa come 15 pagine. C’erano gyros e pasta, bistecche e omelette, meatloaf e waffles, burgers e torte, calamari fritti con salsa marinara e quesadillas. Ordinai una dimenticabile zuppa di pollo e, avventurosamente, un root beer float, una 0.50 di soda al sassofrasso con due palline di gelato alla vaniglia in sospensione. Le aspettative di intimità con quello spazio, dissipate al primo sorso. Nella libreria di casa, American Diner Then and Now di Richard Gutman, curatore di Boston che dalla fine degli anni Settanta viaggia per l’intero paese ripercorrendo e documentando la storia di questo pezzo di Americana: dai night-lunch wagons – i carretti di fine Ottocento con hot dogs per operai e giornalai – alle iconiche silhouette dei vagoni dei treni convertiti e replicati in serie in aree urbane e suburbane, dal declino causato dai fast foods, fino all’impossibile concorrenza posta dalla delivery. Luce sulla storia fu, ma la caoticità del menu di Good Stuff ancora tormentava, ragione più che valida per frequentarne altri, imparare a navigare l’offerta, chiacchierare con lo staff, e decretare privatamente (hint: il vincitore viene menzionato in questo articolo) il miglior tuna melt della città.
La storia dei diners di New York City segue a grandi linee la traiettoria di quella nazionale, accentuata del suo spiccato multiculturalismo. Nel Dopoguerra, gran parte dei diners vengono presi in mano da famiglie di prima o seconda generazione di immigrati. La prima ondata rappresentata da greci – da qua lo stereotipico packaging azzurro del caffè d’asporto adornato da motivi ellenistici – successivamente ucraini, indiani, messicani. Ciascuno a inserire piatti di casa, ampliando l’offerta e augurandosi di attirare una clientela diversificata. Nel tempo i menu si ibridano fino a convergere verso uno standard di chiassosa pluralità: nel dubbio, la cucina offre tutto e, per giustificare un inventario così ampio e massimizzare la resa, resta aperta sempre, dal lunedì alla domenica, ventiquattr’ore su ventiquattro. L’inclusività dei menu riflette quella della clientela. Al diner trovi tassisti, celebrities, studenti, ravers, politici, senzacasa, infermieri, famiglie. Spesso le categorie arrivano in clusters, altre volte mangiano spalla a spalla. E lo fanno senza fretta.
Nei ristoranti più o meno acclamati di New York, il conto alla rovescia per liberare il tavolo inizia nel momento in cui varchi la porta: 45 minuti per un tavolo da due, il tempo a disposizione incrementa in funzione del numero di ospiti, circa 15 minuti in più per ogni commensale. Il conto arriva in concomitanza dell’ultima portata accompagnato dal più vuoto dei “no rush”, carta di credito sul tavolo, grazie e arrivederci. Perché il tempo è denaro, e di grana in ballo ce n’è tanta. Ma nei diners, quelli vecchia scuola, il tempo non è una variabile. Il tuo ordine arriva: puoi saldare immediatamente o finire il pasto, un libro, un film, una conversazione che non può essere finita. Sembra un comfort modesto, ma è insuperabile. Pregherei fosse una policy anticiclica, ma la carenza di personale, la schizofrenia degli affitti e la brutale concorrenza rendono quel tipo di servizio insostenibile. Good Stuff Diner ha chiuso permanentemente nell’agosto del 2020. La pandemia il colpo di grazia. La vecchia guardia cede, gli storici chiudono, nuove specie emergono.
L’acciaio, le luci neon, il sapore Art Deco restano, ma le ore e le pagine da sfogliare si tagliano. Golden Diner di Sam Yoo, sotto al Manhattan Bridge, ha aperto nel 2019 optando per un compromesso di dodici ore di servizio sette giorni su sette. Offre classici come una commuovente Matzo Ball dalle proprietà galeniche, pancakes della consistenza delle nuvole, e intrattenenti variazioni sul tema, come il Chinatown Egg & Cheese Sando – uova strapazzate, American cheese e hash brown patty dentro a un panino al latte con semi di sesamo e cipollotto – o la pungente Kimchi Tomato Soup ammorbidita dal più ruffiano dei Grilled Cheese. Assenti i float, ma il Soju Bloody Mary funziona pure meglio.
Baby Blues Luncheonette, nella parte est di Williamsburg a Brooklyn, apre nel 2022 come diner greco in chiave contemporanea. È nostalgico e fresco come il loro H.L.T, con l’halloumi a soppiantare il bacon dell’istituzionale B.L.T sandwich. C’è Agi’s Counter a Crown Heights, con la sua sofisticatissima pasticceria ungherese e il Pogacsa, un pane biscottato con uova fritte, formaggio alpino e maionese. C’è Thai Diner, neo-colosso della cucina tailandese a Soho ma che del “diner” porta il nome e qualche tocco di design kitsch. Si applica la stessa logica nel Diner di Andrew Tarlow a Williamsburg, restaurateur extraordinaire che nel 1999 ha cambiato la faccia del quartiere aprendo uno dei più visionari e impattanti ristoranti della città dentro una vecchia carrozza ferroviaria. È palpabile lo sforzo di conservazione dell’estetica, cara ai più, ma forma e contenuto spesso divergono: quelli elencati sopra sono eccellenti posti dove scegliere di mangiare, alcuni sono davvero prossimi al concetto, ma non sarà certo come rivivere la vertigo effect della canonica scena in Goodfellas.
Di puristi ne esistono, quelli che salvano la baracca e la rimettono in piedi smaltandola il meno possibile. È il caso di Three Decker a Greenpoint, dove il cambio di gestione è stato quasi impercettibile ed è solo la qualità del caffè a essere sensibilmente migliorata – e i three deckers, i sandwich a tre piani, sono rimasti. Ci ha provato Old John Luncheonette accanto al Lincoln Center, attivo da oltre 70 anni e che con fierezza serve oggi gli eredi della storica clientela. Poi ci sono gli irriducibili, quelli che aggiustano il tiro e stringono i denti. Tom’s a Morningside Heights, lo Square Diner di Tribeca, il Bel Aire Diner ad Astoria, o il Pearl Diner a Wall Street, per citarne alcuni.
Non li scegli per la loro superiore esecuzione culinaria così come non bazzichi dive bars perché il guru della mixology sta dietro al bancone. Non che non si possa avere un pasto sublime in un diner (prendi Phoenicia Diner nelle Catskill, a qualche ora nord dalla città) o bere un’incredibile birra in un dive (guarda alla sterminata e curatissima rotazione alla spina da 7B Horseshoe Bar nell’East Village). Sono però quelli i posti in cui torni, quelli che anche se non te lo spiattellano in faccia portano il badge d’onore di stagioni di pavimenti appiccicosi, stickers nei bagni e gomme sotto ai tavoli. Hanno superato intemperie culturali e continuano a sopravvivere i più improbabili cambi d’umore. Sono posti pregni di memoria e resilienza e dentro, in qualche modo, ti senti al sicuro, coccolato, protetto.
A New York non si può stare fermi nel tempo, ed è tristemente probabile non saremo in grado di riscrivere il destino di questi e degli altri diners ancora attivi. Fateci un salto comunque, e capirete perché quel “we are happy to serve you” non sia uno slogan vuoto.