Testo di Lorenzo Sandano
Foto di Alessandro Ghirelli e Alberto Blasetti
“Credi che non ti capisca? Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere. Essere in ogni istante cosciente di te e vigile, e nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stesso. Provoca quasi un senso di vertigine il timore di vedersi scoperto vero? Di vedersi messo a nudo, smascherato, riportato ai suoi giusti limiti. Poiché ogni parola è menzogna, ogni sorriso una smorfia, ogni gesto falsità”
Monologo dal film Persona di Ingmar Bergman
Essere e non sembrare di essere. Questione di necessità, anche e tanto nella ristorazione. Logica bilanciata di contrasti, come una spremuta di vita da tracannare a goccia per restare umani. Non è succo, ma mate argentino quel che sorseggia lo chef Matias Perdomo, mentre ci riceve nel suo ristorante. Il Contraste, come inciso sul citofono di un innocuo cancello meneghino, nome quanto mai appropriato, per un locale che si erge come ritrovo mangereccio al riparo dalla frenesia cittadina. Anche nelle radici storiche della sua struttura: in passato, villa di un medico mecenate e benefattore, che era solito aprire le porte della sua dimora per accogliere malati, bisognosi e affamati del circondario. Aderenza totale a quel che si propone ancor oggi qui, rimettendo a posto i ruoli del ristoro, antico e moderno all’unisono. Perdomo e i suoi soci-compagni di avventura – il sous chef argentino Simon Press e il direttore di sala Thomas Piras – hanno voluto riversare questa missione con oculatezza e pensiero in ogni centimetro quadrato del proprio ristorante. Perché il modello di una tavola che celebra l’ospite, aiutandolo a conoscere e a riconoscersi, è uno degli obiettivi più delicati e profondi da raggiungere. In particolare, quando si maneggia un gesto così quotidiano e sacro come l’alimentazione.
“Ordine e caos, come sono io: a metà tra la mia casa privata e le mura del Contraste” spiega Matias mentre ci accompagna nel suo bilocale, a due passi dal ristorante. “La perfezione che ho voluto trasmettere e costruire nel mio locale non poteva esistere senza le figure contrastanti al mio carattere di Simon e di Thommy. Senza il disordine che sono e che vivo ogni giorno in questa tana. Tra i giocattoli della mia bimba, seminati di cibarie, bottiglie, appunti, sigari, scartoffie. E perché no, anche qualche merendina commerciale. D’altronde, il cibo di oggi è tanto rappresentato dall’industria quanto dalle ricette della nonna che siamo abituati a decantare”.
Manifesto/Modello Contraste
Si può dire tutto, molto e troppo sulla figura di Matias Perdomo e sul manifesto ristorativo di successo che sta promuovendo da qualche anno a Milano. Dal suo periodo d’esordio avanguardista al Pont De Ferr sui Navigli. Irriverente, chiassoso, provocatorio, che ne ha definito comunque un segmento identitario fondamentale. Sino all’attuale moto di ricerca non dichiarato: a salvaguardia del ricordo gustativo, che si respira varcata la soglia del Contraste. Leggende narrano che, al pari di una setta, il laboratorio che hanno messo in piedi, veda sedersi a confronto il cuciniere con il suo secondo, il maître, un filosofo e un ignaro ospite per sperimentare bizzarri abbinamenti e manipolazioni di materie prime e bottiglie. Non è l’incipit di una barzelletta, ma poco importa. Tutto detiene valore individuale e recintato nei margini dell’esperienza che ognuno vuole intraprendere qui. Possibilità, come di rado accade, a contatto con la cucina di questo grande cuoco e con l’elettrica accoglienza che viene alimentata in ogni sfaccettatura dal team di sala. Vederlo stappare bottiglie e affettare salumi e formaggi – filosofeggiando su copiosi sistemi esistenziali, cesellato dai riflessi decadenti della sua abitazione privata – ha una risonanza emozionale suprema. Contrastante, ma perfettamente coesa alla facciata speculare di un Matias impegnato in servizio al pass. Pervaso, come ogni componente della sua squadra, da un’energia magnetica. Mentre sbraita goliardico “Pikiamo forte sempre!” come inno motivazionale per la brigata. La verità è che l’intento di questo sensibile chef uruguaiano è proprio quello di dispensare verità edibile libeera dai dogmi non detti della creatività ostentata e della tecnica fine a stessa e libera dalla tradizione, ma avvinghiata alla sua sottana con rispetto adorante. Avanzando dal figurativo all’astratto, saldato ai concetti portanti di prodotto, memoria del gusto e trasformazione.
“La creatività forzata ti fotte, come ti fotte il comfort eccessivo. O peggio, un’appartenenza identitaria che non deriva da te” sottolinea Perdomo. “Sono nato in una dittatura sociale, dunque non potrò mai essere schiavo di una dittatura ai fornelli. I cuochi hanno il dovere di imparare a conoscersi e non riconoscersi in qualcosa che gli viene indicato. Ritrovare il piacere, il godimento nel vedere un cliente che gode quando assapora quel che tu hai realizzato. Anche al di fuori dalla riconoscibilità comune, cercando di dare corpo alle emozioni oltre le immagini note a tutti. Riscrivendo la memoria gustativa a partire dallo studio della materia e dal contesto quotidiano che ci circonda”.
Il serissimo gioco di Sala&Cucina
Eloquio dal tenore psicologico che risulta molto meno complesso nel reale di quanto sia impattante a parole. Risolto con immediatezza e appagamento, in uno scenario che molti leggono come un gioco: accomodati al tavolo, scegliendo il menu-specchio (percorso di menu degustazione alla cieca) si viene catapultati in una sequenza di assaggi dove sono proprio l’appetito e la personalità riflessa del commensale a fungere da guida per l’esperienza, lasciando specchiare (letteralmente) il cliente nel turbinio di portate recapitate nei piatti. Partendo dai caleidoscopici snack di benvenuto (crema bruciata di foie gras e fichi; finta-fragola di tartare e tonnata; sfera di sarda in saor) con tanto di specchio/scrigno ad personam, da aprire con una chiave: per soverchiare le porte di un viaggio verso e con sé stessi. Ludico in apparenza, ma sapientemente architettato a celare un gioco ben più arduo, applicato a un sistema di dialogo tra sala e cucina da giocolieri provetti. Perché è volontà insindacabile di Matias e del fido Simon non uscire quasi mai dalle cucine, affidando la traduzione empatica, emotiva, sensoriale dell’ospite nelle mani di autentici mattatori dell’ospitalità come Thomas Piras, la talentuosa Alessia Taffarel e l’intero staff di sala.
Insomma, reggere responsabilità e un grado di ironia e provocazione giostrata al millimetro, regalando il massimo del divertimento e del godimento a chi si proietta in questa giostra culinaria e affettiva. E poco importa se alcuni intercettano solo il lato giocoso di forme/ingredienti deformati e riformati in accezione eccentrica. Perché la falsità dell’apparire non ha mai sede in questo luogo. Il laboratorio in evoluzione costante di Matias, Thomas e Simon – diretto per lasciar esplodere la valenza del contenuto emotivo – ha un processo lungo e a tratti indefinito nella sua messa in pratica.
Menu Specchio/Riflesso
Trasportati simultaneamente in un abbraccio di culture, gestualità e tradizioni gastronomiche a contrasto: distanti dal riconoscibile visivo, ma vicini più che mai al fulcro del gusto. Come nell’esaltante variazione di antipasto ittico/terrestre con Ninfea di carciofi alla brace; spicchio di Polpo e patate (in bilico evocativo con la tortilla ispanica); Mosaico di ricciola (a sintesi del sushi); Empanada inversa di tonno (con il pesce a mo’ di involucro); carnosa Rosa di scampi in elisir di ceviche. E per finire una stratosferica Seppia e chorizo, in cui la texture del cefalopode concede un balzo mnemonico/palatale verso la consistenza dei lardelli del celebre salume spagnolo. Wow!
La ritualità complessa e ancestrale della brace trova verbalizzazione succulenta nell’Intestino ripieno di caglio, non sbianchito e bruciacchiato sensualmente a calor di griglia (usanza uruguaiana che combacia con la pajata romana e con le stigghiole palermitane). Gli iperbolici Rognoncini con anguilla di Cabras e sorbetto di aceto defibrillano un’idea di carpione smuovendo il connubio terra/mare più ardito: frattaglie e pesce d’acqua dolce in soluzione avvincente. La Tartare cruda/cotta di coniglio arrosto e l’Agnello dei Pirenei con patate, cavolo e sommacco sublimano nuances esotiche e sferzate mediterranee con una classe esecutiva che non necessità spiegazioni. Fila liscia verso il risultato, con piacevolezza unilaterale.
Nel capitolo di interpretazione ossequiosa della pasta – “Troppo ingombrante nella tradizione italiana, dunque troppo importante per chi è diventato italiano come me” dice Perdomo – si ragiona per sottrazione fisica e concentrazione gustativa inaspettata, ricollocando il carboidrato su livelli ignoti e stuzzicando ricettori di memoria eternamente vividi. Viene nobilitata in forma di caviale (per ridefinire l’iconica pasta, burro e caviale) in una minimale, eterea e penetrante armonia masticabile di Caviale di pasta e caviale. Perde il comune senso farinoso e amidaceo, nel corroborante e nipponico abito del Noodles di capesante, dashi e parmigiano. Polverizza la sua essenza e scivola sul tracciato del solo condimento, interpellando la salinità audace, trainante e limonosa delle Cozze cacio e pepe.
Muta in contesto pop e junk food – condensando umori dal candore immortale – con il delizioso Donuts con ragù alla bolognese. Si riappropria di ossatura e callo, nel mimetico contrasto di miseria e nobiltà, scandendo le cucchiaiate saporose di una memorabile Pasta mista fagioli e foie gras. Infine irrompe (come pre-dessert) in tutta la sua maestosa foggia classicheggiante e ammaliatrice, con il manico implacabile di uno Spaghetto aglio, olio, peperoncino e calamaretti spillo. Da ribaltarsi di piacere dalla sedia.
Contegno che viene meno anche difronte alla monumentale Torta di rose con gelato alla crema che piomba come un’astronave nel nucleo della mise en place. Impossibile prenderne meno di una fetta, facile prenderne più di tre, perdendo ogni dignità come il sottoscritto. Ma è questa anche la bellezza incontrastata del Contraste: una delibera sincera e non giudicante verso la gola, l’immaginazione e il riflesso di quel che ti trovi a essere senza inibizioni, nel cangiante intimo e sacro perimetro del convivio.
Nota della Redazione:
Matias Perdomo è uno dei quattro cucinieri milanesi che si sfidano a colpi di polpette nel romando gastro-criminale Milano spara, Roma risponde di Cook_inc. 25. Scrive Lorenzo Sandano: “Per un guerrigliero instancabile come Perdomo, la ricerca di nuovi stimoli è imprescindibile per conoscere se stessi nella vita e nel lavoro. Ogni rivoluzione però, si sa, porta una serie di vittime nel corso del suo svolgimento. E come manifesto di questo passaggio d’intersezione – tra l’attuale Contraste e quello che sarà tra qualche anno – la polpetta diviene l’omicidio inevitabile di una figura cardine dell’immaginario tradizionale: la Nonna. Nonostante le sue origini Sud Americane trovino riferimento nelle albondigas ispaniche (polpette radicate nelle influenze arabe delle al-bonâdiq), Matias ha scelto come scena del delitto il terreno minato della polpetta in umido all’italiana. Perché, come sostiene fermamente: “La cucina italiana è una cucina del mondo e chiunque si ritrova nel rito della tavola, delle emozioni e del convivio all’italiana. Che diventa di diritto un bene internazionale”. Come fondamenta del misfatto, si parte quindi dalla base storica/etimologica della polpetta, che derivando dal termine polpa, non viene realizzata con carne macinata, ma con un pezzo unico di carne. Tagliato e impastato tradizionalmente con parmigiano, pane bagnato, aglio, uovo e aromi. Avete capito bene, il piatto di partenza per l’uccisione della nonna è un classicissimo piatto di polpette al sugo, confezionato con tutti i crismi. Perché “per uccidere la nonna, prima bisogna amarla. Altrimenti rimarrà un peso sulle spalle da portare in eterno” afferma il nostro killer oratore […] Per negare ogni possibilità di resurrezione, lasciandole esalare l’ultimo respiro, lo chef prepara un impasto per polpette di carne in umido, non lo cuoce nel sugo e lo mette in abbattitore. Infine gratta questa polpetta cruda ghiacciata come fosse formaggio direttamente sulle spoglie gelide del cadavere, ossia il piatto finito. Per un evocativo/geniale effetto palatale all’assaggio: le polpette avanzate e fredde, ormai testamento di una tradizione deceduta, vengono divorate con appetito e indifferenza. Arraffate a mani nude in hangover, direttamente dal frigo. Come spesso Matias (ma anche un po’ tutti noi) ha fatto nella ruvidezza vissuta del suo bilocale. Dove i fasci di luce che mitragliano le finestre, vanno a scolpire la personalità raggiante di questo cuoco/assassino dal cuore d’oro e dall’estro inesauribile”.
Ecco la ricetta dell’Omicidio della Nonna”: polpette in umido all’italiana revolution.
Per le polpette
500 g di polpa di vitello
200 g di mollica pane raffermo
1 uovo
50 g di parmigiano
sale q.b.
pane grattugiato per impanare q.b.
Mescolare tutti gli ingredienti in una ciotola e formare delle polpette. Passare nel pane grattugiato. Dorare in padella con poco olio.
Per il sugo
100 g di cipolla
50 g di carote
50 g di sedano
150 g di vino rosso
1 kg di pomodoro pelato in scatola
sale
olio extra vergine d’oliva
Fare un soffritto con le verdure, aggiungere le polpette e bagnare con il vino. Fare evaporare l’alcol e aggiungere il pomodoro. Cuocere per 20 minuti. Condire e abbattere di temperatura fino a surgelare, filtrare da congelato dentro un panno umido. Con l’acqua ricavata dal filtro formare le pallottole e con la polpa rimasta dentro lo strofinaccio formare il pizzo.
Per le pallottole
100 g di colatura di polpette
1 g di agar agar
colorante alimentare spray color bronzo
Portare a bollore l’acqua insieme all’agar agar e colare negli appositi stampi a forma di pallottola. Fare raffreddare e rapprendere. Togliere dagli stampi e colorare.
Per il pizzo
400 g di polpa del sugo delle polpette
rimanenza della colatura q.b.
20 g di maizena
Frullare la polpa delle polpette con la maizena e passare al colino fine. Portare a bollore e stendere su tappeti in silicone. Mettere a seccare in forno per 35 minuti a 70°C con la valvola aperta. Coppare i fogli con una fustella a forma di pizzo.
Per la polpetta da grattugiare
50 g di scamone di vitello
Avvolgere in pellicola il pezzo di carne per ottenere una polpetta. Abbattere di temperatura fino a congelare. Togliere dalla pellicola e grattugiare da congelato direttamente sul piatto.
Contraste
Via Meda, 2
20136 Milano
Tel: +39 02 49536597