Testo di Letizia Gobio Casali
Foto cortesia di Amara
Nella piana di Catania, con l’Etna innevato sullo sfondo, a fine novembre gli aranci sono ancora carichi di frutti. Sono le cosiddette arance sanguinello, dalla polpa rosso cupo, che crescono solamente dove si verifica un’accentuata escursione termica tra il giorno e la notte. E se qui “all’epoca di mio nonno c’erano le viti” racconta Edoardo Strano, fondatore di Rossa sicily, azienda produttrice dell’amaro Amara, oggi dominano gli agrumi. Perché in questa piana le masse d’aria che da nord-ovest incrociano il vulcano, dopo essersi raffreddate, ne abbassano rapidamente la temperatura, creando il microclima perfetto per frutti dalla polpa vermiglia che dal 1997 hanno ottenuto l’Indicazione Geografica Protetta (Igp).
Sono appunto le arance il cuore della produzione agricola siciliana, e quindi quello di Amara, un liquore che ha conquistato il mondo, trionfando nel 2022 al World Liqueur Award, ma che racchiude il meglio della regione, pure se in versione aggiornata e lontana dal folklore. Lo stesso sito di imbottigliamento del brand, in Contrada san Martino, dimostra il medesimo approccio modernista rivisitando una masseria tradizionale in chiave contemporanea. Oltre a una grande sala da pranzo aperta a coloro che sperimenteranno l’Amara experience (la degustazione dei 3 liquori della casa), l’ex masseria ottocentesca del nonno di Edoardo presenta oggi una piscina a sfioro e 8 stanze, che saranno presto disponibili all’utenza raffinata e cosmopolita di The thinking traveller, probabilmente stufa dell’immagine stereotipata di una Sicilia tutta carretti e pupi. Le stesse bottiglie di Amara non mostrano concessioni alle tradizioni: austere, con etichette rosse ma minimal, spiccano da tempo nel repertorio dei più esclusivi wine bar della penisola.
Il bottiglificio si trova appena dietro la porta della sala principale. Vi lavorano stabilmente nove persone, che a volte sono i figli di coloro che coltivano le piante, dando vita a una continuità produttiva tra generazioni. Tutto viene fatto in loco “senza esternalizzare alcuna fase della produzione” prosegue Edoardo, che in queste sale veniva a preparare gli esami universitari della facoltà di economia. Le 150 mila bottiglie l’anno del classico Amara nascono interamente qui: le scorze di arance bio diventano un’infusione in alcool, cui – dopo 6 mesi –si aggiungono acqua delle sorgenti siciliane ed erbe mediterranee, senza bisogno di aromi né di additivi chimici. Il colore brunastro deriva dalle bucce degli agrumi e la percentuale di zucchero si aggira attorno al 13%. Il gusto è morbido, piacevole ed è quindi sorprendente pensare che il prodotto più esclusivo del brand amara, ovvero l’Amara Caroni, un “siero” con la morbidezza avvolgente del rum, contenga gli stessi ingredienti diAmara, benché in quantità diverse. “Invece è così” chiarisce Ivan Scavo, il liquorista del brand. La magia nasce facendo affinare per un anno l’Amara in botti di rovere provenienti dalla mitica società produttrice di rum Caroni, con sede a Trinidad. Ed è quindi semplicemente per osmosi dal legno che il liquore siciliano assorbe i sentori accattivanti dell’acquavite sudamericana e diventa un elisir “ruffiano – suggerisce Ivan – che viene voglia di trattenere in bocca” e la cui intensità viene amplificata dall’accostamento con il cioccolato all’arancia prodotto dalla dolceria Bonajuto di Modica per Amara.
E poi c’è l’ultimo nato, il Bark: una release di 2800 bottiglie nato dalla macerazione in alcolica della corteccia ricavata dalla potatura estiva degli alberi di arancio, con successiva aggiunta di acqua e zucchero (che è meno del 5%). Ne risulta un siero torbido dal gusto pungente e un po’ verde, sicuramente unico nel panorama degli amari italiani. Proprio per questa specificità vegetale, a dispetto del sapore gradevole, Bark sembra più un elemento da esaltare in un cocktail che un liquore da gustare in sé.
E in effetti, grazie a un’accurata miscelazione operata da Claudio Adelfio, head manager del Grand Hotel Timeo di Taormina, Bark si esprime al suo meglio. In Corteccia d’Inverno, cocktail che è entrato nella drink list di quello che è uno degli alberghi migliori del mondo (e che con gli oli alimentari di arancia prevede anche massaggi celestiali), si bilanciano impeccabilmente le sfumature vegetali di Bark con la piccantezza della tequila e del peperoncino e con la freschezza di menta, soda e cordial lime. Ma Barks ha dato ottima prova di sé anche in versione dessert, grazie alla creatività di Roberto Toro, l’executive chef dell’Otto Geleng, il ristorante del Grand Hotel Timeo. Lo chef, supportato dal pasticciere Benedetto Calabrò, ha trasformato Amara in gelatina e l’ha inserita nel dolce composto da
Crema di rapa rossa, gelato alla mandorla e appunto gelèe di Amaro Bark: una sinfonia trinariciuta in cui la dolcezza della crema alla rapa si accompagna alla morbidezza della mandorla e contrasta con l’amaro (zuccherato) della gelatina. Questo virtuosismo dolciario, dall’aspetto simile a un merletto in rosa fluo, è la dimostrazione che, anche nell’alveo della gastronomia di stampo siciliano, è possibile rinnovare e reinventare gli ingredienti locali senza fossilizzarsi in una tradizione ormai fine a sé stessa.
Lo stesso approccio al rispetto delle materie prime siciliane, ma in un’ottica contemporanea, ha consentito di valorizzare Amara Bark accostandolo a lavanda, succo di pompelmo, basilico, menta e rabarbaro, ovvero agli elementi naturali presenti negli orti della regione. Il cocktail che ne è derivato, denominato Hortus, è un’idea di Dario Ponticello, bartender presso Nunziatina, locale di Taormina che ricrea una casa tradizionale siciliana in chiave neobarocca. E così, ripensando alle tre tappe legate ad Amara, dalla masseria chic di Contrada san Martino, al Timeo, il mito dell’hotellerie adattato alle esigenze dell’attuale turismo d’elite fino alla dissacrazione ironica della tradizione di Nunziatina, un dubbio viene: non è che per caso Amara, con la sua idea di sicilianità moderna, sia l’esatto contrario di Dolce (& Gabbana)?
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