Testo di Andrea Petrini
Foto cortesia di Noma
Prima ti dicono “beato te che posto l’hai trovato”. Poi ti fanno a spada tratta la domanda che però vedi arrivare mezzo chilometro prima: “allora. Secondo te Noma è davvero il miglior ristorante del mondo?”. Alla quale ribattiamo invocando il diritto all’esquive (dixit il Garzanti Linguistico: esquive ovvero lo schivare; (fam.) l’evitare qlcu; (sport) schivata) citando a piene mani il padron di casa che da tempo la risposta ce l’ha pronta nel cassetto. “Noma non vuole essere il miglior ristorante del mondo ma il posto dove lavorare con le migliori condizione del mondo”. E quando spingi per l’ennesima volta l’uscio di casa, al ritmo di una volta e mezza l’anno, dal maggio del 2004 (insieme a Moreno Cedroni) a questo mercoledì 13 ottobre, se i conti son buoni e togliendo l’infausto millesimo 2020 quando restammo tutti rintanati in clausura, questa dovrebbe essere la ventisettesima volta. Migliorò ancora dalla zingarata precedente, il 14 dicembre del 2019, tanto da meritarsi mo’ pure la terza stella?
È sempre Raquel Welch la più bonazza del mondo o invece, oramai nella Hall of Fame come Adrià, Bottura, Colagreco, Humm, Roca e Redzepi, giuri solo e soltanto su Cate Blanchet & Tilda Swinton? In ogni caso varcata la soglia fa davvero immenso piacere ritrovarli tutti insieme e tanti, oh Madonna son davvero tanti. Manca solo la Mette (Søberg), il braccio destro norvegese in congedo maternità, ma nel frattempo son definitivamente rientrati dal Giappone pure Thomas Frebel col piccolo Tony. Sembra una vita che non ci si vede, o allora solo so Zoom e Facetime, un anno rubato è scivolato via. René s’è tolto la barba e tagliato i capelli (resti tra di noi, non gli chiediamo l’indirizzo del nuovo parrucchiere), exit dunque la mèche ribelle però una cosa la percepisci al volo, almeno appena ti siedi. Noma sarà quel che sarà, un’oasi felice e senza macchia in un mondo infestato da pubblicisti e da beceri arrivisti, un lab in tempo reale, uno show room che fa porte aperte al più lesto acquirente (stasera ci son più giornalisti piombati dal mondo intero che la paglia intorno alla cruna d’un ago in un granaio), un residence permanente con lo spirito del pop up irriverente, l’adrenalina dell’in vivo sempre nel DNA, ma imperfetto è e – per fortuna – lo resterà.
“La realtà non esiste” (Claudio Rocchi da Volo Magico N., nel 1971), la perfezione non esiste, o allora si chiamava River Phoenix e se n’è andato da tempo. Se l’imperfettibilità in un ristorante avesse senso allora noi NON saremmo stati costretti, alla vigilia del nostro desinare, a inviare la prescrizione del medico di famiglia, datata del 12 ottobre 2021, certificante in fede che “il signor Andrea Petrini deve, per conservare il suo benessere fisico e psichico, evitare l’eccesivo consumo di vini bianchi, privilegiando quelli rossi, eventualmente orange, ma di preferenza tutti naturali”. E credete voi che la sommelliera, Mees List, ci avesse dato retta? Un pochino sì. Ritrovammo un Volnay, e pure l’Anjou dell’eretico Olivier Cousin. Ma non fu il 13 ottobre una serata da Better Red Than Dead, con tutti gli equivalenti dei nostri ultimi innamoramenti (il Quilometro Vinho Tinto portoghese 2019, l’Organic Anarchy Radi Calls dello sloveno Aci Urbajs, il Parcelle N. 982 Grand Cru svizzero del Valais e via così). E diciamocelo, per fortuna andò così. Tra bianchi e rossi, lunga è la strada maestra che va all’incontro con l’Altro da sé. Faremo volentieri del cammino insieme, avanti tutta, indietro non si torna.
Ma lo sappiamo che scalpitate, che ce l’avete sulla punta della lingua. Ma ‘sto menu “Foresta” è pure meglio di quello delle invernali precedenti edizioni? Rispondessimo nero su bianco con impeto affermativo che sì lo è (ma resti tra di noi, lo confermiamo, lo giuriamo sulla nostra discendenza) cadremmo nella logica delle storiche avanguardie, nella cieca fede nel progresso, delle sempre nuove porte da scardinare e altrettante frontiere da conquistare. Noi siamo brava gente, degli eclettici dilettanti, all’anagrafe registrati sotto la voce common people. Restiamo dei gramsciani, sempre fedeli al (buon) senso comune. Per il cibo, per le valutazioni, per i punteggi, per i giudizi, chiedetelo agli esperti, a quelli che ci capiscono e lo masticano per professione. Noi, nel nostro piccolo confessiamo che per quattro ore avemmo il magone in gola. Per la fluidità, la materica evanescenza dei piatti, per l’understatement, la litote applicata a ogni piatto. Essere nel mezzo del cammino della foresta, tra rosse e cupe invernali tonalità evocate con briosa leggerezza quasi solo con verdure, erbe e panieri su panieri di funghi ancora imperlati di rugiada. È l’analogia che vige da Noma, l’enunciazione, il dialogo reso possibile interpellando il suo contrario.
“Hey Ciccio, e la ciccia in tutto ciò dov’è?”. C’è, c’è…. Ma è solo uno degli elementi, disseminato tra tanti, non il principale, di certo non quello essenziale. Sennò sarebbe troppo facile, perché da Noma nulla, davvero nulla è dato per scontato. La presenza brilla per l’assenza, il Brodo di funghi col sommacco vale quanto l’Anatra selvaggia presentata col suo cervellino, la Zucca al burro di Koji non è da meno del Dumpling d’orsetto col suo caramello – anzi. L’Anca Rosa farcita di polline fa l’effetto d’un UFO a ciel sereno, un intergalattico viaggio temporale che ti porta ben lontano, come il fatato Sashimi di barbabietole gialle a mo’ di coltre su susine e cloudberries, un viaggio speciale e spaziale almeno quanto il Guanciale di speck di cinghiale col “miso” di castagne. E a quelli che ammiccano, “ma dicci dicci, sto ragù di pene di renna, allora com’è?” risponderemo con le parole della zia Giustizia, locandiera e Mère Cuisinière a vita nel basso viterbese (democristiana sfegatata, l’Eugenie Brazier della nostra arborescenza famigliare scomparsa negli anni in cui Bettino Craxi si esiliò a Hammamet) quando, bisbetica indomata e accorta commentatrice del costume locale, diceva “un cazzo ne vale un altro”. Solo che qui, polvere eri e polvere tornerai, il pene di renna essiccato, è un fallicidio azzerato, una mise en abyme del patriarcato animale. Una sorta di #metoo senza note a piè di pagina. E così è se ci pare e allora pure tanto. Senza enfasi, con ironia. Per le chiose letterali, per le spiegazioni dottorali e l’infame storytelling in uso dappertutto, passate via, andate altrove, date retta a noi: Noma non fa per voi. Qui semmai l’emozione si distilla per omeopatia, variazioni infinitesimali di piacere e di cromatiche sfumature, l’arcano resta intatto, il mistero tutto intero. Vendessimo come dei commessi viaggiatori dell’epifania garantita a tutto spiano, vi aspettereste dei fuochi d’artificio a ogni portata. Affilate semmai la sensazione, interpellate la più selettiva disattenzione, tendete le orecchie, lo sguardo e il cuore insieme al cervello e l’emozione (av)verrà.
Metti una sera cena non con la Bolkan ma con la tua signora e ti arriva al tavolo una delle persone per la quale più rispetto hai su questo pianeta. È Thomas Frebel, l’astro fuggente di Inua a Tokyo, di ritorno al quartiere generale (confessiamolo, ci porteremo fin nella tomba la colpa della giuria dei World Restaurant Awards che nel 2019 decise, alla quasi unanimità, in un accesso d’inclusività politically correct di spingere un’allora sconosciuto ristorante sud-africano invece di far fronte comune con l’utopia realizzata d’Inua in Giappone). Lui è agile, s’inginocchia dinoccolato, son anni che fa del cross fit, un atleta di corpo e di pensiero che più serio d’Iseo ti spiega accortamente che nell’Insalata di porcini e castagne il latticello di nocciole per realizzarlo questo setoso/cremoso unguento “ci vogliono approx. tra i 50 e i 60 grammi di nocciole fresche a porzione”. Al cinema, si chiamerebbe uno spoiler. Quando non hai chiesto niente e ciò nonostante ti si svela un inaspettato retroscena finale. L’hitchcockiano whodunit, chi l’ha fatto, perché l’ha fatto, come fu fatto. Tu lì per lì non sai che dire, chiedi venia, no per cortesia non defloriamo la poesia, ma Thomas è un crucco, uno vero, nato a Magdeburgo nel 1983, troppo tardi per il Krautrock degli anni 70, ma la sua metronimia ce l’ha nel sangue. La razionalità, la voglia di spiegarsi, di mettere a nudo l’impegno, la devozione all’ora et labora quotidiano, la porta dentro. Sembrerebbe, viste le circostanze, un fuori tema, uno scarto all’implicito, una confidenza, una confessione che viene dal cuore. E allora il Frebel hai solo voglia di cingerlo tra le braccia. Di sciallare insieme, felici come due ragazzini. Quando fu l’ultima volta al ristorante che quasi baciavate un cuoco davanti a vostra moglie lì accanto? E lei per poco non faceva altrettanto….
Un mesetto più tardi, la giornalese canadese Marie-Claude Lortie chiedeva a Redzepi, collegato via Zoom all’European Food Summit di Ljubljana, “ma come?, c’è stata la pandemia, tanta sofferenza, si parlò del Vecchio Mondo dato per spacciato e del Nuovo Mondo che sarebbe arrivato e Noma non sembra tanto cambiato. Much ado about nothing, per continuare a far del fine dining?”. E il capo cordata, il migliore della (sua) classe (1977) rispondeva che la creatività non la si doma, prende dei cammini inaspettati, non viene da uno, ma da tanti, da tutti, chissà cosa avverrà, che forma nel futuro prenderà. Intanto la pandemia non è finita qui, ce la porteremo appresso un bel po’, per tutto l’inverno di sicuro, staremo a vedere cosa accadrà e ci accadrà. Nel frattempo, lui di sera legge dei libri di poesia, la storia di Noma evolve giorno dopo giorno, grazie a tutti, quelli che ci sono dal primo servizio, quelli che se ne sono andati per volare verso lidi loro, quelli che ci son passati, per uno, due, tre mesi e pure meno. Ognuno ci ha messo del suo, i legami non vanno mai persi, parlare di filiazione magari è esagerato, però va bene dire che sono tutti degli allievi del Noma. Gli esami non finiscono mai, aggiungiamo noi, men che meno mo’ con le tre stelle. Come la realtà, il traguardo non esiste. Più rapido e inafferrabile d’una lepre, non l’impallini mai. No ma! – Viva la libertà.
Noma
Refshalevej 96
1432 Copenaghen – Danimarca
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