Reportage
vita artica
The Northernmost
Diario di una notte polare lunga cinque giorni alle Isole Svalbard
Da Cook_inc N. 40
The Northernmost
20 minuti


78 gradi Nord: qualsiasi cosa si trovi a questa latitudine può vantarsi di essere “la più a nord del mondo” senza temere smentite. Siamo a 4.052 chilometri da Roma, 3.326 da Parigi, 2.046 da Oslo soprattutto ad appena 1.309 chilometri dal Polo Nord. L’arcipelago delle Svalbard non è un semplice punto sulla mappa: è il limite del mondo conosciuto dove l’Europa si dissolve nel ghiaccio e nel silenzio. Un gruppo di isole a malapena visibile sul globo, schiacciato sotto il perno del mappamondo, che dal 1925 appartiene amministrativamente alla Norvegia ma per moltissimi anni è stato “terra di nessuno”. Ricoperte (per ora) al 60% da ghiaccio, le isole Svalbard sono quel posto in cui la natura la fa da padrona, incontrastata e a volte pure incazzata. Sono il regno del re dei ghiacci: l’orso polare. Arrivare a questa latitudine è già di per sé un atto di sfida: non è un viaggio, ma un pellegrinaggio laico, una resa dei conti con sé stessi. Tutto richiede tempo alle Svalbard. Le ore di volo effettive non sono molte – circa sette dall’Italia – ma le attese e gli scali amplificano la percezione di star andando davvero molto lontano, in un altro universo che è sorprendentemente un Eldorado gastronomico.

Notte 1, l’arrivo

È metà gennaio e il viaggio inizia in una Milano fredda ma troppo calda per gli scarponi invernali. Ho scelto di partire con il solo bagaglio a mano per l’ansia da valigia persa; quindi, ho dovuto fare i conti con la razionalizzazione dell’abbigliamento termico e la programmazione del “vestirsi a cipolla”. Passo la notte nell’aeroporto di Copenaghen, itinerante tra le panchine e le poltroncine del gate B, faccio una tappa di un paio d’ore a Oslo, prima di imbarcarmi per l’ultima tratta: destinazione Longyearbyen, la capitale amministrativa delle isole Svalbard nonché il centro abitato permanente più settentrionale del mondo. Quando l’aereo comincia la discesa, l’arcipelago norvegese emerge dal nulla: un mosaico di montagne ripidissime in una coltre di bianco puro. Non c’è gradualità: le isole Svalbard non si concedono a poco a poco, appaiono e ti colpiscono come un pugno. Scorgo una cosa blu che brilla come un diamante nella montagna; scoprirò più tardi che quello è il Global Seed Vault, la grande cassaforte incassata nel permafrost che custodisce le biodiversità botaniche di tutto il pianeta a -18°C. Una sorta di polizza assicurativa per il futuro agricolo mondiale.

È notte polare: ventiquattro ore di costante oscurità per circa quattro mesi l’anno. Il sole ha salutato le isole a metà novembre e riemergerà all’orizzonte l’8 marzo per dare inizio al sunny winter, nel frattempo, il giorno è buio quanto la notte, salvo quando l’aurora boreale danza nel cielo con scie di verde e viola fosforescente. Il tempo diventa una decisione arbitraria, i minuti si dilatano fino a sembrare ore. Il corpo gravita in una continua sensazione tra “mi sono svegliato troppo presto” ed “è già dopocena” e inaspettatamente tutto quel buio non mette sonno. Rilassa, ha degli effetti persino positivi, rigenerativi. Mi spiegano che è molto peggio convivere con il sole di mezzanotte, una condizione stressante quasi stremante: “Immaginati di uscire bello brillo dal pub alle due del mattino e di trovarti in faccia il sole potente di mezzogiorno” spiega una guida escursionistica.

Le Svalbard sono un ossimoro vivente, un teatro di contrasti estremi: terra di orsi polari e minatori, di scienziati e di sognatori, di paesaggi primordiali che sembrano l’anteprima di un pianeta alieno. Tutto è coperto da neve e ghiaccio. È uno scenario che respinge e seduce, che costringe a vedere quello che altrove ignoreresti. La domanda non è “come si sopravvive”, ma “come si vive davvero” al limite del globo, dove la natura impone il suo ritmo arcano e l’uomo è un ospite precario, consapevole di esserlo. Qui ogni cosa sembra sovvertire le leggi del possibile e la vita pulsa più vivida che mai. Le tre parole chiave quassù sono: rispetto, inclusività e comunità

Notte 2, Longyearbyen gastronomica

Longyearbyen è la città, il posto dove c’è tutto quello che serve (o potrebbe servire). È l’insediamento più grande dell’arcipelago (unico norvegese, l’altro paesone – Barentsburg – è la città mineraria russa di 500 abitanti circa), conta circa 2.800 abitanti ma “ci sono più orsi polari che esseri umani”. Che è una mezza verità: 3.000 sono gli orsi polari che vivono in pianta stabile in tutto l’arcipelago, che è grande il doppio del Belgio. In ogni caso è bene sapere che il rischio di un incontro ravvicinato con il re del Polo c’è ed è sempre dietro l’angolo. Per uscire dalla zona di sicurezza – il perimetro della cittadina delimitato dai due iconici cartelli stradali di “attenti all’orso” – è necessario essere armati di fucile. Va da sé che è caldamente consigliato ai turisti di uscire dal centro soltanto in tour organizzati con guide addestrate a occuparsi della sicurezza di tutti.

Piccola comunità, grande proposta gastronomica.

È sorprendente scoprire che ai confini del mondo si trova un’offerta culinaria variegatissima. Ci sono oltre quindici diversi ristoranti di ogni genere e tipo, dalle varie pizzerie al sushi bar, dai pub al gastropub al food truck messicano, dal ristorante thailandese ai ristoranti fine dining (plurale, ce ne sono diversi nonostante il numero esiguo di abitanti). Poi ci sono i café: accoglienti, intimi, praticamente dei salotti di casa di tutti e per tutti. Il Café Huskies è un amore di posto solo a ripensarlo mentre scrivo: una stanza di dimensioni contenute con divani, libreria e selezione di due cani husky (a rotazione tra una moltitudine) che si fanno coccolare dai clienti che si godono lunghe pause caffè accompagnati da dolci fatti in casa. Il Fruene è il meeting point per i locali, nel “centro commerciale” di fianco al supermercato: è caffetteria, cioccolateria, pasticceria, banco “light lunch” – con piatti semplici preparati freschi e a vista – shop con souvenir non banali e una parete di lane colorate e attrezzi da uncinetto: lavorare a maglia è un’attività molto gettonata nel tempo libero a questa latitudine.

Longyearbyen è una cittadina cosmopolita, un melting pot di offerte, di esperienze e di persone provenienti da tutto il mondo, di una cinquantina di nazionalità diverse. È un luogo vibrante e pieno di calore che pullula di eventi durante tutto l’anno come il Polar Jazz, il Dark Season Blues per citarne alcuni, ma soprattutto il Taste Svalbard per i gastrofanatici: a ottobre, quattro giorni di festival gastronomico – il più settentrionale del mondo, certo – dedicato alla cucina artica, che non ha niente a che vedere con nessuna tradizione ed è una questione di (pochi) ingredienti reperibili e (tanta) miscellanea culturale. Alle Svalbard si trova un bignami di mondo, di culture e persone che si incrociano e si integrano nel rispetto assoluto dell’ambiente circostante. Tutti sono stranieri, ospiti temporanei: non si può né nascere né morire alle Svalbard. L’ospedale di Longyearbyen non è attrezzato per le emergenze; le future mamme devono lasciare l’isola ben prima della data prevista per il parto e non possono esistere cimiteri: il permafrost e le temperature estreme impediscono la corretta decomposizione dei corpi. Ci sono tante altre peculiarità da sapere: c’è un elevato turnover di persone – in media un quinto della popolazione cambia ogni anno – e al tempo stesso è permesso a chiunque, di qualunque nazionalità, di vivere e lavorare qui per un periodo indefinito, non serve alcun visto. Le strade non hanno nomi, ma numeri e questo è un retaggio della vita mineraria, ma d’altronde non si perde neppure chi non ha confidenza con le mappe: la strada è una e porta alle miniere e alle “zone di interesse” strettamente vicine al centro; fuori città si va solo in motoslitta. Non ci sono banche e neppure ATM per ritirare soldi, si paga solo con la carta. La vita si basa talmente tanto sul senso di comunità e di fiducia reciproca che non si chiudono a chiave le automobili e nemmeno le porte di casa: possono servire da rifugio per bufere di neve improvvise o in caso compaia un orso polare. Sull’arcipelago vive un cane ogni due persone, mentre è assolutamente vietato portare gatti per salvaguardare le tante specie di uccelli che lo visitano durante le migrazioni. Qualsiasi struttura è sopraelevata per ovviare al problema di instabilità del permafrost: le case sono su palafitte e tubature e cavi sono all’aria aperta. A Longyearbyen c’è una piccola chiesa aperta senza sosta per i praticanti di ogni fede con tanto di angolo caffetteria in cui ritemprarsi; anche la biblioteca è aperta h24. La vita sociale passa da Facebook in svariati gruppi dedicati, come il popolarissimo mercatino dell’usato regolato dal baratto. Ogni cittadino ha una carta su cui vengono annotate le quantità di alcolici che si possono acquistare ogni mese, ma l’alcol consumato nei locali è esente da controllo tessera. E a proposito di alcolici, in città si trovano sia una delle cantine vini più grandi di Scandinavia (al ristorante Huset) sia una delle selezioni di whisky e cognac più accurate d’Europa (al Karlsberger Pub). Incredibile vero?

Notte 3, chef Alberto Lozano Avilés e Huset

“Stai mangiando su un piatto di sessantamilioni di anni fa dice Alberto Lozano Avilés, chef del ristorante Huset, chicca gastronomica all’interno di un edificio fondamentale nella storia della comunità mineraria della città che ora ha un altro ruolo altrettanto cruciale. Si potrebbe chiamare cucina artica quella di Alberto, ma molto più complessa e profonda: ha a che fare con la conoscenza, l’intelligenza, la cura e il rispetto. “Su questa pietra ci sono le foglie tropicali, in un’altra vedrai il bambù. Sono tutti fossili che ho trovato qui”. In un attimo metto insieme le nozioni che ho appreso allo Svalbard Museum e realizzo che le Svalbard sono un libro di storia geologica. Milioni di anni fa l’arcipelago si trovava più o meno all’altezza dell’Equatore, ospitava una rigogliosa foresta tropicale con tutta la vegetazione del caso, i dinosauri camminavano sulla terra e creature fantastiche nuotavano nei mari. Ora tutte le loro tracce giacciono come strati di roccia nelle montagne dell’isola. Nel tempo, le Svalbard si sono spostate fino a dove si trovano oggi, sotto al Polo Nord, attraversando una moltitudine di climi; e continuano a spostarsi ancora oggi, 2,5 centimetri verso nord-est ogni anno.

Alberto e la sua brigata vanno alla ricerca di fossili, marini e vegetali, tra i ghiacciai e i fiordi; “sono facilissimi da trovare – spiega – e così facendo riduciamo anche le cose da importare. Stiamo pian piano eliminando ciò che viene da lontano, per esempio ci produciamo i nostri aceti con gli scarti della cucina. Non ho scoperto l’America con questo, ma la nostra intenzione è ottenere acidità senza importare la frutta”. Alberto Lozano è spagnolo, di Albacete, non proprio un ecosistema simile a quello delle Svalbard. Di base è un giramondo, o come dice lui un iperattivo: ha girato per anni tra cucine internazionali, da Madrid a Maiorca a Ibiza poi a Londra, ai Caraibi, in Grecia, in Corsica. Per cinque anni ha avuto il suo ristorante ad Albacete, Xantarella, e per dieci anni l’executive chef di una compagnia svedese di alberghi. Come si decide di fare cucina artica in uno dei ristoranti più a nord del mondo con l’obiettivo di renderlo un place to be? Risponde: “Un po’ come decidono tutti, ho scoperto l’arcipelago grazie a una coppia di amici argentini che si è trasferita qui e mi ha parlato di Huset, questo progetto super interessante di Hurtigruten Svalbard. Julien Carron, il food&beverage manager, mi ha contattato, abbiamo parlato mezz’ora al telefono e ci siamo intesi subito. Vivevamo nelle Alpi francesi, in Val Thorens (sua moglie Tiphaine, è originaria di quella zona) ero già abituato a vivere nella stazione sciistica più alta d’Europa, in mezzo a tantissima neve, dove non ci sono alberi e amavo quel contesto. Non ci ho pensato due volte e così, dopo due anni e mezzo qui, mia moglie e io ci sentiamo Svalbarians”.

La notte polare? “Non riceviamo nulla durante i mesi del grande buio, non ci sono né pesca né cacciagione. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno arriva al ristorante entro ottobre e noi lo lavoriamo per preservarlo. Coltiviamo qualche fiore edule e i funghi, una mia grande passione”. All’ultimo piano Alberto ha creato una piccola “serra” in cui – riutilizzando i bottiglioni di plastica dell’acqua frizzante come vasi – fa crescere fiori, erbe aromatiche e funghi, appunto. Un piccolo laboratorio con tanto di lampade colorate per stimolare la crescita, con fotografie di piatti e piante appese alle pareti; è la sua stanza del pensiero. Il menu della notte polare è una sorta di passeggiata estiva, ma preservata. E sembra tutto sorprendentemente fresco. Pullulano le alghe, “che abbiamo la licenza di raccogliere” così come il plancton per cui è stato avviato anche un progetto insieme a Green Dog (azienda a conduzione famigliare specializzata in escursioni in slitta trainate da cani) “ma è complicato perché stiamo cercando di raccogliere soltanto il fitoplancton”. Il team di Huset ha ottenuto la licenza anche per la raccolta del mountain sorrel – specie protetta nativa dell’arcipelago che ricorda l’acetosella – un’erba acidula, rinfrescante, “la nostra vitamina C” spiega Alberto. Le verdure arrivano dalla Norvegia e tutte le proteine sono solo e soltanto delle Svalbard: renna artica, dalla carne molto diversa rispetto alla renna continentale: “è super rosa perché qui l’animale non corre, è una carne simile a quella dell’agnello”; ptarmigan, una sorta di pernice bianca grassa che risiede nell’arcipelago per tutto l’anno senza migrare; foca:

“il nostro maiale, ne abbiamo in abbondanza e dobbiamo usarne le carni il più possibile anche se non è facile da lavorare. È importante sapere che qui non facciamo nessuna mattanza di foche, cacciamo il singolo animale solo quando è necessario, uno alla volta”.

La foca viene frollata, messa sottaceto e affumicata. Nel menu è combinata a una sorta di besciamella – fatta con stufato di carne – in una Croqueta alla spagnola servita con maionese al garum di foca e polvere di garum di foca. La renna diventa un Chorizo artico pazzesco con aggiunta di grasso di foca; ed è spaziale sotto forma di qualsiasi salume a partire dalla coppa. Ogni tipologia di conservazione è applicata: lattofermentazione, salamoia, vari livelli di fermentazione alcolica, garum di tutto, succhi, kombuche e bevande no-alcol. E ancora, gli scarti del birrificio locale, Svalbard Brygger (sì, il birrificio più a nord del mondo) diventano farine per il pane. Cucinare qui è capire dove sei e rispettarlo: si deve unire tutto quello che l’isola dà con le influenze di tutte le culture che ci hanno vissuto. Il zero waste è primordiale “perché quassù ci pensi due volte a buttare via qualsiasi cosa”. Il ristorante Huset lavora per ridurre al minimo gli scarti e l’utilizzo di plastica. Ad esempio, i recipienti degli yogurt utilizzati negli hotel vengono trasformati in contenitori per la cucina.

I’m breaking the borders, Alberto lo ripete più volte. “Dopo 25 anni in cucina mi sono sentito pronto per rischiare di più. Uscire dalla mia zona di confort è importante, soprattutto quando senti un certo livello di monotonia, quando cucini senza pensare e questo nella mia iperattività significa soltanto cattive notizie. È challenging, ma è proprio questa la bellezza di essere qui: vedere i limiti come opportunità. Quando sono arrivato ho avuto tre mesi di tempo per indagare tutto un ecosistema diverso dagli altri, per conoscere il posto e i cacciatori – non ci sono allevatori qui, solo cacciatori – per studiare le proteine, le fermentazioni”. Ecco, le fermentazioni e le proteine sono decisamente la chiave di lettura della cucina di Alberto Lozano e del suo progetto che ha una valenza importantissima al di là della bontà delle cose. Forse un po’ tutti dovrebbero dare un’occhiata a quello che sta succedendo a Huset. “È un progetto onesto, che ha senso. È semplice fare storytelling con qualcosa di gestibile, ma dietro a ogni cosa nostra c’è qualcosa di più che va oltre il cuore. Se si rompe un macchinario sappiamo che potremmo stare anche tre mesi senza poterlo sostituire, non sappiamo mai con certezza se la nave che trasporta le derrate alimentari arriverà al porto finché non è attraccata, non sappiamo quante renne avremo a disposizione… Patiamo l’isolamento e le difficoltà, ma sappiamo quello che vogliamo: che tutte le cose provengano da qui per preservare quello che abbiamo”.

Alberto Lozano lo stanno invitando in molti congressi di cucina, è lo chef da tenere d’occhio a nord del mondo. Ne è sorpreso e orgoglioso, “ma noi siamo contenti che le persone vengano quassù e capiscano il nostro progetto nel suo contesto”. Anche se lui si diverte a fare comunella in giro e a portare quel lavoro polare oltreconfine, Huset è un destination restaurant anche perché possiede una delle cantine più grandi della Scandinavia con oltre 6.000 bottiglie, lavoro di ricerca e collezione iniziato dall’ex proprietario Hroar Holm negli anni 80 e che oggi prosegue con un occhio di riguardo ai vini del nuovo mondo, grazie al lavoro di Máxime Resse, restaurant manager e sommelier di Huset.. E poi, è un frammento della storia delle Svalbard. È stato il centro nevralgico della società mineraria dal 1951, l’edificio a metà strada tra gli alloggi dei minatori e la residenza dei manager che univa tutti sotto lo stesso tetto con tanto di teatro/cinema, varie sale dedicate a diverse attività, centro postale e ristorante/bistrò in cui per un periodo si consumavano gli orsi polari, ma solo dopo aver firmato una dichiarazione di assunzione delle proprie responsabilità da parte del cliente. Quello che oggi è ristorante fine dining Huset è stato una sala da bridge fino al 1977 e per mantenere un po’ di quel significato di luogo in cui riunirsi, ogni sabato il secondo piano diventa una bakery/caffetteria e si aprono le sale del bistrot per tradizionale Saturday Steaks.

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Europa/Norvegia
Huset

Notte 4, un po’ di storia

Non distante da Huset, il Funken Lodge era la residenza dedicata al personale amministrativo, era l’edificio elegante. Oggi è un adorabile boutique hotel che riflette il forte fascino storico culturale. Rimane leggermente rialzato rispetto alla cittadina e quindi gode di una vista privilegiata sul centro abitato e sulle montagne che lo circondano. Il Funktionærmessen è il ristorante dell’hotel, un fine dining dall’atmosfera molto rilassata (per inciso, tutti gli ospiti indossano le ciabattine di lana d’ordinanza dell’albergo) e una cucina che viene definita internazionale: ingredienti norvegesi, proteine soprattutto artiche e nessun confine nell’approccio. L’obiettivo è fare quel genere di cibo tanto raffinato quanto spontaneo, con ogni sapore al suo posto, universale. Anche la cantina vini qui non scherza con una ampia selezione di Champagne e una carta che ingloba tutti i Paesi del mondo vinicolo “per far sentire a casa tutti”.

È importantissimo sapere che la vita nell’arcipelago è iniziata negli anni 20 con i primi insediamenti minerari permanenti per l’estrazione di carbone, uno dei più puri al mondo. A venire quassù erano i minatori e i gestori, erano tutti uomini. Poi sono arrivate anche le donne e i bambini ed è stato creato dal nulla tutto ciò di cui c’era bisogno, a partire dalle opportunità di svago. Le miniere sono state sette, hanno chiuso tutte a parte una che cesserà di lavorare quest’anno (“così pare, lo dicono da due anni”). Sicuramente la società è cambiata tanto e da luogo di minatori, cacciatori di pellicce ed eroi polari è diventata polo d’attrazione per scienziati e turisti. Ricerca e turismo saranno le attività che definiranno il futuro prossimo di questo luogo remoto con tutte le limitazioni del caso: si dovrà sviluppare un turismo estremamente responsabile e molto controllato. La natura è troppo fragile qui.

Posto
Svalbard
Funken Lodge

Nonostante la notte polare possa far pensare il contrario, sono molte le attività outdoor da fare anche quando fuori è buio. Hurtigruten Svalbard è l’agenzia turistica più grande cui affidarsi ciecamente; è proprietaria di Huset e Funken Lodge nonché di Coal Miner’s Cabin, una sorta di hotel più spartano, perfetto per i più avventurieri. Si può andare in visita alla Mine 3, chiusa da qualche decennio, gattonare come i minatori nei cunicoli sperando di non avere attacchi di claustrofobia e scoprire che proprio dentro a quella miniera sono conservati, nascosti sotto 250 metri di montagna nel permafrost, i segreti dell’umanità. C’è il primo Seed Vault, ancora attivo per la sperimentazione, con i semi delle coltivazioni più importanti conservati nel permafrost (a -4°C) senza refrigerazione artificiale; è una sorta di backup del Global Seed Vault che si trova vicino all’aeroporto. E c’è l’Artic Memory Archive, la cassetta di sicurezza della memoria mondiale sotto forma di pellicola. Ci sono opere d’arte, informazioni sensibili, la Bibbia… e pare che McDonald’s custodisca le ricette delle famose salse dei burger proprio lì dentro.


Per esperienze back to basics c’è la gita al Camp Barentz: cena e spettacolo di aurora boreale se si ha la fortuna di non trovare il cielo nuvoloso. All’interno di una capanna teepee intorno a un grande fuoco, si ascoltano i racconti tra storia e leggenda delle spedizioni del navigatore William Barentz (cui è attribuita la scoperta dell’arcipelago, o quanto meno il suo inserimento nelle mappe mondiali) e quelli astronomico/scientifici sull’aurora boreale; si mangia prima una bollente Zuppa di renna artica (ricetta Sami) e poi un ghiotto Brownie artico (ovvero: doppio burro, doppio cioccolato e doppio zucchero). Per i più grintosi c’è la possibilità di fare un’escursione storica ad Adventdalen, due ore di ciaspolata nel buio reale circondati dal silenzio, a stretto contatto con la natura selvaggia, ascoltando le narrazioni sulla vita dei cacciatori di pellicce delle Svalbard e l’evoluzione della società moderna. Un’immersione talmente intensa che i -25°C dritti sul volto passeranno in secondo piano.

C’è un gran però in tutto quello scritto fino a ora: l’arcipelago si trova nella parte del mondo che si sta riscaldando più velocemente; il ghiaccio e il permafrost si stanno fondendo, le temperature si sono alzate vertiginosamente (l’estate scorsa il termometro è salito sopra i 20°C) e le precipitazioni nel deserto artico non sono più così rare. Le Svalbard sono diventate un laboratorio unico per lo studio dei cambiamenti climatici: sono un termometro per il resto del mondo. Alberto Lozano sta girando di congresso in congresso anche e soprattutto per sensibilizzare su questo cambiamento climatico così evidente quassù, di cui l’orso polare, è il principale simbolo. Allo stesso tempo le Svalbard sono un grande paradosso ambientale, ma questa è un’altra storia, per cui ci sono molteplici libri e studi scientifici per approfondire.

Notte 5, ritorno alla luce

È arrivato il quinto giorno, è ora di tornare. C’è una sorta di tempesta che spaventa tutti i passeggeri, ma la nonchalance del personale SAS sulla faccenda ci convince a salire senza troppi pensieri. Guardo fuori e mi soffermo su quelle montagne brulle. Credo che star a lungo nel buio ti porti a vedere quello che non avresti mai visto con la luce. Si chiama adattamento forse, ma è più bello chiamarlo magia. C’è qualcosa di magico nell’affrontare l’ignoto, nel vivere dove il confine tra l’uomo e la natura è più sottile che mai. Forse, questo è il vero spirito delle Svalbard: vivere profondamente sentendo ogni battito della terra. Una cosa è certa, qui, all’estremo nord del mondo, si possiede una visione delle cose diversa. Mentre l’aereo decolla mi tornano in mente le parole di Alberto Lozano:

“Il giorno in cui lascerò questo posto sarà il giorno più duro della mia vita, lavorativamente parlando, per l’amore che ho per questo luogo. C’è qualcosa di più estremo di quello che si vive qui nel posto più a nord del mondo?”. This is what the Arctic tastes like.

Ndr: Per conoscere tutto della vita alle Svalbard è stra-consigliato seguire i video di Giulia Di Marino alias @giuliaalpolo su You Tube che raccontano con sincerità ed entusiasmo tutte le curiosità di cui avete bisogno.


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