All’ennesima curva inizi a chiederti se avresti dovuto accettare la pillolina che ti aveva offerto così gentilmente Aashina prima di salire in macchina all’aeroporto di Chandigarh. “Sono abituata, non soffro il mal di macchina”, mi sono detta, senza pensare al fatto che in India è tutta un’altra storia. Qui le macchine sfrecciano a tutto fuoco sulle curve neanche fossero sull’A1 in Pianura Padana e i “quasi-incontri”, o meglio “quasi-scontri”, si moltiplicano senza sosta. Ma basta guardare l’autista impassibile, che non si scompone di un millimetro nemmeno quando sfiora il camion che arriva dalla direzione contraria, per capire che lo potrebbe fare a occhi chiusi e che, in fin dei conti, sei in ottime mani. Il viaggio è accompagnato da una soundtrack non-proprio-armonica di sottofondo, ed è chiaro che i conducenti preferiscano usare il clacson piuttosto che il freno. Fuori dal finestrino, la vita scorre tra una moltitudine di persone, sari e abiti colorati, macchine incastrate, mucche che attraversano la strada, motorini sovraccarichi e street food a ogni angolo. Non c’è pausa per i sensi. Per chi è “vergine” del Subcontinente indiano potrebbe essere un benvenuto effetto shock, come una secchiata d’acqua fredda sul viso al risveglio, mentre per chi torna è un grande abbraccio che urla “bentornata”. L’India ha questo potere: afferra, rapisce, avvolge. E per apprezzarla appieno, bisogna lasciarsi andare e immergersi nel meraviglioso caos.
Due ore, (se va bene) di slalom verso Nord, lasciandosi indietro la città e immergendosi nelle montagne himalayane. Una salita che sembra non finire mai, con il picco a 1800 metri sopra il livello del mare che dà la falsa speranza di essere arrivati. No. Si gira, si rigira e si riscende un po’ fino ad arrivare a destinazione: una casetta con vista panoramica e… la quiete completa, una culla di pace e tranquillità. Perché questa è l’altra India, l’antidoto al caos. Una calma e una serenità non sempre visibili in superfice, ma che si rivelano nell’essere delle persone, nella loro accoglienza, gentilezza e genuina disponibilità verso gli altri.
L’India ha questo potere: afferra, rapisce, avvolge.
Siamo nella zona di Kasauli, nello specifico in un piccolo villaggio chiamato Darwa, nella regione di Himachal Pradesh, nell’India Settentrionale, a una latitudine di circa 30 gradi Nord. In un giorno limpido spunta in lontananza la maestosa catena dell’Himalaya disegnando il cielo come il fondale di un palcoscenico. Sono una sorta di “Alpi indiane”, avendo la stessa età geologica della catena montuosa più importante d’Europa, ma decisamente più imponenti, con un’estensione totale di circa 600.000 chilometri quadrati, disposto in senso nord-ovest/sud-est tra la Cina e l’India, che attraversa ben otto Paesi. Dal sanscrito, Himalaya significa “dimora delle nevi” (hima: neve, e alaia: dimora), per le numerose cime innevate che superano i 6.000 metri – alcune al di sopra degli 8.000 metri – tra le quali il famoso Everest. È una zona di grande importanza geografica, climatica e ambientale, che fornisce acqua a miliardi di persone, influenza il clima regionale e ospita una vasta biodiversità con fitti boschi e diverse specie di flora e fauna specifiche della zona, incluse varie in via di estinzione. È un’India sicuramente meno conosciuta, ed è proprio qui che lo chef Prateek Sadhu, originario del Kashmir (regione confinante), ha realizzato il suo sogno di aprire NAAR: un piccolo ristorante di soli sedici posti all’interno del Resort Amaya.


Dimenticatevi per un momento del Butter Chicken. Quel piatto tradizionale emblematico e decisamente delizioso con il pollo tenero che si sfilaccia tra i denti e la sua salsa cremosa e speziata nel quale è d’obbligo pucciare il naan. Anzi, scordatevi pure il naan, il roti, le samosas e tutto il resto di “tipicamente indiano”. Resettiamo la mente e le papille gustative e ri-educhiamoci insieme alla cucina indiana perché l’India è fatta di tante Indie. Con più di 5.000 anni di civilizzazione, il subcontinente è un miscuglio unico di antiche tradizioni e dinamismo culturale che si esprime in modo eterogeneo attraverso i suoi 1,4 miliardi di persone (equivalente al 18% della popolazione mondiale). Con più di cento lingue e oltre una dozzina di religioni, la diversità è una sua caratteristica fondamentale. E questo si rispecchia anche nelle incredibili diversità culinarie delle regioni. “Pensare a una unica cucina indiana sarebbe come pensare a una unica cucina europea”, spiega lo chef.
Prateek non ama parlare di “tradizionale” o di “autentico”. Ci racconta che molti piatti indiani etichettati come “tradizionali” hanno al centro il pomodoro, la patata o il peperoncino, tutti e tre ingredienti originari del Sud America che furono introdotti in primis in Europa e successivamente in India durante l’epoca coloniale. I primissimi ad approdare in India, infatti, furono i portoghesi con Vasco da Gama (1498), stabilendo basi lungo la costa e avviando le prime rotte commerciali. Furono sempre i portoghesi a introdurre il formaggio, una novità assoluta nella dieta indiana poiché fino ad allora “dividere” il latte era considerato peccato, spiega lo chef. Alla fine, siamo tutti figli di contaminazioni e di influenze esotiche, ingredienti adottati e ricette evolute nel tempo, in India come in Italia. Sorge quindi naturalmente la domanda che si fa Prateek: come possiamo definire “cucina tradizionale indiana” quella fondata su ingredienti sconosciuti prima del XV secolo? Cosa c’era prima? E come definiamo allora ciò che è autentico o moderno oggi? Mettiamo da parte queste etichette, lasciando che il Paese si esprima nella sua interezza e nella sua immensa e ricca diversità.
La cucina indiana sta vivendo un periodo di riscoperta e rinascita.
E ben venga allora questo nuovo spotlight internazionale più che meritato (e anzi, forse tardivo?) su Prateek Sadhu e altri chef come Himanshu Saini di Trèsind Studio a Dubai (primo chef indiano a ricevere le tre stelle Michelin, nel 2025), che lavorano da anni per comunicare al mondo che la cucina indiana è molto, ma molto, di più. La cover di aprile 2025 della rivista Bon Appétit è significativa, spiega Prateek. Raffigura il suo Sunderkala, un piatto della regione di Uttarakhand nell’India del Nord, a base di noodles (sì, ho proprio detto noodles) che difficilmente si assocerebbero alla cucina indiana, ma che effettivamente sono tipici di alcune zone nell’India settentrionale. È un’indicazione che la percezione, per fortuna, sta cambiando e nel suo post di Instagram lo chef scrive: “What a defining moment for indian food” (“Che momento decisivo per il cibo indiano”).


Torniamo quindi alle montagne, dove il tempo scorre senza guardare l’orologio e la natura regala albe imperdibili (e occasionalmente anche ragni enormi da brividi attaccati alla tenda della camera). A NAAR, Prateek propone una cucina indiana dell’Himalaya. La sua missione, infatti, è quella di svelare le storie inesplorate della catena montuosa, creando un’esperienza culinaria che sia sì creativa, ma anche espressione del territorio. Qui la natura detta il ritmo con le sue sei stagioni – primavera, estate, monsoni, autunno, pre-inverno e inverno – e il menu cambia ogni due mesi. D’estate ci sono i frutti a nocciolo, come le pesche, le prugne o le albicocche. Queste ultime crescono nei dintorni del ristorante, ma quelle ad altitudini ancora più alte “sono tra le più buone, dolci e succose del mondo”, spiega Prateek. Nella stagione dei monsoni, invece, si trovano arbusti di bacche come l’olivello spinoso o le “cloud berries”, dette mirtilli rossi o “more antiche”. A inizio aprile, durante la nostra visita, abbiamo visto la “golden Himalayan berry” (chiamata Hisalu), una piccola bacca indigena arancione che cresce lungo il percorso della nostra camminata al ristorante, e che, pur se disponibile solo per qualche settimana, viene inclusa nel menu.


Il foraging, infatti, è una parte fondamentale della cucina di Prateek, che lo pratica ormai da più di un decennio. E qui si fa sul serio: si va in zone specifiche per raccogliere determinate materie prime. Tutto chiaramente, “condividendo la natura con gli uccelli” e mai postando sui social la location, per salvaguardare gli ecosistemi naturali, ci spiegano, incarnando uno spirito di armonia ed equilibrio con la natura che si riscontra spesso nel Subcontinente. Recentemente Prateek e Aashina hanno organizzato un “foraging trip” (li chiamano così) per raccogliere le spugnole (a quanto pare altro prodotto incredibile della catena montuosa), ma non le hanno trovate. C’erano invece delle bellissime fragoline di bosco e quindi sono tornati al ristorante con quelle; si lascia che sia la natura a decidere. Poi, con tecniche di fermentazione, affumicatura, essiccazione, marinatura e stagionatura la cucina riesce a incanalare l’essenza di ogni stagione nei menu.
E poi c’è l’agricoltura: nei due ettari di giardino all’interno del Resort Amaya si coltivano “le basi”: peperoncino, cipolla, aglio, zenzero, curcuma e mais, ma anche frutta e verdura come il cavolo, i piselli dolci o le fragole. NAAR non è un ristorante vegetariano, ma c’è sempre l’opzione del menu degustazione vegetariano, una prerogativa non-negotiable in India. Per i carnivori invece, la proteina non manca mai, includendo ad esempio la trota – importata nell’Himalaya tramite un accordo con la Norvegia date le similarità di ecosistemi e di corsi d’acqua – l’agnello o il maiale.



Per lo chef viaggiare è anche, e soprattutto, una modalità per ricercare a fondo le radici e le consuetudini del territorio, non documentate e a rischio di estinzione, come in tante altre cucine “marginali”. “Amo andare a casa delle persone, è il miglior modo per imparare. Nelle case di montagna la stanza più grande è la cucina. È centrale per la vita di tutti i giorni, è la parte più calda (della casa) e qui si raduna tutta la famiglia, intorno al fuoco”, racconta Prateek. Ed è da uno di questi incontri che nasce il suo piatto iconico (e goduriosissimo): il Sunderkala, dei noodles di grano nero fatti a mano con brodo di timru (quelli della copertina di Bon Appétit, appunto). La sua cucina non ricerca l’ostentazione nella presentazione, l’obiettivo è creare piatti per l’anima che offrano un senso di benessere. E ci riesce proprio, tanto che una collega giornalista, a fine pranzo, confessa: “È una delle poche volte in un fine dining dove non conto quanti piatti mancano per arrivare alla fine”. E non posso che essere d’accordo.
Questo è tanto fun dining quanto fine dining.
Con questa mentalità, cura e dedizione, NAAR si presenta davvero come un epicentro di ricerca, innovazione e comunicazione dell’incredibile ricchezza e biodiversità regionale, in gran parte ancora sconosciuta al commensale medio (e sicuramente a “noi occidentali”). Un “New Nordic dell’Himalaya”? Chissà. Sicuramente i due mesi che Prateek trascorse al Noma nel lontano 2010 furono memorabili.


“I’m a city girl”, dice Aashina Kaul, ridacchiando in modo naturale e contagioso. Moglie, partner di vita e mano destra di Prateek, oggi è la tuttofare del ristorante. Pure lei è originaria del Kashmir, ma la famiglia fu costretta ad andare via, in fuga dalle violenze e dall’instabilità geopolitica che da tempo segnano la regione. Rimane tutt’oggi una zona complicata, contesa tra India e Pakistan (si trova al confine), con la Cina che ne rivendica la zona a nord-est, adiacente ad essa. Prateek ha avuto la fortuna di conoscerla un po’ di più da piccolo, e ora, insieme, la stanno riscoprendo. Prima di approdare nei pressi di Kasauli, la coppia si trovava nella metropoli, a Mumbai. “Città dei sogni”, città di Shantaram, città di contrasti, dove grattacieli moderni convivono accanto a baraccopoli. Verde e umida, ma con il lungomare di Marine Drive che offre un momento di respiro e di rifugio a qualsiasi ora. Aashina lavorava nel mondo del cinema indiano (in produzione, distribuzione e marketing), mentre Prateek era ai fornelli del ristorante Masque, tra le tavole fine dining più rinomate di Mumbai (lo abbiamo raccontato in Cook_inc. 25, ndr). Eppure, già ai tempi stava maturando l’idea di una cucina di montagna, dando inizio ai viaggi di foraging e portando i prodotti dalle montagne nella sua cucina.
“A Mumbai ho lavorato duro per sette anni per arrivare a quel livello. Il menu degustazione agli inizi era una novità e dovevamo farci capire”. Poi, nel 2022, cambia tutto. Aveva lasciato Mumbai e stava lavorando all’apertura di un locale a Nuova Delhi ma era tutto bloccato e i permessi necessari non arrivavano.
“A volte pianifichi la tua vita, ma la vita ha altri piani per te”, racconta. “Un giorno stavo guidando, e ho avuto un’epifania. Ho pensato, fuck it, devo andare sulle montagne”.
Sapeva dell’opportunità ad Amaya ma non era convinto, si chiedeva chi sarebbe andato a mangiare in un posto come quello, remoto e totalmente isolato; in India non è comune viaggiare per andare a un ristorante e sarebbe stato molto rischioso. Ma l’Himalaya lo stava chiamando, anzi, l’ha sempre chiamato, e così Prateek ha capito che era arrivato il momento giusto. Una scelta radicale che la famiglia e gli amici non capivano, perfino Aashina era un po’ scettica: “Avevamo alcuni risparmi e quindi gli ho detto: vai, prova, diamoci sei mesi e poi vediamo” racconta. Sotto sotto era convinta che sarebbe tornato indietro, alla city-life. E invece, come tutte le belle sorprese inaspettate della vita, è stata lei a salire verso Nord e a imbarcarsi in questa nuova vita, insieme. Un cambiamento totale, ma ben accetto e, col senno di poi, azzeccatissimo. “Mi sono buttato da un aereo senza paracadute e poi il paracadute l’ho costruito in volo”, racconta lo chef.

NAAR ha aperto le porte a fine 2023. È la definizione di destination restaurant: qui non ci capiti per caso. È il culmine di un progetto di crescita personale e professionale, la chiusura di un cerchio in un certo senso, ma anche e soprattutto l’inizio di un nuovo capitolo pieno di energia e vitalità che permea ogni spazio. Oggi, il ristorante è sempre pieno, la clientela è per oltre il 90% locale (a dimostrazione che la gente ci arriva “fin lassù”) ed è più una regola che un’eccezione che il tavolo del pranzo riparta al calar del sole.
“A Mumbai cucinavo per gli ospiti – racconta Prateek – qui cucino per me stesso e sono le persone che vengono da me. È importante amare quello che fai e continuare a divertirti. Se sei arrabbiato o frustrato, si sente. Si cucina con le mani e si mangia con le mani, l’energia passa da lì. Happy cooks make good food”.
E questo spirito si amplifica in tutta la brigata di cucina, dove lo chef si impegna a creare uno spazio aperto di dialogo e di crescita. D’altronde, è una destination anche per chi decide di andare a lavorare lassù, nel silenzio. Non è un caso, infatti, che il suo sous chef, Kamlesh Negi, sia con lui ormai da 13 anni e lo abbia seguito pure qui. Lo definisce la “spina dorsale” del ristorante e la loro è una bellissima relazione, una dualità complementare, tanto che Aashina lo definisce “la seconda moglie di Prateek” (ammettendo che, in fin dei conti, c’era prima lui di lei).
Segnatevelo, questo NAAR. Perché il nuovo capitolo di Prateek è destinato a durare. “Voglio continuare a cucinare anche da ultrasettantenne” annuncia, sorridendo e sollevando leggermente spalle e braccia, come se fosse quasi una frase scontata. Con spiccata curiosità, lo chef si lascia trasportare dalla creatività dettata dal ritmo della natura. In questo piccolo angolo di paradiso ha costruito il suo sogno ed è determinato a mantenerlo così com’è: niente espansioni, nessuna aggiunta di tavoli.


NAAR vuol dire fuoco in Kashmiri e rappresenta la passione di Prateek, la scintilla interiore che lo motiva, la gioia e la voglia di raccontare l’Himalaya al mondo. Per me è anche quel fuoco della casa di montagna, che raduna i commensali a condividere un pasto in family style con le pentole al centro della tavola, proprio come l’ultimo piatto del menu degustazione: Riso mushkbudij al pomodoro, tuorlo d’uovo marinato, salsa yakhni e maiale al barbecue.